Guanda: Dario Fo, “Morte accidentale di un anarchico”

Daniela Distefano
CATANIA
“Dicevo, quella sera che l’anarchico s’è buttato, il sole è rimasto su, non c’è stato il tramonto?”.
“Dunque, tre scarpe…Scusate, non vi ricordate se per caso fosse tripede?”
“Chi?”
“Il ferroviere suicida…se per caso aveva tre piedi, è logico portasse tre scarpe”.

Morte accidentale di un anarchico (Guanda) è una delle commedie più note di Dario Fo. Rappresentata per la prima volta il 5 dicembre 1970 a Varese, è dedicata alla “morte accidentale” (come ironicamente ricorda il titolo stesso, sostenendosi nell’opera la tesi dell’omicidio) dell’anarchico Giuseppe Pinelli – avvenuta nella Questura di Milano in circostanze inizialmente non chiare, poi archiviate da un’indagine della magistratura come un caso di “malore attivo”- il 15 dicembre 1969, cadendo dalla finestra durante il suo interrogatorio.

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Kleiner Flug: la graphic novel incontra la letteratura

SaloneGiulio Gasperini
AOSTA – Cosa succede quando la letteratura o il teatro incontrano il fumetto? Nascono delle splendide graphic novel, che la casa editrice Kleiner Flug pubblica in libri di grande formato, estremamente eleganti e raffinati. Uno degli ultimi testi pubblicati è Salomè, tratto dal dramma di Oscar Wilde, coi testi di Emilia Cinzia Perri e i disegni di Silvia Vanni.
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“La Bibbia”, Via del Vento porta in Italia un Bertolt Brecht inedito

La bibbia_Brecht_via del vento_chronicalibriGiulia Siena
PARMA“Molte voci lentamente crescendo sparse, sempre più all’unisono, a cantare una messa”.
Ricordo, fede ed esperienze si intrecciano in La Bibbia, il volume che raccoglie scritti inediti di Bertolt Brecht. Curato da Vincenzo Ruggiero Perrino, il libro, numero 65 nella collana Ocra gialla della Via del Vento Edizioni, porta in Italia due testi teatrali inediti dello scrittore e drammaturgo bavarese.
La Bibbia – che dà il titolo all’intero volume, venne pubblicato nel giornale studentesco “Die Ernte” nel 1914 Continua

“Cattive ragazze”, dal testo alla scena

cattive_ragazze_fb_2ROMA – Cattive ragazze, tratto dall’omonima graphic novel di Assia Petricelli e Sergio Riccardi pubblicata dalla Sinnos Editrice, debutta a Roma con la regia di Ignacio Gómez Bustamante e César Brie. Lo spettacolo – in scenda da sabato 10 fino a sabato 17 ottobre nei Teatri di Villa Torlonia e del Quarticciolo – mette in scena la vita di alcune delle 15 donne audaci e creative raccontate da Assia Petricelli e Sergio Riccardi.  Tra queste donne ci sono Franca Viola, Domitila Barrios e Miriam Makeba, che in modi e contesti diversi, si sono ribellate al sistema costituito e hanno aperto la strada del cambiamento e dell’affermazione di diritti fondamentali per le donne, per tutti. Continua

30 grandi miti (sfatati e no) su Shakespeare

30 grandi miti su ShakespeareGiulio Gasperini
AOSTA – Shakespeare è, da sempre, uno scrittore che ha alimentato leggende e fantasie, particolarmente nel cinema, con una serie di film che hanno contribuito ad alimentare la leggenda su alcuni aspetti della sua vita umana e professionale. Nel saggio 30 grandi miti su Shakespeare, appena pubblicato da ObarraO Edizioni nella collana agli-estremi dell’Occidente, la docente Laurie Maguire e la ricercatrice Emma Smith analizzano 30 grandi “leggende metropolitane” che riguardano il Bardo, affrontandole con una preparazione attenta e puntuale e riferimenti bio-bibliografici altrettanto mirati e significativi.
Le studiose partono dal tratteggiare il concetto di mito, che spesso viene usato a sproposito e senza cognizione di causa. La parola mito, dal greco mythos, significa semplicemente “qualcosa che viene raccontato”, una narrazione. Sono gli uomini che hanno bisogno di qualcosa da raccontare, senza preoccuparsi troppo dove termini la verità e dove inizi l’abbellimento, la credenza, la leggenda. Perché spesso di leggende l’uomo ha bisogno, come fossero modelli rassicuranti; diventa una forza misteriosa che scorre sottopelle.
Shakespeare continua a essere uno dei grandi miti letterari (e umani). In questo testo, le scrittrici si soffermano su miti piuttosto diffusi e noti, a cominciare dalla vera o presunta esistenza di William Shakespeare o, addirittura, del sospetto che le sue opere siano state scritte effettivamente da lui o da qualchedun altro, come il recente film Anonymous (2011, diretto da Roland Emmerich e scritto da John Orloff). La lettura del testo è scorrevole e appassionante, nonostante si affrontino argomenti complessi per chi magari non ha una conoscenza così approfondita di Shakespeare e della sua poetica. Praticamente tutte le opere vengono affrontate, per vari aspetti, e tutte sono prese in esame, offrendo al lettore tante curiosità e dettagli che sorprendono e appassionano, spingendosi in qualche caso addirittura fino all’indagine investigativa delle fonti, delle tracce materiali, dei documenti che riservano ancora sorprese, a distanza di anni (come il suo testamento e lo svogliato e sbrigativo riferimento alla moglie Anne Hathaway).
Il volume è arricchito anche dalle notizie di alcune messe in scena delle opere shakespeariane, a sostegno o meno di particolari tesi: la messa in scena diventa la chiave interpretativa per cogliere le intenzioni del regista (significativa, ad esempio, in questo senso, la partecipazione di Judi Dench nel ruolo di Titania nell’allestimento di Peter Hall nel 2010 di Sogno di una notte di mezza estate, in cui la Dench assume caratteristiche più simili alla regina Elisabetta interpretata di Shakespeare in Love che non di una “semplice” regina delle fate).
“30 grandi miti su Shakespeare” è uno strumento preziosissimo per chi, incuriosito dall’opera immortale del Bardo (che sia il teatro o che siano gli altrettanto preziosissimi sonetti), vuole cominciare a indagare il complesso mondo di verità e finzione sulla sua opera e la sua altrettanto incuriosente personalità.

I cento anni del “Pigmalione”

Dalila Sansone
GRAZ – “Piantala di fare l’idiota (…), se non sei in grado di apprezzare quello che hai ottenuto allora vedi di procurarti quello che sai apprezzare”. A volte in un giorno di pioggia vorrei muovermi dentro il tempo, aprire gli occhi e trovarmi di fronte Covent Garden, Londra, un centinaio di anni fa. Lì dove Eliza Doolittle ha incontrato la prima volta Henry Higgins. Inizia così “Pigmalione” di Bernard Shaw: la pioggia, persone che si riparano dietro le colonne di un portico, una misteriosa figura che prende appunti su un taccuino. Cento anni dalla prima pubblicazione: l’assoluta certezza che Shaw abbia scritto un testo senza tempo. Fuori dall’ambientazione, oltre la narrazione della storia della fioraia con il suo cockney dei bassifondi e dell’erudito professore di fonetica Mr Higgins, sono il modellarsi del rapporto, la mutevolezza delle forme e la potenza dei legami che prendono forma. Sarebbe facile cadere in errore e farne una riduzione sentimentale. La finezza di Shaw sta nel non cedere alla banalità. Perché i casi della vita raramente rispondono a tale definizione e se lo fanno sono destinati a non inciderla. Mai.
Eliza si presenta all’uomo che l’aveva terrorizzata la sera prima, ripetendo esattamente ogni suono uscito dalla sua bocca: vuole che le insegni un corretto inglese. L’unico modo per vincere i pregiudizi, lavorare in un negozio di fiori e smettere di farlo per strada. Il primo scontro titanico. La mediazione del colonnello Pickering lo trasforma in una scommessa: sei mesi per riuscire a far passare Eliza per una duchessa. Un tempo in cui lei si scopre nelle cose che apprende e che diventano sue. Non cambia, riordina un essere se stessa senza bisogno di definizioni e inconsapevole, con la naturalezza delle cose non cercate che si delineano più velocemente di quanto le si possa cogliere, si crea il legame. Ed è quel legame a rivelarsi prepotentemente nel riaccendersi dell’istinto, quando la scommessa è vinta e Higgins è solo sollevato di non dover continuare con un affare così noioso mentre Eliza non sa più chi è. Lui non si accorge nemmeno di lei, troppo occupato a chiedersi dove siano le sue ciabatte. Lei decide esattamente in quell’istante chi è e gliele lancia contro, quelle ciabatte, prima di andarsene e non tornare. Non tornare più come prima, né quella di prima. La consapevolezza di sé ha il suo prezzo. L’indipendenza emotiva anche ma richiede uno strappo per essere capita. Per capire che è li dentro che sta un’identità che, invece, non avevi mai del tutto compreso.
Higgins potrebbe nascondersi nel passato di chiunque, tutti potremmo essere stati delle fioraie con i confini del mondo chiusi dentro un cesto di viole e un terribile accento da strapparsi di dosso per seguire un qualche destino. La scoperta di sé, il valore consapevole della dignità che si trascina dietro, scavano un angolo intoccabile e lasciano un segno indelebile sulla pelle. Si tratta di occasioni che possono capitare, oppure no e le conseguenze non gli dipendono necessariamente: la svolta non appartiene a nessun altro se non a chi decide di compierla. Ma restano anche i segni, quelli invisibili agli sguardi. Quelli che ricordano l’attimo esatto in cui qualcosa è cambiato. Il perimetro sottile del punto di non ritorno, quando non c’è stato nessuno a dirti chi eri e dove saresti andato.
C’è un alone di malinconia, non di tristezza, nei brividi dietro il calare improvviso di un’ombra che capita si allunghi nell’animo di un’umile fioraia ma non tocca mai quello del suo pigmalione. Potrebbe succedere di domandarsi tutta la vita se a lui, invece, sia rimasto non un segno, anche solo un graffio di lei, lasciato nell’urto con quell’occasione.
Il senso comune si infrange contro i vetri opachi che separano le emozioni da tutto il resto. Lasciano appena intravedere e proteggono quello che ci appartiene dal tentativo di volerlo spiegare: ciò che veramente ci appartiene non ha bisogno di essere compreso, non ha nulla da pretendere se non l’essere lasciato intatto.
Henry Higgins ha fatto di Eliza Doolittle una donna. Lui lo sa. E la risposta alla domanda quella donna la conosce dall’alto della sua dignità e di quella inspiegabile commistione di riconoscenza e di affetto che non si sceglie, si può solo provare. Nonostante tutto.

Ascoltate quel che le vagine dicono!

Giulio Gasperini

AOSTA – Anche se si frequentan poco, o per nulla, bisognerebbe sempre conoscere quel che dicono le vagine. In definitiva, perché tutti veniamo da costì, da quell’antro da sibilla. E perché, inoltre, le vagine son una cosa seria, che ha a che vedere con la femminilità, l’integrità della donna: un mondo, in definitiva, potente e saturo di significato; sia per le donna ma anche per gli uomini. E perché, ancora, la violazione della vagina è uno dei crimini più atroci e terrificanti, in una sopraffazione dove non c’è amore, ma solo violenza: e una violenza non è mai giustificabile. Né, a mio parere, perdonabile. Eve Ensler cominciò a raccontare questi “Monologhi della vagina” sul palcoscenico di un minuscolo teatro di New York: era il 1996 e a quei tempi parlare di vagine e di donne alle prese con il loro sesso non era certamente usuale, né facile. La Ensler aveva scritto questa pièce teatrale basandosi su alcune interviste rilasciate da donne di ogni età, di ogni etnia, di vissuti estremamente diversi e distanti. Sono donne che si scoprono, per la prima volta, magari in tarda età; sono donne che parlano della loro esperienza di violazione, delle loro pretese mai soddisfatte, del loro desiderio di essere felici senza rinunciare alla loro femminilità più pura, più istintiva. Sono donne che osano pronunciare la parola, “vagina”: perché è la parola che dà carne, che crea materialità, “è la parola che ci spinge avanti e ci rende libere”.
Eve Ensler ha dimostrato l’importanza e la potenza dell’arte: dai primi “Monologhi della vagina” si è sviluppato un movimento mondiale, il V-Day, che ogni anno viene celebrato in ogni angolo di mondo, anche in quei lembi di terra che son considerati più arretrati: proprio lì dove, in effetti, ci sarebbe più bisogno di ascoltarle, le vagine, e di seguire il loro volere. “L’arte ha reso l’attivismo più creativo e audace, l’attivismo ha reso l’arte più mirata, più concreta, più pericolosa” ha scritto Eve Ensler. L’arte si è dimostrata in grado di poter svolgere un ruolo da protagonista in campo sociale; ha il potere di cambiare la cultura, perché è la cultura che deve cambiare, “le credenze, la storia e il comportamento che stanno alla base della cultura” devono cambiare, perché “non abbiamo ancora svelato o decostruito i fondamenti cultuali e le cause della violenza”; l’arte ha il potere di far conoscere e, facendo conoscere, ha il potere di far maturare le coscienze. Ecco, allora, gli strazianti monologhi delle donne di Bosnia, rinchiuse nei “campi di stupro” durante la guerra in Jugoslavia, e quelle di Ciudad Juarez, in Messico, dove ogni anno decine di donne spariscono e vengono ritrovate nel deserto, stuprate, coi seni tagliati, violate in ogni aspetto della loro femminilità: perché “ovunque succedono cose terribili alle vagine”.
Sicché ben vengano codeste vagine parlanti, che ci fanno riflettere su quali sono le vere proporzioni e le vere prospettive alle quali dovremmo attenerci per non correre il rischio di mancare una definizione di umanità indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza, per la nostra stessa dignità. Brave le vagine che parlano! E che tante altre cose fanno…