Novità dalle Edizioni Coccole e Caccole

ROMALe Edizioni Coccole e Caccole presentano diverse novità nella collana I Quaderni della Scuola; tra queste c’è “Una bidella per amica”, il libro di Sandro Natalini con le illustrazioni di Antongionata Ferrari. Il racconto è un piccolo universo di personaggi femminili visti con gli occhi curiosi di un bambino nei cinque anni passati alla scuola Giuseppe Mazzini: bionde, brune, basse, magre, più larghe che lunghe, truccate come dive di holliwood, affettuose come nonnine, persino tatuate motocicliste… sono loro, le impavide eroine della scuola: le bidelle!

 

Invece, dalla penna del bravissimo Antonio Ferrara nasce “La maestra è un capitano” (illustrazioni di Anna Laura Cantone) Il racconto in prima persona di una coraggiosa maestra dei nostri giorni, alle prese con i mille impegni paralleli della professione e della vita privata. La nostra impavida e umanissima maestra, eroicamente, a volte in solitudine, affronta con la stessa intraprendenza i virus influenzali e la carenza di carta igienica, la convivenza e le tabelline… Sempre con entusiasmo, con tenera tenacia. Con un formidabile rispetto per i suoi bambini.

Grandi letture ad un prezzo piccino picciò.

Marianna Abbate
ROMA – Certe buone idee non hanno bisogno di essere nuove. Specialmente in questo momento storico/politico, la scelta di riciclare vecchie buone idee ha un sapore ecologico e salutare. E così la cara vecchia Newton Compton, storica editrice romana si è rinnovata ancora una volta frugando nei vecchi magazzini.  Nota bene: la Newton Compton ha sempre avuto buone idee, tanto che negli ultimi tempi da piccola casa editrice è diventata una media abbondante, e chissà cosa le riserverà il futuro.
Comunque veniamo a noi. Il punto di forza di questo editore è da sempre stato il prezzo: se guardate bene nelle vostre librerie troverete sicuramente i mitici volumetti da mille lire. Con il passaggio all’euro i libricini sembravano spariti dalla circolazione, sostituiti dai grandi romanzi rosa, un po’ commerciali, a 9,90 euro. Libri da spiaggia, diciamolo, ma con una particolare attenzione alla grafica e alla copertina.

Ed ecco che, camminando tra gli scaffali di un negozio di articoli elettronici mi trovo davanti ad un cesto pieno zeppo di libri: tutti ad 1 euro meno 1 centesimo. Copertine coloratissime e autori ultranoti. Ho approfittato subito per accaparrarmi un Grande Gatsby da regalare a quella capretta del mio ragazzo, che al cinema durante “Midnight in Paris” mi ha sussurrato “Fitzgerald chiii??” facendomi vergognare come un ladro.

Orbene, educare il proprio fidanzato ha un prezzo: un prezzo molto basso, che tutte siamo disposte a pagare. Mi stanno venendo in mente mille slogan promozionali per la collana, ma li terrò per me.

Per me ho preso tre libricini carinissimi: “Le notti bianche” di Dostoevskij, “Lady Susan”della Austen e “Il ballo” della Nemirovsky. Per ora ho letto solo “Il ballo”: un racconto piacevolissimo sulle contraddizioni della società e sulla moralitas tra aristocrazia e nuovi ricchi negli anni ’20, applicabile facilmente ai giorni nostri.

Ma chi vuole può trovare Seneca, Poe e persino un libro sui vampiri che ho guardato un po’ incredula. Comunque il mio consiglio è: fatevi una bella scorta e preparate delle monete. Mica potete pagare con la carta 2.97 euro per 3 libri!

“La neve nell’armadio”: spiegare “la vergogna del mondo”

 

Marianna Abbate

ROMA – “La storia/ quella vera/ che nessuno studia/ che oggi ai più da soltanto fastidio”: Sono questi i primi tristi versi della poesia di Nelo Risi che Mottinelli ha scelto per intitolare il suo saggio “La neve nell’armadio” Auschwitz e la “vergogna del mondo” edito da Giuntina.

Vi riporto questi versi perché io stessa ho sperimentato il fastidio delle persone al mio ennesimo ritorno sulla questione dei campi di concentramento: è un’ossessione, mi dicono, sei depressa e ti crogioli nella tragedia. Ci ho riflettuto a lungo su queste parole. Perché sì, è vero che parlo di Auschwitz spesso. Lo riporto alla memoria di chi porta la croce celtica al collo, di chi osa dire che Mussolini era un grand’uomo, di chi difende il fascismo o accusa gli ebrei. Lo ricordo a chi tranquillamente non cambia canale quando in televisione torturano qualcuno, a chi non mostra pietà per le vittime delle tragedie quotidiane.

Questa tragedia abita il mio cuore, è vero. Ma non è un’ossessione: è un obbligo morale.

Mottinelli ci avvicina ad Auschwitz in una direzione nuova: l’analisi della vergogna. Una vergogna innominata che aleggia su tutti gli eventi che riguardano la Shoah. E una vergogna che inspiegabilmente non appartiene ai carnefici ma alle vittime, che ferisce ulteriormente chi già ha subito le peggiori torture del mondo.

L’autore ci spiega come questa vergogna cambi volto nelle diverse rappresentazioni del campo di concentramento. La vergogna quasi completamente assente come parola nel documentario, lungo oltre 9 ore, di Lanzmann Shoah, pronunciata una volta sola: eppure pienamente presente in ogni immagine, nei silenzi e negli occhi di chi racconta la sua testimonianza, incalzato dal meticoloso regista.

La stessa vergogna si può ritrovare nei racconti di testimoni, nei loro scritti. “Provavo vergogna per loro, per come ci avevano ridotte” dice Goti Bauer. Con un semplice transfer la colpa passa dal carnefice alla vittima, secondo lo stesso meccanismo che segna di peccato l’oggetto di una violenza carnale. E’ il torturato stesso a cercare in sé improbabili colpe, per giustificare la terribile pena che ha subito.

La vergogna ha mille volti: quello del Sonderkommando che non ha saputo ribellarsi al terribile compito, quello di chi non ha saputo guardare in faccia l’assassino, di chi non ha alzato la voce quando davanti ai suoi occhi uccidevano un bambino. La vergogna ha il volto di chi è tornato e non lo meritava, insultato in faccia da chi aspettava che tornasse l’altro. Ha il volto di quello che non riesce a guardarsi allo specchio, ripensando agli atroci martiri che ha subito, alle umiliazioni che ha sopportato.

Ha il volto di Primo Levi, che si guardava disgustato della propria bassezza quando supplicava per un tozzo di pane. Quella stessa vergogna che lo portava a chiudere con attenzione i polsini delle camicie per non mostrare quell’orribile tatuaggio. Quel numero che era impresso nelle sue viscere, e che ormai era il suo vero nome.

La vergogna ha un peso. Forse il più insopportabile.

Come spiegare altrimenti i lunghi silenzi dei salvati? La fatica a trovare le parole che potessero spiegare quello che si è vissuto? Come far capire Auschwitz?

Quel campo per molti è diventata l’unica casa possibile, l’unico posto da abitare. Il luogo dove si sentivano compresi.

Fuori da queste mura non c’è un posto da vivere per chi ha “vergogna del mondo”.

 

 

“La mancanza di gusto”, il racconto di una famiglia

ROMA“Tornerò. Tra un mese o tra un anno, senza una ragione o per un matrimonio, supplicata da mia madre, contrita o contenta di essere qui, per un raduno di famiglia o per un funerale. Tornerò a controllare di chi si tratta. Approderò qui per curare un malessere, una solitudine e mieterne altre. Poserò le valigie, non mi tratterrò a lungo, eh, solo qualche giorno, per ascoltarli, per guardarli vivere. E poi riprenderò il treno, intenerita, irritata o cupa. Un giorno, il mio ultimo giorno qui, sarò confusamente atterrita all’idea di non aver saputo conservare qualche frammento delle loro esistenze per evitare che sfumino, silenziose. Questa casa diventerà il mio paradiso perduto, un po’ nauseante, quello che già sto tessendo. Bello, chimerico e triste. Come quello di un qualsiasi vecchio rimbecillito”.

È la casa del bisnonno, quella che raccoglie quattro generazioni nella settimana di ferragosto. È la casa, un castello, nella quale si cerca rifugio e riposo lontano dalla calura parigina. Ed è tra queste mura sospese nel tempo che Mathilde torna.

Mathilde è la protagonista di “La mancanza di gusto”, il libro di Caroline Lunoir pubblicato da 66thand2nd.
Giovane avvocato parigino, Mathilde arriva nella casa delle vacanze in un caldo giorno di agosto e, ad accoglierla, ci sono i nonni e i prozii, testimonianza fisica di un tempo che è passato e sta finendo. Delle loro vite, così intense di accadimenti, di gioie, dolori e momenti difficili, Mathilde constata che ormai sono ridotte al ricordo. Ma di queste persone, radici del suo albero genealogico, forse non ne ha la stessa forza. Mathilde non è abituata alle sfide dei suoi avi: la guerra è un avvenimento che si completa nei libri di storia, ai suoi occhi – e a quelli della sua generazione – avrebbero dovuto essere tutti partigiani perché a posteriori la vita è semplice, la guerra è semplice. La storia, però, è stata un’altra, la guerra è stata di più di uno scontro armato. La guerra è stata nelle vite di ognuno, nelle scelte e nelle conseguenze. E, a bordo di quella piscina che raccoglie generazioni a confronto, Mathilde pensa alla generosità della vità nei suoi confronti. Lei la storia la guarda dal bordo di una piscina in un castello della Francia, protetta e intrappolata in una famiglia che osserva dalla sdraio un mondo borghese che sta implodendo.

 

Vedi qui la video intervista all’autrice realizzata con ITvRome

Dopo il successo di “Eden”, Alessandro Cortese ritorna in libreria con un nuovo audace romanzo: “Ad Lucem”

Alessia Sità

ROMA –  “Striscerai sul ventre e mangerai la polvere per tutti i giorni della tua vita”.
Dopo il fallimento della congiura contro il Grande Padre, gli angeli colpevoli del complotto sono stati puniti crudelmente e scaraventati nell’Abisso. In “Eden” il desiderio di libertà di un intero popolo finisce per essere ‘schiacciato’ dall’implacabile furia di Yahweh. Umiliati ed esiliati per sempre, il destino dei sopravvissuti sembra ormai essere quello di strisciare fra i cadaveri sino alla totale estinzione. E’ con questo scenario che si apre “Ad Lucem” il nuovo audace romanzo di Alessandro Cortese, edito da ARPANet. Per Lucifero ha inizio un lungo e doloroso viaggio alla scoperta dei profondi meandri dell’oscurità. L’angelo ribelle, colui che sfidò il Monarca Supremo, diventa il punto di riferimento di tutti coloro che hanno sperato nella libertà, ma che adesso sono costretti a vivere nel baratro, vessati da infinite sofferenze. Il desiderio di riscatto e la vendetta, guideranno il Custode del Lume alla ricerca di nuovi alleati per costruire la “Città del Fuoco”: Ade. Nuovi interrogativi e sconvolgenti rivelazioni porteranno i protagonisti di “Ad Lucem” alla scoperta della verità. Arpie, grifoni, ciclopi, chimere seguiranno l’Angelo nel suo progetto di risalita al regno del Grande Padre. In “Eden” Lucifero aveva amato Eva fino alla rovina, adesso l’entrata in scena di Lillith – la creatura ribelle creata dalla polvere esattamente come Adamo – stravolge completamente quel sentimento che lo aveva totalmente annichilito. Dopo la terribile punizione divina, il Signore degli Inferi “non avrebbe permesso all’amore di fare altro danno” e soprattutto non avrebbe più permesso al Despota di sfruttare le sue debolezze.
Misticismo, esoterismo, antiche leggende, contribuiscono a conferire un tono di estrema solennità a tutto il romanzo. L’eterna battaglia fra il bene e il male sembra ormai essere il ‘leit motiv’ che anima la narrativa di Alessandro Cortese. Ancora una volta, nulla è lasciato al caso, ma ogni elemento contribuisce ad arricchire l’intreccio. La stessa struttura del libro, diviso in prologo e cinque parti: “Ministero nell’Abisso”, “Adunanza”, “Lo Schema”, “L’arte della Guerra” e “Le regole del gioco”, ne è un chiaro esempio.
Ancora una volta, Cortese spinge il lettore a interrogarsi sulla “Creazione dell’Universo”, sulla vera natura del Supremo e sulla Sua reale bontà divina.

“L’estate di Camerina”: una sconvolgente normalità


Silvia Notarangelo

ROMA – Mancanza di certezze, personaggi tormentati o trepidanti, storie destinate a non avere un epilogo. Sono questi i tratti principali de “L’estate di Camerina”, suggestiva raccolta di racconti di Mauro Tomassoli (Avagliano Editore).
Partendo da situazioni quotidiane, talvolta persino banali, l’autore, con una narrazione incalzante e mai scontata, ci trasporta su un terreno insidioso e inafferrabile, quello delle emozioni. La gioia per un’amicizia ritrovata, il timore di un gesto violento, l’inquietudine e la curiosità suscitate da tutto ciò che non si conosce. Ci sono emozioni che sfuggono spesso al controllo soprattutto quando, nella vita, irrompe l’imprevedibile, quel qualcosa di inatteso capace di sconvolgere ogni piano. Uno spavento notturno, coincidenze e presentimenti inspiegabili, una meta che sembra a portata di mano, eppure continua a essere irraggiungibile.
Tutte le situazioni descritte nei nove racconti lasciano presagire una svolta. Ed è proprio di fronte a questa possibilità che le reazioni umane si rivelano estremamente eterogenee. A volte prevale la razionalità, altre l’istinto di sopravvivenza, altre ancora il desiderio di riconciliarsi con il passato o di condividere un segreto.
Si cerca di usare la testa, ma spesso si finisce per fare i conti con pulsioni e istinti incontrollabili che riescono, a poco a poco, a insinuarsi nella mente, facendo vacillare anche le più ferree convinzioni. Capita, così, che alcuni si lascino trasportare, attratti dall’idea di rendersi protagonisti, di misurarsi con una sfida impossibile, altri invece preferiscano abbandonarsi al corso degli eventi, rassegnandosi a un ruolo di spettatori.
E poi c’è la paura, quell’emozione che può confondere e rendere impotenti tanto da prospettare una sola via d’uscita: “invertire la marcia e scappare”.

Il Vaticano, protagonista indiscusso tra fantasia e realtà.

Marianna Abbate
ROMA  – Di libri sui segreti complotti del Vaticano ne sono stati scritti molti. Alcuni sono esageratamente fantasiosi, altri inquietanti. E poi c’è “Il curatore segreto del Vaticano” di Umberto Vitiello, pubblicato da qualche settimana da Lupo Editore.

 

Il romanzo immagina un futuro vicino, dove la Chiesa sta cercando di riorganizzarsi, lottando contro le impurità interne nell’intento di ritornare alle origini del cristianesimo. Trama abbastanza ingenua  e irreale, se non fosse che l’attualità sembrerebbe quasi dare ragione all’immaginazione dell’autore. Per Vitiello la trasformazione dovrà avvenire durante un segretissimo concilio, da svolgersi in un luogo misterioso e isolato come una tranquilla abbazia montana. Ovviamente la pacifica location è tutt’altro che sicura, a tratti ricorda moltissimo l’impervio monastero del “Nome della rosa”, e diventa subito dalle prime pagine teatro di un terribile omicidio su un aspirante monaco dalla storia complicata e dal passato sospetto.

Grazie all’aiuto di uno dei monaci che abitano l’abbazia, che per caso era dottore in economia, si risolvono e vengono svelati i terrificanti segreti della banca vaticana.

 

Il libro è interessante dal punto di vista della costruzione, tuttavia devo ammettere che a volte l’innegabile erudizione dell’autore rallenta un poco la trama: forse è questo il punto debole del romanzo. Tuttavia tutte le fila sembrano ricongiungersi in maniera abbastanza nitida, e questo è sicuramente un  punto a favore dell’esperienza di Vitiello.

Più che un vero e proprio thriller, nonostante gli ingredienti fondamentali siano mistero, omicidio e deduzioni, si tratta di un romanzo suspense con una strizzata d’occhio alla storia e, inaspettatamente, all’attualità.

 

Il pericoloso “circo” della Truffa

Luigi Scarcelli
Parma – Alzi la mano chi, alla parola truffa, non pensa alla scena del film TOTO’TRUFFA ’62 in cui il celebre attore napoletano tenta di vendere ad uno sprovveduto turista italoamericano la Fontana di Trevi. Un modo comico di rappresentare un reato molto presente nella nostra società, forse perché è una distorsione dell’arte di arrangiarsi di cui noi italiani siamo maestri.

Lo scrittore Giuseppe D’Alessandro, avvocato esperto prevalentemente di materia penale e responsabilità professionale, ha voluto riprendere lo stesso tono ironico di quel film per raccontare il mondo della truffa nostrana nel libro “Truffe, truffati e truffatori”, pubblicato da Angelo Colla Editore.

 

Il libro è diviso in capitoli a seconda del tipo di truffa trattato (immobiliare, di gioco, a sfondo sessule…) permettendo al lettore di iniziare la letture in maniera “arbitraria” dal capitolo contente l’argomento più di suo interesse.
Ogni truffa viene descritta tramite una lunga serie di casi reali presi da sentenze o dalle cronache giornalistiche. La scrittura è volutamente ironica e affronta in tono leggero, ma comunque informativo, un problema molto presente nella società moderna.  Gli esempi descritti, come detto, sono molti e forse in qualche punto l’autore avrebbe potuto soffermarsi in maniera più dettagliata su un numero minore di casi in modo da dare più “respiro” alla lettura. Il risultato comunque  è molto buono dato che la scelta stilistica si sposa bene al tema della truffa che di per se è tragicomico.
Quello che scaturisce dal libro è un mondo fatto di astuzie, ingenuità, malizia e soprattutto furbizia, anzi  mi si passi il termine “furbettizia” riferendomi a quel tipo di furbetti tanto di moda nel nostro Paese che cercano in maniera scorretta o sleale di aggirare ostacoli di qualsiasi tipo allo scopo di trarne un vantaggio personale. Il bello è che i furbetti non sono solo i truffatori, ma anche i truffati stessi, che abboccano a promesse di facili “guadagni” di qualsiasi tipo rimanendo vittime della loro stessa ingordigia da finti “dritti”.
L’autore descrive prevalentemente casi dell’epoca recente, soffermandosi anche in paragoni con sentenze per truffa dell’inizio del secolo scorso. Il lettore potrà notare la palese differenza di gravità tra quelle che erano considerate (e punite come tali) le truffe negli anni ’30 (ad esempio il caso di una persona condannata nel 1933 per il “riutilizzo” di una busta per lettere affrancata) e quelle di oggi. Se ciò sia dovuto ad un profondo cambiamento della nostra mentalità e del nostro stile di vita (magari più egoistico e smaliziato) o solo al diverso sistema giuridico dell’Italia di allora (ricordiamo che si parla dell’Italia Fascista) può essere un ulteriore spunto di riflessione per il lettore di questo libro, che non mancherà di far riflettere sorridendo.

Uri Orlev, avere 13 anni nel campo di concentramento

Marianna Abbate
ROMA – Avere tredici anni è di per sé abbastanza complicato. Viviamo le nostre tragedie personali: ai maschi cambia la voce e le femmine cambiano significato. Avere tredici anni è un po’ una maledizione: pensiamo di sapere già tutto, ma nessuno ci crede.

Avere tredici anni ed essere un poeta è terribile. Gli amici ci prendono in giro, i grandi ci guardano con quell’indulgenza che odiamo.

Trovarsi in un campo di concentramento è inspiegabile al profano. Il campo è un posto fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Non è solo una prigione per il corpo: il campo è un ladro di anime. Il campo ci trasforma, ci rende mostri ai nostri stessi occhi.

Tredici anni e il campo di concentramento non sono due cose che vanno d’accordo. A tredici anni siamo troppo assorbiti dalla nostra tragedia interiore per comprendere appieno quello che accade intorno a noi, soprattutto se siamo dei poeti.

E se l’uomo adulto non riesce a cantare col piede straniero sopra il cuore, tra i morti abbandonati nelle piazze, nel poeta bambino vince la creatività. Non solo: si tratta di una creatività vivace.

I versi del tredicenne Uri Orlev non sono disperatamente tristi.  Lo spirito fanciullo desidera sfogare la propria creatività, nonostante tutto. Uri riempie il suo preziosissimo taccuino di versi, ricopiati con attenzione dall’asse di legno usata per la brutta copia. Oggi queste poesie sono pubblicate in italiano ed ebraico da Giuntina, nel piccolo tomo “Poesie scritte a tredici anni a Bergen- Belsen (1944)”. 

E’ evidente il contrasto tra le rime semplici e la scrittura infantile, in contrapposizione alle tematiche gravissime e ad una innaturale autocoscienza. Il bambino cresciuto troppo presto, non riesce a vedere con nitidezza tutti i significati della realtà che lo circonda, tuttavia ha sviluppato un ottimo senso dell’osservazione. La trasposizione poetica della realtà vista con gli occhi curiosi di Uri, assume un’ironia involontaria quasi grottesca. Lo sguardo invidioso del ragazzo che vede gli altri detenuti grattare il fondo della pentola, mentre lui stesso cerca di frenare i morsi della fame con le rimanenze di quell’educazione, che una volta aveva un significato totalmente diverso, ci colpisce al cuore. Perché quei volti scarni, quelle teste rapate, quei numeri sul braccio tornano ad avere un nome, una storia.

Queste poche poesie non hanno un gran valore letterario. Come vi ho accennato le rime sono semplici e la struttura basilare. Le metafore, poi, non sono proprio azzeccatissime.

Quello che è interessante è il significato socio-antropologico di questi testi. Se a scrivere una poesia sul lager fosse stato un adulto, la parola tragicommedia nel titolo della poesia ci avrebbe indignati. L’invidia stessa ci avrebbe indignati.

Nella poesia “E la vita va avanti” troviamo un punto di vista molto interessante. Il piccolo poeta contrappone la quotidiana banalità delle conversazioni, alternandola anche graficamente verso per verso, agli orrori della guerra. L’intenzione di Orlev era quella di mostrare quanto il desiderio di sopravvivenza, il bisogno di parlare di banalità, permettano all’uomo di estraniarsi dagli avvenimenti che lo circondano. Questa sagace e intelligente osservazione avvicina i suoi versi a quelli della poetessa premio Nobel Wislawa Szymborska. La stessa poesia è stata poi corretta e sistemata da un compagno di prigionia con più esperienza.

Effettivamente l’opera corretta, mostra appieno il potenziale del poeta.

 

Orlev da grande ha fatto lo scrittore per ragazzi, scrive prevalentemente in ebraico, ma queste prime poesie sono state scritte in polacco. Le sue opere sono state insignite, tra l’altro con il premio Andersen, il riconoscimento più alto per un autore di libri per l’infanzia.

 

 

 

Orecchio Acerbo: arriva “Effetti di un sogno interrotto”

ROMA –  In libreria da qualche giorno per Orecchio Acerbo“Effetti di un sogno interrotto”  è l’albo illustrato che fonde insieme autori celebri e giovani illustratori. Dalle parole di Luigi Pirandello e le immagini di Michele Rocchetti, questo libro si apre a riletture e sguardi insoliti, adattamenti e interpretazioni.

 

Tra i meandri dei “Racconti fantastici” di Luigi Pirandello, in una vecchia casa, regno indiscusso della polvere, sulla mensola del camino si trova una grande tela secentesca, che ritrae la Maddalena in penitenza, con il seno scoperto e che s’infiamma di sensualità al caldo lume di una lucerna. Il protagonista del racconto non è il proprietario del quadro perché ha avuto la casa – e tutto ciò che essa contiene- tanti anni prima in garanzia di un vecchio debito. Ma un uomo, presentatogli da un antiquario, vuole acquistare quel quadro a ogni costo e si agita al vederlo. La moglie appena defunta – spiega l’uomo – somiglia così tanto a quella Maddalena che lui non può tollerare che un altro possa vederla nuda. Fortemente impressionato dalle reazioni del vedovo, il nostro eroe la notte stessa sogna la donna venir fuori dal quadro e amoreggiare con il marito. Il sogno è così intenso che al risveglio gli pare di vedere il vedovo scappar via e la Maddalena seguirlo con lo sguardo.
Terrorizzato fugge dalla casa e si precipita dal vedovo, deciso a liberarsi del quadro. E lo trova con quello stesso pigiama a righe che indossava nel suo sogno…
“Quanto son cari questi uomini sodi che, davanti a un fatto che non si spiega, trovano subito una parola che non dice nulla e in cui così facilmente s’acquetano. Allucinazioni. ”
Le chiamano allucinazioni o transizioni tra il sonno e la veglia: le chiamano fantasie. “Ispirazione notturna” e “psicologia misteriosa” vengono così colte dalle visionarie illustrazioni di Michele Rocchetti attraverso richiami surrealisti, trame futuriste e composizioni vicine al cubismo di De Chirico.