“Sali d’argento”, il romanzo e la vita di Tina Modotti.

Tina ModottiGiulio Gasperini
AOSTA – Tina Modotti fu personalità complessa e sfaccettata. Una vita, la sua, che in pochi 46 anni è satura di tutto: partita dalla remota provincia di Udine per finire nel Messico di Frida Kahlo e Diego Rivera, per continuare nella Russia comunista del Comintern e nella Spagna delle Brigate Internazionali e per concludersi con il sospetto (e il mistero) di una morte in taxi. Una vita, quella di Assunta Adelaide Luigia Modotti Mondini, che spesso sconfina nella leggenda, come capita a tutte le persone che diventano ben più di un semplice essere umano, ma si caricano di valori e concetti altri (e alti). La recente mostra a Torino ha fatto conoscere a un pubblico ben più vasto la produzione fotografica di Tina Modotti, a cui si riferisce il titolo di questo romanzo di Luca De Antonis, edito nel 2014 da Rayuela Edizioni: i “Sali d’argento”, infatti, servivano per sviluppare le lastre fotografiche, grande apprendistato della giovane Tina.
Il racconto di Luca De Antonis è dettagliato e preciso, accompagna con precisione e puntualità nella complessa biografia di una donna che ebbe mille definizioni e compiti, ma che affascinò tutti comunque, senza distinzione né eccezione. La ricerca di De Antonis è dettagliata e puntuale, non lascia nulla al caso. La scrittura è scorrevole e leggera, così da accompagnare dolcemente il lettore anche nelle pieghe più profonde dell’intimità femminile. Terzo prodotto di un progetto interamente dedicato alle figure femminili, “Sali d’argento” è un degno compimento di questo intento. La storia scorre sulle pagine con scioltezza e semplicità, senza essere approssimativa né lacunosa. Ma la narrazione comprende anche la varia umanità – coralità diffusa – che tange e si incontra con la vita di Tina, che l’accompagna per un tratto, che la scorta e l’arricchisce di volti e caratteri. De Antonis racconta anche il dramma di un’Italia che perde i suoi cittadini, in fuga per un domani migliore, per un’opportunità insistente nel loro paese: eventualità, ahimè, che negli anni Dieci del Duemila è ancora drammaticamente evidente.
Tina Modotti, in questo senso, diventa paradigma di una vita che si realizza a partire da una nascita modesta, utilizzando soltanto i propri meriti e i talenti innati, senza lasciarli appassire né sfiorire in tempi morti o inutili. La Tina Modotti di De Antonis sarà pure forse un po’ idealizzata, idolatrata e osannata senza tener conto magari di alcune spigolosità caratteriali o umane, ma rimane indubbia l’evidenza che Tina Modotti sia una donna umanamente immensa, culturalmente fondante, artisticamente imprescindibile.
La testimone, ma anche la forgiatrice, di epoche lontane ma che hanno cambiato la storia dell’umanità. Pablo Neruda le scrisse un appassionato epitaffio; ma lei, alla fine, aveva una sola idea di sé stessa: “Mi considero una fotografa, e niente altro”.

La Zweisamkeit di “Anna” e Ezio: due solitudini in una.

AnnaGiulio Gasperini
AOSTA – Un palindromo è un “Verso, frase, parola o cifra che letta in senso inverso mantiene immutato il significato. Come la storia di due solitudini, quella di “Anna” e quella di Ezio, che a un certo punto si sorprendono e si smascherano. Nel nuovo romanzo di Francesco D’Isa, edito da Effequ, si esplora una doppia solitudine, che la pragmatica lingua tedesca riassume nella parola “Zweisamkeit”: “Einsamkeit vuol dire solitudine. […] Considerando che Eins vuol dire uno, e Zwei due, Zweisamkeit vuol dire all’incirca solitudine in due. Duitudine”.
Il romanzo di Francesco D’Isa ha una notevole leggerezza di scrittura, che però fa sprofondare il lettore negli abissi più oscuri e tetri della mente umana. È proprio la mente la protagonista indiscussa della narrazione: in particolare, esiste un collegamento vivissimo e sempre attivo tra i due protagonisti del libro, tra Anna ed Ezio, una paziente l’altro dottore che il caso della vita fa incontrare. Proprio da un’esitazione di Ezio, chirurgo, alle prese con bisturi e radioterapia, lieve come un battito di ciglia, scatena il dramma di Anna, donna di cui si ignora il presente e il cui passato è ancora più misterioso.
Da quel momento, i ricordi della donna si presentano alla sua mente con la consistenza e le immagini dei sogni, a tal punto che quel che dice risulta incomprensibile. E per risolvere il caso, Ezio si mette sulle tracce di una realtà alternativa, procedendo a ritroso e in sottrazione, ponendosi nell’alterità e rinunciando alle sue sicurezze anche cliniche. È un gioco pericoloso, perché fa addentrare il medico in un territorio del quale non conosce la strada per uscirne, però è presumibilmente l’unica maniera per incontrare Anna e per comprenderla interamente. La narrazione spesso si sofferma su momenti di grande solitudine, di confronto con il sé stessi più profondo: è una ricerca complessa e faticosa, che consuma e logora, ma è il punto di partenza per ricostruire. Il tutto è orchestrato in un ben costruito sistema metanarrativo di lettere e narrazioni, che fanno avanzare delle ipotesi e rendono più penetrante il messaggio del romanzo, coinvolgendo il lettore e riservandogli un ruolo da protagonista attivo.
Anna è il personaggio che più calamita, all’inizio: per la sua apparente solitudine, per il suo tentativo di ricominciare dal nulla, interrompendo qualsiasi contatto e rapporto col passato; un passato che subito si manifesta come ingombrante e faticoso, e del quale comprendiamo tutta la gravità procedendo nella lettura. Ma l’accelerazione del personaggio di Enzo è altrettanto interessante e coinvolgente, perché al contrario parte da certezze granitiche per finire sgretolato nell’indecisione e nel dubbio. Due solitudini, appunto, che compiono percorsi da palindromi, in entrambi i sensi. Nella vita degli individui, quello che conta, quello è di difficile gestione, è sempre il percorso; perché gli arrivi e gli approdi, spesso, possono essere confusi e sovrapponibili.

“La confessione”: il noir come esplorazione dell’umano.

La confessioneGiulio Gasperini
AOSTA – Un omicidio nella casa dei salesiani al Valdocco, a Torino; un ragazzo romeno che confessa subito; un investigatore (ex maresciallo dei Carabinieri) che indaga ma pare non scoprire nulla di strano: sembrerebbe che la morte di don Feronato non abbia nulla di anomalo. Ma, all’improvviso, si spalancano abissi umani nascosti e affiorano verità fino a quel momento insospettate. Ecco gli ingredienti del romanzo “La confessione” della torinese Giuliana Olivero, edito dalla casa editrice END Edizioni, di Gignod, piccolo paese della Valle d’Aosta, come primo volume della nuova collana “GialloAlpe”.
Il noir è un genere che si squaderna ampiamente, oltre la trama: la scoperta del colpevole è soltanto un aspetto, probabilmente persino trascurabile. Quello che nel noir interessa e colpisce sono i meccanismi di risoluzione, gli sviluppi, le articolazioni dell’umano che si declina e manifesta in varie gradualità. Giuliana Olivero ha, in questo senso, la capacità di tratteggiare raffinatamente la psicologia dei personaggi, in particolare quelli dell’ex maresciallo valdostano Hervé Farcoz e della sua socia Odetta Giachery: i particolari, i dettagli, le sfumature compaiono durante l’azione, seguendo il filo delle indagini. Non soltanto si compiono tentativi (e passi in avanti) nella risoluzione dell’enigma, ma si edificano le complesse architetture personali e interiori. Questi personaggi, però, abitano in un mondo ben più vasto, dove le incognite e le perplessità di si spalancano, lasciando intravedere inquietanti verità. È questa la sorpresa del noir: cercare di dare un senso al caos, ricomponendo una realtà che non è facile da ristrutturare perché densamente gravida di incognite e perplessità. Non è l’ambiente del giallo, dove la scoperta del colpevole fa tirare un sospiro di sollievo e ricrea (o almeno così c’è l’illusione) una realtà tranquilla e composta.
Giuliana Olivero ha una scrittura essenziale e uno sguardo ironico: non c’è nulla di superfluo né inutile in quello che racconta. E questo aiuta l’inabissarsi nelle profondità delle persone, dei loro segreti, dei loro legami, delle reazioni e dei pensieri che riguardano tutti. “La confessione” si legge divorandolo, macinando le pagine, assecondati da una curiosità irresistibile su cosa sia quell’elemento che ancora manca, che ancora non è stato compreso, su quello che ancora non è stato svelato; ma che c’è, come quel pensiero che girava, irrequieto, nella testa dell’ex maresciallo senza palesarsi.
Sullo sfondo c’è una Torino multietnica e affollata, una Torino dai grandi androni e gli eleganti colonnati ma anche dai mercati straripanti di venditori e compratori, di nuovi e vecchi cittadini; ma c’è anche una Valle d’Aosta lontana ma vicina (e sempre presente) soprattutto nei ricordi d’infanzia, di un passato che pare condizione tutelata e protetta, al quale puntare per chiudere il conto con sé stessi.

“Love song” e la fenomenologia del nuovo matrimonio.

Love songGiulio Gasperini
AOSTA – La storia di Federico Novaro è nota, approdata persino sul più grande palcoscenico della televisione italiana, quello di SanRemo. In molti si ricordano quei due uomini che raccontavano in silenzio, con modestia e persino con timidezza, attraverso raffinati cartelli, la storia del loro incontro, del loro innamoramento, della decisione di sposarsi. “Love song”, edito da ISBN Edizioni (2014), proprio come recita il sottotitolo, è la “storia di un matrimonio”, quello di Federico e di Stefano, celebrato a New York perché qua, in Italia, non è possibile. Come non è possibile nessun’altra forma legale di unione per due persone che siano dello stesso sesso. Federico Novaro sceglie di raccontare la storia sua e di Stefano preoccupandosi anche di discutere e di esaminare il concetto di “matrimonio”: istituzione che, oramai, è cambiata, al cambiare della società, perché dalla società stessa è stata definita e non può esentarsi dal cambiare lei stessa.
L’analisi di questa particolare istituzione va di pari passo, nel percorso di Novaro, con l’analisi di altri aspetti che completano e caratterizzano la società italiana attuale: dall’omofobia alla necessità di avere dei figli (negata agli omosessuali), alla presunta “normalità” che non esiste, ma che è semplice costrutto sociale. Il ragionamento di Novaro procede per domande, provocatoriamente rivolte ai lettori; questioni aperte e significative, che spesso vengono intenzionalmente sabotate dalla maggioranza dei “pensanti” e degli “opinionisti”. Il racconto della sua storia privata, della sua personale esperienza di marito anomalo, è incastonata in un’ottica ben più vasta: Federico e Stefano si scoprono presto coppia pubblica, il loro un gesto che si guadagna l’importanza della ribalta e diventa prezioso per chi si trova in quella medesima situazione; ma non solo. È un gesto che spezza l’omertà e riporta il discorso all’interno di binari dolorosi per tutti, per varie ragioni: per chi viene scoperto nell’oggettivo errore di una strenua difesa anacronistica (potente perché “legale”) e per chi, invece, deve ancora lottare contro codesta difesa e non ha dalla sua armi legislative.
Quella di Federico è finanche la confessione di chi, in nome di un’ostilità anti-borghese (vista come maggiore impedimento e strutturazione sociale giudicante di certe alterità), rifiutava il matrimonio proprio come concetto e poi invece si arrende all’idea che, tutto sommato, la libertà sta proprio nell’aver a disposizione certi strumenti e nel decidere se utilizzarli o meno. Perché il punto centrale sta proprio qui: non si discute tanto se il matrimonio possa essere utile, necessario, una scelta intelligente o una boutade; si discute sulla mancata possibilità per certe persone, nel nostro paese, di accedere a dei diritti che invece appartengono soltanto ad altri (che spesso li trascurano o li maltrattano): “Non c’è alcun dubbio che il matrimonio mantenga dei caratteri sessisti ed eterosessisti, e che il sostenerlo sia una battaglia dai tratti conservativi, ma ecco: prima facciamo che possiamo fare tutt’e due la stessa cosa, poi, magari, cominciamo a demolirla”. E i diritti, secondo un criterio che potrebbe essere persino giuridico, o sono di tutti o non sono di nessuno.

Le strade del Morellino: quando il vino è appagamento sensoriale.

Strade del MorellinoGiulio Gasperini
AOSTA – Senza dubbio è un vino tra i più famosi al mondo. È uno dei più pregiati e dei più apprezzati. Ma anche, uno dei più “misteriosi”. Qual è il vero Morellino? È una questione ancora aperta e dibattuta, che non ha un epilogo sicuro. Il Morellino non ha ancora una definizione. Matteo Teodori ha percorso le colline maremmane incontrando e parlando chi col Morellino ci lavora e ha un legame speciale: produttori, agricoltori, imprenditori di uno dei vini più affascinanti che esistano. E ne ha scritto un libro esile e incalzante: “Strade del Morellino. Storie e avventure di un vino famoso nel mondo”, edito dalla casa editrice orbetellana Effequ (2014) nella collana “Ricettacoli”. La narrazione prosegue liscia e vellutata, proprio come un bicchiere di vino, che soprattutto in compagnia tiene accesa l’atmosfera e aiuta la conversazione. A intervallare il racconto, varie ricette tipicamente toscane che prevedono l’accompagnamento di questo vino rosso e robusto: dalla salsa di fegatini allo stracotto di cinghiale alla scottiglia cucinata già, pare!, dagli Etruschi. E sono proprio gli Etruschi il leggendario popolo che, secondo alcune teorie, ha introdotto la coltivazione della vite, anche se i dati più certi e sicuri sulla produzione risalgono all’epoca romana, quando i vini prodotti in queste terre venivano commerciati in tutti i porti del Mare Nostrum, come testimoniano le tante anfore che riportano il marchio SEST, ovvero della famiglia dei Sestii, nobili che operavano nelle zone rurali della Maremma. Teodori ripercorre tutta la storie e le alterne vicende di questo vino con ineccepibile maestria, mostrandoci come siano complessi i meccanismi dell’enogastronomia e del gusto. Estremamente curiosa e interessante anche l’“inchiesta” su quale sia la vera ricetta del Morellino, quali i vitigni, quale la composizione, quali le dosi e i rapporti. Perché, in realtà, pare che ancora nessuno abbia le idee molto chiare sulla formula magica che crea uno dei prodotti più deliziosi dell’enogastronomia italiana. A renderla ancora più concreta, sono le parole delle persone che con il Morellino vivono e lavorano direttamente, che hanno scelto la coltivazione della vite e la produzione di questo capolavoro che tutti conoscono e il cui nome rotola sulla lingua di ognuno con estrema soddisfazione. Gli stravolgimenti climatici che hanno colpito l’Italia in generale e la Toscana nel particolare senza dubbio non gioveranno alla sopravvivenza del Morellino. Però rimane sempre in testa la frase del grande Leonardo, che aveva capito l’importanza della vite per del suo prodotto: “Et però credo che molta felicità sia agli homini che nascono dove si trovano i vini buoni”.

Gli omuncoli e altre storie: tutto l’azzurro della Russia

Gli omuncoli e altre storieLuca Vaudagnotto
AOSTA – “Gli omuncoli e altre storie” va letto in una luce azzurra, perché azzurre sono la Russia di questi racconti e San Pietroburgo; azzurro come l’impermeabile che indossava l’autrice, Elena Schwartz (1948-2010), in visita ad Anna Achmatova (di cui leggiamo nelle brevi memorie qui presenti), azzurro come la pelle dell’angelo che chiude uno dei sogni narrati. Basterebbero due elementi per fermare in un’immagine la particolare raccolta di racconti, sogni, ricordi, edita dalle Edizioni del Foglio Clandestino: la presenza dei grandi nomi della letteratura russa (ritroviamo, infatti, Gončarov, Gogol’, la Cvetaeva, Puškin, per riportarne solo alcuni), a volte ingombranti, ma confronto imprescindibile per l’autrice, e l’elemento soprannaturale, il gusto per il bizzarro, il grottesco, l’extra-ordinario, così tipico della cultura popolare russa e che permea tutta la raccolta.
La Schwartz, lungo il filo di questi racconti quasi aneddottici, summa di un modo tutto russo di vivere e concepire l’esperienza umana, sembra condurre il lettore attraverso i diversi stadi di maturazione della sua critica al regime comunista e alle sue derive successive: si inizia con la lucida analisi degli anni settanta, presente nel primo racconto (non dimentichiamo che la poetessa ha frequentato per lungo tempo gli ambienti intellettuali sotterranei, non allineati di San Pietroburgo) e che ha come modello evidente Gogol’, anch’egli fortemente critico verso la Russia del suo tempo (possiamo leggere, infatti, gli “omuncoli” del titolo come epigoni delle “Anime morte” gogoliane). Si prosegue con il recupero della tradizione popolare attraverso l’elemento paranormale, definito dalla Schwartz «il vecchio tessuto dell’esistenza reale», che il regime sovietico aveva tentato di sradicare, ma che con tenacia è resistito nella cultura russa: tutti i racconti-tableau della seconda parte ne sono intrisi, tanto da poter essere considerato una forma di resistenza alla dittatura. Si giunge infine alla dimensione onirica, che appare quasi un rifugio, per chi ha vissuto sia l’oppressione del totalitarismo, sia la finta libertà del capitalismo dei “nuovi russi”, per non occuparsi più delle faccende di questo mondo («I sogni, come l’ispirazione, discendono dal flusso della vita, non sono la vita, ma intanto che c’è di più importante dei sogni per la nostra anima, che c’è di meglio dell’ispirazione per essa?»).
In mezzo alla raccolta, composta da racconti talmente brevi da somigliare ad un album di istantanee, troviamo una sorta di diario, che permette di comprendere come questa evoluzione del pensiero nella Schwartz non sia altro che uno specchio delle sue esperienze di vita: si ripercorre, infatti, il suo vissuto di poetessa “underground” ante-litteram, poi di voce narrante nota solo all’estero e di poetessa, infine, riconosciuta ed apprezzata in patria.

“La testa aspra” in un’aspra società.

La testa aspraGiulio Gasperini
AOSTA – “La vita agra”, intitolò Bianciardi. Era un periodo (e una società) di sofferenza umana, lavorativa, professionale; ma non creativa. Si emigrava per trovare qualcosa e si soffriva del distacco. “La testa aspra”, ha intitolato Filippo Parodi questa raccolta di brevissimi racconti, edita nel 2014 da Gorilla Sapiens Edizioni. Quasi una sorta di mitragliata narrativa: frammenti aguzzi e taglienti che sono sparati in ogni direzione, come i ciuffi di una testa aspra che chissà quali pensieri partorisce: “Puntando lo sguardo al cielo lo invoca, quasi supplicandolo di sostituirsi con la sua violenza celeste ai pensieri, ai campi di sterminio che produce senza interruzione la mente”.
Filippo Parodi tenta attraverso questi racconti di presentarci sfaccettature multiple (e complesse) di una società che oramai è diventata multipla (e complessa) nonostante la banalità del vivere. I punti di vista che assume nei racconti sono ammiccanti, particolari, danno persino il capogiro di una distanza alla quale non si è abituati. Sono personaggi improbabili ma attuali, assurdi nella loro precisa conformazione contemporanea. Sono azzardi, persino: forzature di un quotidiano che non ha più nulla di a-normale ma che oramai è piena norma e definizione.
Troviamo la gratuita crudeltà di un controllore di autobus che riesce a imporsi soltanto contro un’anziana signora carica di borse della spesa e dalle caviglie gonfie (mentre tutta l’altra società la respinge e la contrasta, in nome di una legalità falsata dalla prospettiva); troviamo un’appassionante narrazione della dimenticata vita della dimenticata Rosalba Bonelli, cantante folk della profonda provincia trentina; troviamo una varia umanità che cerca di sopravvivere, con i mezzi che ha, alla crudele realtà di una società come quella attuale, dove paiono scomparsi tutti i punti di riferimento, gli obiettivi, i significati profondi, i modelli, gli esempi e le giuste prospettive.
Aspro è anche il linguaggio, ma ancora di più lo stile, il procedere incalzante di frasi brevi e incisive, quasi lame che affondano danno dolore e lasciano un segno non eccessivo ma significativo. Aspro è il ritmo che Parodi usa per dare corpo e sostanza a quest’umanità improbabile e a tratti allucinata, azzardata, imperdonabile ma anche da guardare con compassione e arrendevolezza; sempre al limite del giudizio tra buono e cattivo, tra giusto e sbagliato, tra sensato e completamente privo di senso.
Ma quest’umanità cerca o no l’assoluzione? È alla ricerca, o no, di un perdono, di un’altra occasione, di un riconoscimento pubblico che la autorizzi a continuare così? Forse no. Ed è questo l’aspetto più allucinato dei racconti di Parodi: come a dire che, ahimè, è così e poco si può fare per cambiare.

“Le regole della rosa” in una poesia naturale.

Le regole della rosaGiulio Gasperini
AOSTA – La poesia di Emilio Paolo Taormina è una poesia del silenzio: i suoi sono componimenti brevi, schegge di immagini che esplodono in una manciata di parole e rompono la superficie, come fa un sasso con l’acqua di un lago. In “Le regole della rosa”, edito da Edizioni del Foglio Clandestino nel 2014, la poesia di Taormina si concreta in tanti frammenti di scenari, in brevissimi nuclei di significati e significanti che spesso partono e gemmano da un’esplosione naturale, da una componente vegetale o animale, o anche solo cosmico-astrale, che rischia di configurarsi come correlativo oggettivo di un interiore e non espresso sentimento.
I rumori si placano nella poesia di Taormina, lasciando spazio all’occhio che si spinge in profondità, fino a cercare di cogliere i significati più profondi e complessi: “All’alba / la luna è una / medusa / un tamburo / senza suoni”. Anche quando vengono evocati aderiscono alle immagini, saldandosi assieme e creando un’evocazione unica: “Per le scogliere / all’alba / i gridi / dei gabbiani / sono grigi / affilati / come lame”. Più che suoni sono messaggi, si concretano in immagini estreme, audaci e feroci: “In questo freddo / di neve / i tocchi / delle campane / sono freddi / come coltelli”. La bocca si secca, le parole sono vuote, prive di significato, il vocabolario perde la sua funzione e non rimane che rimanere muti: “Le parole / dei marinai / seccano al sole / odorano / di alga e di sale”.
È la Natura il metro di tutto, è lei che dà cadenze e ritmi, è lei che dà il valore e che amministra i ruoli. Può essere persino la misura di una solitudine umana: “È cresciuta / l’erba / sul viottolo / che porta a casa / nessuno / viene più / a cercarmi”. La Natura diventa persino ricordo, fragile reliquia dell’illusione del tempo che inesorabile trascorre e accelera: “Resta appena / l’aroma dei limoni”. È persino vettore di emozioni tra il poeta e il tu di riferimento, figura non definita e sfumata che è musa e destinataria delle sue parole: “Il cielo del mattino / azzurro cenere / sorge / dai tuoi occhi”. Fino ad arrivare al massimo di uno straordinario panismo, un’identificazione totale tra umano e naturale: “Tu sei donna / e stella marina”. È la Natura l’entità suprema contro la quale ci si trova a combattere per salvare ogni singolo aspetto del noi; ma è anche una battaglia già persa, una sconfitta irrimediabile: “Giocheremo / con la sabbia / e le foglie morte / del giardino”. Perché la Natura è anche ferina, animata da uno spirito selvaggio che non rinuncia alla vita, non depone mai le armi senza lottare all’ultimo respiro: “La volpe / azzannata dai cani / è venuta a morire / sotto il noce / nella bocca serrata / ha dell’ultima lotta / un respiro gelato / è sempre difficile / capire / dove finisce la vita / e inizia la morte”.
Ma l’uomo, ovviamente, la Natura la ferisce, la strazia, la viola: “Sacchetti / di plastica / lattine / accartocciate / una bottiglia / su una panchina / il silenzio / è una piaga / dolorosa”. L’uomo cerca di trasformare la Natura in un suo possesso, in uno strumento e arma per alimentare le sue bassissime pretese: “Ho seminato / semi di ortica / sul tuo corpo / in modo / che nessuno / possa abbracciarti”. Ma ogni uomo torna nella Natura, a compimento del suo naturale destino: “Ora siamo / polvere di rose / cenere di radice / anche una piuma / rema l’aria / varca la porta / del tempo”. Nello stesso modo, alla fine, in cui si consuma la poesia, destinata a estinguersi: “Il vento storce / la pioggia / scudiscia gli ulivi / mansueti / dentro di me / un fuoco / brucia / parole e versi / come quaderni / sulla brace”.

Patrick Modiano, Premio Nobel per la Letteratura 2014

NObelROMA – Patrick Modiano, scrittore francese classe 1945, è il nuovo Premio Nobel per la Letteratura. Figlio di Albert Modiano, un ebreo francese di origini italiane, e di Louisa Colpijn, un’attrice belga di etnia fiamminga, Modiano è tra i più importanti narratori francesi contemporanei. Introdotto giovanissimo nel mondo letterario da Raymond Queneau, conosce e collabora con l’Editore Gallimard. Del 1967 è il suo primo romanzo, La Place de l’Etoile, che gli vale il Premio Roger Nimier. Con Rue des boutiques obscures, nel 1978, vince il Goncourt. Negli anni, mentre continua a scrivere, è documentarista per Carlo Ponti e paroliere per Françoise Hardy. Nei suoi romanzi, per lo più ambientati nella Parigi occupata dai nazisti e costruiti intorno alla figura dello straniero, dell’esule, dell’ebreo, si intrecciano una vena disperata di ascendenza esistenzialista ed il gusto della rievocazione. L’autore rievoca molto spesso, nei personaggi dei suoi romanzi, l’ambigua figura del padre, un ebreo vittima del Nazismo, che, arrestato nel 1943, si dimostrò pronto a tutto per sopravvivere.

MODIANOTra i suoi libri tradotti in italiano ricordiamo “Caterina Certezza” (Donzelli, 2014), “L’orizzonte” (Einaudi, 2012),”Dora Bruder” (Guanda, 2011), “Bijou” (Einaudi, 2005) , “Un pedigree” (Einaudi, 2006) e “Nel caffè della gioventù perduta” (Einaudi, 2010).

 

 

“Ho sempre pensato che certi angoli delle vie siano degli amanti e che si venga attirati da loro se si cammina nei paraggi”.
(Dans le café de la jeunesse perdue)

Yahya Hassan: la poesia violenta di un’identità.

foto-20Giulio Gasperini
AOSTA – È stata la raccolta poetica più venduta in Danimarca. Accanto ai nomi di Karen Blixen, di Søren Kierkegaard, di Hans Christian Andersen, Yahya Hassan ha imposto anche il suo, che campeggia deciso, bianco su fondo nero, sulla copertina della sua silloge (Rizzoli, 2014); che non ha titolo, tranne, appunto, il suo nome. Yahya Hassan è un palestinese, classe 1995, apolide. Il suo passaporto, adesso, è danese. Ma la sua storia è quella di un ragazzo in cerca di un’identità. Una ricerca feroce e tremenda, che lo ha portato in tante comunità adolescenti (“E quanti tutti sono stati picchiati e mandati nelle stanze / si beve il caffè”), separato dai genitori e dai fratelli, in una ribellione continua a una cultura di origine che oramai era lontana e a una cultura di arrivo che lo rifiutava e non lo accettava: “A scuola non si può parlare in arabo / a casa non si può parlare danese”.
Violando qualsiasi regola della netiquette, le poesie di Yahya sono tutti scritte in maiuscolo, quasi fossero gridate dalle pagine bianche. E quello di Yahya Hassan è proprio un grido, feroce, furioso: è una protesta indocile, cruda. L’umanità viene scarnificata, ridotta all’essenziale; e l’essenziale è violenza, spesso gratuita ma in ogni caso pare imprescindibile, irrimediabile. Yahya non si fa problemi nel raccontare aspetti cruenti e mortificanti: tra le righe è però evidente il disagio, il rischio dell’annichilimento, l’ostilità verso un modo precostituito e completamente attrezzato nel difendersi contro un nemico inesistente. Il conflitto con il padre (“Cinque figli in fila e il padre con la mazza”), l’ostilità verso una nuova madre con nuovi fratelli e sorelle (“Ma sua moglie dice / che non devo toccare i suoi figli”), diventa ben presto exemplum di un’ostilità rivolta all’autorità, che comanda e bastone, che impone e obbliga, piuttosto che cercare di comprendere ed armonizzare: “Altri educatori / spaccano il vetro e mi danno una ripassata”.
La lucidità di questo diciannovenne è incredibile, sbalorditiva: “E tu dici che vorresti / non fossimo mai nati”. Meglio di qualsiasi trattato di sociologia o antropologia riesce a coinvolgere il lettore, a trascinarlo in una serie di teorizzazioni (sotto forma di poesia, ovviamente) che riguardano la nostra epoca, i nostri nuovi anni Dieci. L’integrazione fallita, il rifiuto di un modello di meticciato, l’inesistente disponibilità all’accoglienza: “È così che si muove il traffico / fatto in un autobus fermo al rosso al Digterparken / un gruppo di negri scende a Søren Frichs Vej / oltre il ponte – un altro ghetto”; e, di conseguenza, il riaffermarsi di modelli autocratici e razzisti, l’incapacità di gestire l’alterità (“Lo psichiatra controlla a tutti la testa e il culo / e le bocche vengono riempite di psicofarmaci”), l’individuazione di un capro espiatorio che sia “l’altro”, il “diverso”, la minoranza debole e scarsamente difendibile: “13 anni e ricercato salgo su un treno per la Danimarca”.
Spesso, però, come si evince da queste poesie, è la stessa minoranza che non può fare a meno di sentirsi tale: circondata dall’odio, dal disagio dell’incontro, dall’ostilità più o meno aperta rischia di diventare referente di (e a) sé stessa. E di nuovo si richiude in forme ancora più crudeli di esclusione e precarietà: “Sono sonno senza sogni / come una spia in isolamento volontario”.