“Una casa di petali rossi”: un romanzo che profuma di India

Alessia Sità

ROMA – Nulla è più eccitante che cercare la verità e trovarla”.
E’ questa la certezza che anima totalmente “Una casa di petali rossi”, il romanzo di Kamala Nair pubblicato da Editrice Nord. La storia di Rakhee ha inizio da una misteriosa lettera, che la spinge a ritornare in India a distanza di moltissimi anni dal suo primo viaggio. Quello compiuto da Rakhee non è solo un ritorno alle proprie radici, ma è una sorta di catarsi, necessaria per poter intraprendere una nuova vita, accanto all’uomo che sta per sposare. Lentamente la giovane donna rivive, in un lunghissimo flashback, l’estate in cui lei e Amma lasciarono Aba e Plainfield per trasferirsi in India, nel villaggio natale della madre. Il ritorno alle antiche radici segnerà per sempre la vita di Rakhee, stravolgendo completamente anche l’esistenza delle sue ziee e delle sue chiassose cugine. Improvvisamente, quel segreto tenuto nascosto per troppo tempo riemerge, riportando con sè vecchi demoni difficilmente occultati. La scoperta della verità però ha sempre un prezzo da pagare e comporta anche qualche perdita, compreso l’amore. Rakhee ne è consapevole fin da bambina; ma nonostante le terribili conseguenze che la sua sete di conoscenza può avere, persiste tenacemente nella sua ricerca. Il desiderio di vincere la paura la spinge ad addentrarsi oltre l’impenetrabile giardino, che la sua famiglia ha tentato di difendere con tanta ostinazione per molti anni. La casa dei petali rossi non è semplicemente custode di un segreto, ma rappresenta allo stesso tempo l’unica chiave per la libertà. Fra profumi, antiche leggende e intensi sapori dell’India – illuminata da splendidi raggi di sole e talvolta annerita da cortine di pioggia – Rakhee ripercorre la storia della sua misteriosa famiglia. La scoperta di un passato doloroso, difficile da accettare, sarà per la giovane donna un passo fondamentale per spezzare definitivamente il legame con la vita precedente e per aprirsi a un futuro di promesse di gioia e, forse, anche di perdono. Attraverso il racconto delle mille sfumature dell’anima umana, Kamala Nair ci regala una storia intensa, fatta di emozioni, profumi e colori sgargianti.

 

L’editoria italiana ospite d’onore in India

associazione italiana editoriMILANO – L’Italia sarà Paese ospite d’onore alla 36ma edizione della Fiera internazionale del Libro di Calcutta, la più importante manifestazione del settore editoriale nel Paese, in programma da mercoledì 25 gennaio  (inaugurazione domani, 24 gennaio) al 5 febbraio.
La presenza italiana, curata dalle istituzioni italiane locali – il Consolato Italiano a Calcutta e l’Ambasciata d’Italia a New Delhi -, prevede la realizzazione di uno spazio espositivo e un programma di incontri culturali: l’ampio padiglione di 500 mq, che rappresenterà un’elegante area urbana italiana, racchiuderà uno spazio con libri di autori italiani in italiano (500 volumi inviati delle case editrici italiane che hanno collaborato all’iniziativa), una libreria con libri di autori italiani in traduzione inglese e un’area incontri, che vedranno la presenza di autori come Dacia Maraini, Alessandro Baricco, Beppe Severgnini e Valerio Massimo Manfredi, ma anche come Angela Staude Terzani e Sandra Petrignani.
L’Associazione Italiana Editori (AIE) organizzerà, a completamento dell’iniziativa, una missione di alcune case editrici, grazie anche al contributo del Ministero Affari Esteri e alla collaborazione dell’ex-ICE Ufficio di New Delhi. Gli editori presenti – Casalini Libri, Edizioni Sonda, EGEA, GeMS Gruppo Editoriale Mauri Spagnol, Guerra Edizioni, Metropoli d’Asia – rappresentano un mix in grado di presentare una panoramica della nostra editoria sia per settori di produzione (dalla narrativa alla saggistica, dalla letteratura per bambini alla produzione universitaria, ai testi per l’insegnamento dell’italiano), sia per dimensioni (dai piccoli editori specializzati ai grandi gruppi).
“L’obiettivo – ha spiegato il direttore di AIE Alfieri Lorenzon, che guiderà la delegazione editoriale – è capire quali sono i segmenti editoriali in cui l’editoria italiana potrebbe avere maggiori possibilità di successo, far conoscere agli editori indiani le peculiarità del nostro mercato e incontrare rappresentanti della filiera indiana per avviare rapporti di collaborazione. La Fiera di Calcutta sarà infatti l’occasione per presentare per la prima volta in modo istituzionale la nostra editoria attraverso momenti comuni con gli editori indiani e con la Publishers & Booksellers Guild”. Le case editrici italiane svolgeranno inoltre una serie di appuntamenti B2B con interlocutori indiani per la compravendita dei diritti.
E’ cresciuta a partire dalla seconda metà degli anni ’90 la presenza di autori indiani – soprattutto di narrativa – nei cataloghi delle case editrici italiane: complessivamente il lettore può scegliere tra un’offerta, proposta da 36 case editrici, di 169 titoli di 70 autori indiani.
L’editoria indiana rappresenta lo 0,2% delle traduzioni di un’editoriacome quella italiana in cui il 20% dei titoli pubblicati provengono da altre editorie. Cresce, anche se i numeri restano piccoli, la vendita dei diritti di libri italiani verso il mercato indiano. Raddoppiano nella seconda metà dell’ultimo decennio e lasciano soprattutto intravedere un trend di crescita costante in assenza di politiche coordinate di intervento.

“I maestri del pensiero indiano”: la ricchezza del pensiero del paese più “strano” al mondo

Giulio Gasperini
ROMA – L’India è, forse, il paese più “strano” al mondo. “Strano” per la sua grandezza, che la rende quasi un continente (3.287.590 kmq, il settimo al mondo per estensione) e per la sua popolazione da capogiro (1.173.108.018 abitanti); per le sue contraddizioni, e per la sua ricchezza e varietà di architetture e religioni; per la sua composizione climatica (dal deserto di Jaisalmer alle foreste tropicali delle Andamane) e la sua frammentazione linguistica (1.652 dialetti oltre alle lingue “ufficiali”). Ma è anche un paese dalla storia millenaria e dalla grande eredità culturale: in particolar modo filosofica e religiosa. Giuseppe Gangi ne “I maestri del pensiero indiano dai Veda a Osho” delle Edizioni Clandestine (2011) vuole proprio ripercorrere la storia del pensiero che in questo subcontinente s’è sviluppato e ha finito per colonizzare e condizionare la crescita e lo sviluppo della società e della cultura di altri continenti, primi fra tutti l’Europa.
L’India ha, infatti, da sempre affascinato il Vecchio Continente: per la sua distanza, la sua magia, la sua apparente invulnerabilità, il suo mistero remoto. Dai romanzi di Salgari, ad esempio, ambientati in un’India quasi inventata, immaginata e mai esplorata, imparata dai libri e dai racconti di viaggiatori coraggiosi, passando dal fascino delle poesie di Tagore che gli valsero il Premio Nobel nel 1913 (straordinariamente assegnatogli dopo quello, del 1907, a Kipling, cantore, all’opposto, del colonialismo inglese), per finire al viaggio che i Beatles vi compirono nel 1968, per frequentare un corso di meditazione presso l’ashram di Maharishi Mahesh Yogi.
L’India è ricca e ubertosa: la bibliografia che la riguarda è talmente imponente da passare persino trascurata, consultata con velocità insidiosa. Ecco, allora, che il volume di Giuseppe Gangi può aiutarci a far un po’ d’ordine ed entrare in possesso dei primi e più rudimentali sistemi d’orientamento. Dai Veda, raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii che fondarono l’insieme delle dottrine religiose dell’induismo, al pensiero filosofico di Osho, i cui scritti son diventati dei veri e propri best-seller da primi posti in classifica, passando per l’esperienza del Buddha e del buddhismo, che in India conserva tre posti sacri (Bodhgaya, Sarnath, Kushinagar), e giungendo ad analizzare il pensiero dell’India contemporanea, divisa tra colonialismo inglese, voglia d’indipendenza e crudeltà intestina (da Tagore a Gandhi), Gangi permette anche ai meno esperti di poter costruirsi le ragioni di un mondo, quello indiano, così lontano ma anche così fortemente composito che, in un gioco di costanti equilibri e di profonde contraddizioni, riesce ancora a sorprendere sé stesso e si esagera, persino, potenza del futuro.

"Garam Masala": quando cucinando si raccontan le favole.

Giulio Gasperini

ROMA – “Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina”. Banana Yoshimoto principiò così il suo primo romanzo, il suo capolavoro, Kitchen: uno degli incipit più sfolgoranti della letteratura di tutti i tempi. Ma anche una suprema verità: perché, in genere, non c’è luogo, in una casa, più accogliente della cucina. O, almeno, non c’era. Perché era il luogo del calore umano, delle padelle che sfrigolavano, delle bottiglie di vino che si stappavano, delle confessioni che si confessavano; quando magari i ritmi di vita eran più lenti, certo; quando si aveva tempo di fermarsi e di non costringersi a una corsa perenne.
In alcune società del mondo continua, la cucina, a rivestire questo ruolo di centro umano, di connettore di umanità.
E questo romanzo, pubblicato da una casa editrice milanese che ha fatto dell’Asia, delle sue storie e dei suoi scrittori (e scrittrici) la sua coraggiosa vocazione editoriale, la ObarraO edizioni, ne è un esempio. “Garam Masala” è una miscela indiana di spezie: perché questo romanzo, di Bulbul Sharma (2011), è, in realtà, una sorta di Decameron indiano, un rosario di novelle, di fiabe, inserite in una più ampia cornice. Alcune donne si ritrovano per cucinare in occasione di un funerale e, a turno, raccontano delle storie che le riguardano, o che riguardano persone a loro vicine, loro conoscenti.
Sono tutte storie che riguardano le donne e il cibo, le donne e le loro magie culinarie, le donne e le loro sapienza dosatrici d’ingredienti. Perché niente è speziato come la vita, tanto che in un racconto la protagonista ne prepara ben dei varianti, una per ogni tipo, perché ognuno ha i suoi gusti, ha le sue peculiarità da difendere. L’India è speziata, è sapida e saporita, è un magico e colorato calderone: se ne ritrovano tante, di Indie, in questo romanzo, ognuna declinata seguendo il percorso privato e personale di una donna, che sia la madre che vede tornare, dopo anni d’assenza, il figlio emigrato negli Stati Uniti per vivere più dignitosamente, sia quella che, consapevolmente, uccide col cibo il proprio marito, colpevole d’esser stato succube della madre. E mentre i preparativi per il pranzo del funerale vanno avanti, scanditi dalle varie azioni che si devono eseguire per pulire il riso, lavare e tagliere le verdure, le storie si dipanano, sollecitate dalla curiosità femminile, e rese più dolci e fragranti dalla confidenza che il rimestare ai fornelli magicamente sa concretare in ogni occasione.Tutte le vicende, insomma, son rese sapide dalle spezie, dal cibo, che dà vita e gioia; ma che, con le sue seduzioni e le sue esuberanze, può anche arrivare a uccidere.

"Strada India", un viaggio alla ricera di sé

Silvia Notarangelo

ROMA “Strada India” di Daniela Morgante, Editrice effequ, è il racconto di un viaggio compiuto a metà degli anni Settanta dall’autrice, allora studentessa universitaria.

In quel periodo, per i giovani occidentali, era “più che una moda, un rito, una febbre”, partire per l’Oriente alla scoperta di qualcosa di nuovo e di più vero in cui credere, da contrapporre alla mentalità e ai valori dominanti.
Il viaggio rappresentava una strada per la ricerca di sé e di nuove mete per costruire una società migliore.
Nel presentare questa personale, significativa esperienza, la scrittrice oltre a rendere il lettore partecipe delle emozioni e delle sensazioni scaturite dall’incontro con una realtà e con un mondo così diversi dalla sua Maremma, vuole anche coinvolgerlo nell’atmosfera di quegli anni, offrendogli una chiave per comprendere il contesto in cui maturarono i sogni, le idee dei ragazzi di allora.
I luoghi, le persone incontrate, i profumi, i colori dell’India sono rievocati con uno sguardo intriso di affettuosa nostalgia, ma nello stesso tempo ormai distaccato per la lontananza che pone il tempo trascorso.
Con uno stile essenziale, ma di grande efficacia narrativa, Daniela Morgante conduce il lettore nell’itinerario di viaggio da lei condiviso con tre amici, vissuto con giovanile allegria e con una certa ironia tutta toscana, capace di sdrammatizzare le situazioni più spiacevoli.

"Viaggio in India", ricercando le incolpevoli origini

Giulio Gasperini

ROMA – Era il 1960: l’India principiava a incuriosire e ad affascinare (pregiudizievolmente) la vecchia e annoiata Europa, appena ristabilita dalla ferocia della guerra. Anche Alfredo Todisco partì: doveva lavorare, doveva redigere un reportage per “La Stampa”. “Viaggio in India” (Mondadori, 1966) è il testo sbocciato da codesto viaggio: un testo agevole, intrigante; e, soprattutto, inaspettato, perché travalica i limiti di semplice scrittura giornalistica, e contorna, definisce, la ricerca personale dell’uomo – che è uomo prim’ancora d’esser giornalista.

Todisco si coniuga in una moltitudine di narratori, di tessitori di fiabe: c’è il Todisco viaggiatore viaggiante, c’è il Todisco teorico, quello categorizzante e c’è, inevitabile per un luogo dell’anima come (era, ahimè) l’India, il Todisco ontologico, intimo e intimistico.

L’India è definita, da Todisco, come un continente in bilico tra il bagaglio enorme di cultura e tradizione e le nuove spinte della modernità sociale e tecnologica, meccanica e politica: un grande, immenso, continente, popolato a dismisura, che sarà ben presto assediato dalle macchine della TATA (colosso oramai globale) e le eccellenze studentesche in matematica e informatica. Più di Moravia e Pasolini, che negli stessi anni si recarono in India (con la Morante) per un viaggio dai simili intenti, Todisco seppe penetrare meglio i meccanismi dell’India, seppe documentarli più attentamente e approfonditamente, in un’analisi che si trova sempre in bilico tra giornalismo e letteratura, senza mai inficiare l’una o l’altra, ma facendole pacificamente (e straordinariamente) convivere.

È un testo, questo “Viaggio in India”, che, più degli altri due, si avvicina al modello ideale del reportage di viaggio; un testo che riesce, più degli esperimenti di Pasolini e Moravia, a cogliere vari aspetti, in più alto grado e sapienza, con più saggezza d’inquadrature e capacità di cogliere l’insieme, indugiando sui dettagli ma non scindendoli irrimediabilmente dal quadro generale e complessivo: come i grandi narratori, i grandi cronisti, eran capaci di fare.
Il totale silenzio di Todisco su Agra e il Taj Mahal è una lacuna grave, gravissima. Anche la descrizione di Benares (oggi, Varanasi) inizia in modo sfolgorante ma esaurisce notevolmente la sua forza persuasiva (e descrittiva). Ma i meriti di Todisco riescon in qualche modo a supplire a codeste mancanze: primo merito tra tutti, il capitolo inziale, quello in cui parla della “matita di Dio”, ovvero Madre Teresa: un capitolo agrodolce e terso, limpido e intelligente. Umile e dolce.