Chi non ha mai cucinato con Sonia?

Marianna Abbate

ROMA – Cucinare a volte è una passione. A volte no. Anche seguire una ricetta può sembrare un ostacolo insormontabile: quanto è un pizzico di sale? mezzo bicchiere di farina intende un bicchiere da 20 cl o uno da 40? Sonia Peronaci ha avuto un’idea brillante. Rivoluzionaria. Come fare un uovo sodo? Devi aspettare che l’acqua bolle e poi poggiare l’uovo su un cucchiaio e immergerlo lentamente, poggiandolo sul fondo. E aspettare. Ma aspettare quanto? Nell’era di youtube e dei tutorial su qualunque cosa Sonia ha trasformato il nostro vivere in cucina. Possiamo sconvolgere i nostri amici con ricette originali che non pretendono alcun impegno reale grazie ai suoi video tranquilli e semplici che riempiono di giorno in giorno uno dei siti più famosi d’Italia: Giallo Zafferano.

Molti uomini che abitano soli proclamano a gran voce che Sonia li ha salvati da una frequenza quotidiana della tavola calda all’angolo.

Ma non lasciatevi ingannare: per Capodanno volevo, appunto, sconvolgere i miei amici con dei bellissimi macarones che mi hanno illusa con la scritta facile facile sul sito di Sonia. Eppure dopo ripetuti tentativi non ho potuto far altro che dichiarare il fallimento. Sarà perché non ho la tanto decantata planetaria o perché non ho usato il termometro da zuccheri, ma per me le paste a base di meringa rimangono un enigma.

Pertanto vi invito a non dimenticare tutti i consigli classici che le nonne tramandano, e se una cosa ha la fama di essere difficile non illudetevi che non lo sia solo perché Sonia ve lo dice sorridendo.

Ora è uscito persino un libro, che racchiude 130 delle sue ricette più cliccate, da quelle semplici alle più ricercate- indirizzato, più che altro, a tutte le signore che non usano internet e muoiono dalla curiosità di provare le sue ricette perché ne hanno sentito parlare.

Ma per chi internet lo sa usare, propongo di continuare a seguire le videoricette e, magari, comprarsi questa benedetta planetaria.

“C’era una svolta”, un’attuale e sarcastica ironia

Silvia Notarangelo
ROMA – A San Quentin, in California, il condannato a morte Tonino Buttalamare, giunto al patibolo, chiede, come ultimo desiderio, di poter raccontare una storiella del suo paese. Inizia così “C’era una svolta”, il nuovo lavoro di Martino Ferro pubblicato da Verde Nero. Se amate Calvino e le sue fiabe, questa loro rielaborazione, perfettamente calata in un’attualità da censurare e dotata di una sagace ironia, non vi lascerà delusi.
Nei cinque minuti a sua disposizione Tonino Buttalamare è un fiume in piena. Esordisce con le vicende, non proprio felici, di Giampietro, Gianfranco e Giancarlino, tre fratelli alle prese con odiati call center, paghe da fame e nessuna prospettiva per il futuro. Unica possibilità rivolgersi a San Precario e ascoltare bene i suoi consigli, perché un insperato posto da direttore è proprio lì, a portata di mano, basta saper usare un po’ di astuzia.
Ed è sempre grazie alla furbizia, e a una sana dose di incoscienza, che Giovannina smaschera il temuto orco Cicci, un orco dotato della singolare capacità di fare tutto al contrario, compreso conficcarsi un bisturi in bocca al posto dell’immancabile sigaretta. Una fine drammatica, come quella involontariamente architettata da una first lady infelice che, con la complicità della cameriera, riesce a sbarazzarsi di un marito “nanetto” che non ha mai voluto e che, solo per puro caso, si è ritrovato nel posto giusto al momento giusto. La sorte non è stata, invece, così benevola con Giufà, un giovane che vive alla giornata e che, in un modo o in un altro, riesce sempre a cavarsela, sia quando inconsapevolmente libera i tanti negozianti sottoposti al pizzo di Don Ciccio Potenza, sia quando, altrettanto ingenuamente, consegna una partita di droga alla mamma convinto che si tratti di farina. Ma a volte l’onestà non basta e il destino che lo attende non è certo dei migliori.

“Morti per la giustizia”: un libro per crescere.

Stefano Billi
ROMA – Il tempo passa in fretta e si fa presto a dimenticare quegli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia di un popolo, di una nazione. Soprattutto, ci si scorda di chi, quegli eventi, li ha vissuti sulla pelle, da protagonista, portandone ancora i segni e le cicatrici. Eppure, la coscienza di tutti dovrebbe essere attenta a non far cadere alcuni fatti nell’oblio, anche perché solo così ci si può preservare dal rischio che si ripetano certi errori già commessi nel passato.

Allora, vale davvero la pena leggere “Morti per la giustizia” un libro edito da Baldini Castoldi Dalai dove si unisce il dettato costituzionale alle storie drammatiche di undici uomini e donne che hanno perso la vita negli anni più bui della Repubblica, quelli tra il 1969 e il 1982.
Frutto di un incontro pubblico organizzato dalla Fondazione Roberto Franceschi Onlus, questo testo introdotto da Michele Serra racconta di Giorgio Ambrosoli, Giovanni Arnoldi, Giulietta Bazoli, Luigi Calabresi, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Roberto Franceschi, Guido Galli, Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Giuseppe Pinelli, Walter Tobagi. E ne racconta attraverso la voce di coloro che, questi personaggi travolti dal sangue stragista, li hanno conosciuti e amati, come fratelli, genitori, figli, amici. Voci che, tra le pagine, si trasformano da testimonianza dell’essere vittime della violenza politica e criminale, in dimostrazione insigne di impegno pubblico, fondato ed ispirato sulla carta costituzionale, quale passaggio imprescindibile per una costante costruzione della democrazia. La cosa straordinaria di questi scritti, perciò, è rendersi conto di come chi ha subito sofferenze personali atroci e devastanti, abbia ancora la forza di mettersi in gioco per il bene del paese, coscienti che quel dolore può divenire la base per la costruzione di un futuro diverso, sicuramente migliore, grazie al loro impegno. Citando le fulgide parole di Benedetta Tobagi, “trasformare violenza, abusi e sofferenze in materia che possa essere vitale”. Ancor più eccezionale, poi, è l’idea di fondare ogni intervento di quell’incontro su singoli articoli della Costituzione, senza trasformare l’iniziativa in una sterile esegesi della grundnorm italiana, ma piuttosto muovendo dalla comune presa di coscienza che per affrontare tempi di crisi profonda, bisogna avere dei fari che rischiarano l’oscurità. Senz’altro la Costituzione, nei suoi lungimiranti “versi”, offre i valori fondanti dell’Italia, di quella comunità che va da nord a sud e che è accomunata dal medesimo amor patrio.

Un vecchio professore universitario di diritto privato era solito consigliare ai suoi studenti di lasciare una copia della Costituzione Italiana vicino al cuscino, quasi a voler proteggere il sonno, pronta per essere letta e per destar conforto di fronte a qualunque incubo.

Leggendo “Morti per la democrazia” si comprende benissimo che traguardo impareggiabile sia quella norma del 1948, e quanto ancora possa aiutare il bel paese a diventare bello davvero.

“Questa non me la fumo”, bambini contro le sigarette

recensione libri per bambini_chronicalibri_carthusia_colloredoGiulia Siena
ROMA
– Lisa, Chiara, Federico e Filippo hanno un compito da svolgere. Devono capire ed elencare tutti i danni che provoca il fumo smascherando le piccole leggende che circolano attorno alla dipendenza dal tabacco. I quattro amici raccontano delle storie perché vogliono vederci chiaro; così nasce “Questa non me la fumo. Proviamo a vederci chiaro nei discorsi fumosi” scritto da Sabina Colloredo e illustrato da Giulia Ghigini per Carthusia Edizioni. Chi lo ha detto che fumando ci si sente grandi? Lisa sa benissimo che il fumo spegne il colorito, fa venire i brufoli e ti spezza il fiato e proprio lei, una sportiva provetta, non può permettersi queste sbandate inutili. Il fumo non danneggia solamente chi ha questo brutto vizio, ma influisce anche sulla vita degli altri: il fumo passivo è il peggior nemico dei bambini. Chiara ha una mamma che fuma nonostante aspetti un bambino; Chiara sa che il fumo non fa crescere la sorellina come dovrebbe. Allora la battaglia contro le sigarette comincia presto e diventa anche una canzone rap per spiegare a tutti che con le 4000 sostanze tossiche (tra cui acetone, candeggina, cadmio e monossido di carbonio) contenuti in una sigaretta non bisogna scherzarci.


Il libro, un albo illustrato con splendide immagini e spiegato con parole efficaci, affronta una problematica esistente ma presa poco in considerazione: il fumo tra i giovanissimi. In Italia sono circa il 23% i bambini che iniziano a fumare tra i 9 e i 10 anni e i danni a cui vanno incontro sono tanti e da non sottovalutare. “Questa non me la fumo. Proviamo a vederci chiaro nei discorsi fumosi” è uno strumento chiaro e divertente per affrontare tematiche difficili come quella della dipendenza da tabacco a tutte le età.

“Il bambino con le braccia larghe”

Giulia Siena
ROMA “Quando hai un fratello matto riconosci qualche spicchio della tua follia nei suoi comportamenti, così come lui cerca disperatamente la sua normalità nei tuoi. L’unica cosa di realmente, profondamente diverso tra lui e me è sempre stato il volume della sua sofferenza, che forse è l’unico aspetto davvero riconoscibile della tua follia.” La storia è vera ed è quella di un bambino che è stato “normale” sino alle soglie dell’adolescenza; poi i suoi comportamenti sono diventati “strani” e i suoi movimenti si sono fatti articolati tanto da camminare tenendo le braccia larghe, staccate dal corpo. Questo ragazzo era Paolo raccontato con straziante e lucido affetto da suo fratello, Carlo Gnetti nel libro “Il bambino con le braccia larghe” pubblicato nella collana Carta bianca della casa editrice Ediesse. Una storia lunga più di quarant’anni viene raccontata ripercorrendone le difficili tappe segnate dal disagio di Paolo. La malattia, le cause, i possibili rimedi e i continui traslochi della famiglia Gnetti fino ad approdare a Roma. Nella capitale, in un periodo cruciale per il trattamento delle malattie mentali, il ragazzo affetto da schizofrenia divenne uomo e provò sulla propria pelle le conseguenze della legge Basaglia.

Le difficoltà provate e le sfide quotidiane da portare avanti contro l’indifferenza sociale sono espresse con una determinazione silenziosa. L’autore riesce a parlare dei continui scontri con le strutture di riabilitazione senza esporsi: la sua figura è celata. La sua scrittura molto democratica crea il giusto equilibrio tra un argomento forte di cui nessuno vuol sentir parlare e il bisogno di far emergere vite dimenticate nell’impossibilità di essere curate.

Eroina tra “Eroine”: Claude Cahun

Silvia Notarangelo
ROMAClaude Cahun è artista complessa ed eclettica, ma anche indomita contestatrice, pronta ad impegnarsi attivamente prima nel movimento surrealista, più tardi, nella Resistenza.
Sono la storia e il mito a suggerirle la scelta delle sue “Eroine”, una singolare raccolta di ritratti femminili pubblicata da :duepunti edizioni.
Fuori dagli schemi e capaci di ribaltare qualsiasi aspettativa, le donne che ci restituisce la Cahun sono estreme, impetuose, votate alla ribellione e incuranti del dolore. La libertà da ogni forma di condizionamento e di morale è, per loro, condizione imprescindibile. Così, il piegarsi ad amori assoluti e, spesso, controversi, le umiliazioni e le prevaricazioni subite, diventano strumenti per affermare se stesse e la propria forza.
Tra le protagoniste c’è Elena, una giovane sposa che sa di essere brutta ma prova a dimenticarlo. Non si tira mai indietro, persino quando si tratta di allenarsi con esercizi di seduzione per accontentare il suo Menelao. Tutto però ha un limite e, con il tempo, Elena decide di dire basta per vivere finalmente come desidera. Una Cenerentola sottomessa e gelosa del suo vestito da sguattera, si rassegna, invece, a sposare un principe che la vuole dominatrice, altezzosa e con tacchi a spillo. Ma è proprio dall’andare contro il proprio istinto, dal violentare la propria natura, che la principessa trae un’inaspettata felicità. Una felicità che sembra non conoscere Salomè, sprezzante verso la vita e verso tutti quelli artisti che si sforzano di riprodurla fedelmente. Non c’è nessuna differenza, per lei, tra l’arte e la vita, una vale l’altra. E niente, neppure la testa decapitata di Giovanni Battista, riesce a turbare la sua “carne insensibile”.
Vite immaginarie di donne forti e consapevoli, talvolta risolute, talvolta stravaganti, ma incredibilmente vere.

"La forma incerta dei sogni", l’immaginazione sconfina nella realtà

Marianna Abbate
ROMA Ci sono diversi punti di vista. O, come direbbe Einstein, tutto è relativo. Ci sono uomini che per tuo padre sono degli eroi e per lo stato sono degli assassini. Per te, infine, sono uomini normali, che hanno dovuto fare delle scelte. A volte hanno preferito l’opzione giusta, altre quella sbagliata, altre volte ancora non è possibile definirne la natura. “La forma incerta dei sogni”, il libro di Leonora  Sartori edito da Piemme, parla di scelte.
Perché questa è la vita. E questi sono i volti di quelle sei persone di spalle sull’adesivo in camera di Leo. Sei persone accusate di omicidio che compaiono nella vita di una bambina come dei fantasmi. E che quella stessa bambina, una volta cresciuta, vorrà conoscere.
Scoprire gli orrori dell’apartheid porterà Leonora a comprendere comprendere che a volte la vita è guidata dal caso, e che è facile rimpiangere alcune decisioni prese sotto l’impulso del momento. L’impegno politico dei suoi genitori, così lontani dalla guerra che odiavano, le sembrerà anacronistico. Ma lo guarderà con la tenerezza di chi capisce il sentimento.
Il romanzo della Sartori si legge con avidità e con passione. Soffrendo di quel male di vivere che ha guidato le scelte dei suoi personaggi e riconoscendosi negli atteggiamenti della protagonista. In quel desiderio di conoscere e di capire che è, probabilmente, l’unica scelta possibile.

“Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione”: stereotipi culturali e copioni mediatici del nostro tempo

Alessia Sità
ROMA
«Nel Paese arriva la guerra, arrivano a valanga le bugie» diceva un vecchio proverbio tedesco, citato nel libro “Riflessioni di uno storico sulle false notizie sulla guerra” di March Bloch. Potremmo fare verosimilmente la stessa affermazione alla ciclica notizia dell’arrivo di profughi e migranti?

Questa è solo l’inizio della lunga riflessione del giornalista Giulio Di Luzio in “Brutti, sporchi e cattivi. L’inganno mediatico sull’immigrazione”, pubblicato dalla casa editrice Ediesse nella collana Saggi. Con grande rigore scientifico, l’Autore indaga sul ruolo rivestito dai media nella diffusione dell’immagine stereotipata e negativa dell’immigrato, ormai chiamato esclusivamente clandestino.
“Nel villaggio globale l’informazione – è superfluo ribadirlo – assume un ruolo centrale e invasivo delle coscienze”. Lo scrittore definisce un vero “killeraggio mediatico” quello fatto contro l’immigrato; ogni giorno siamo bombardati da sondaggi, diagrammi e percentuali che non perdono l’occasione di mettere in evidenza il crescente numero di dati allarmanti che sottintendono una vera e propria ideologia xenofoba.
Con grande passione civile, Giulio Di Luzi analizza le diverse forme di intolleranza, soffermandosi anche sul linguaggio e sulle “mille forme dispregiative di connotazione”: extracomunitario, clandestino, immigrato, irregolare, profugo, disperato, rifugiato.
Il clima di sospetto nei confronti dei nuovi arrivati, riporta alla memoria l’analogo trattamento riservato in passato ai migranti meridionali, sbattuti in prima pagina dalla stampa italiana come “calabresi, siciliani o pugliesi”.
Con “Brutti, sporchi e cattivi”, l’Autore tenta di ripristinare la “verità storica”, distaccandosi totalmente dall’immagine mediatica, arricchita dai soliti cliché narrativi, che col tempo ha contribuito ad alimentare la visione dell’extracomunitario – clandestino – criminale.  In conclusione, Di Luzi si sofferma anche sul panorama fotogiornalistico italiano, definito come riduttivo e superficiale, dal momento che “l’immagine viene meno al compito di rappresentare i mutamenti in corso, presentandosi a simbolizzare vecchi copioni”.

“Opendoor” aprire le porte non significa essere liberi

Marianna Abbate
ROMA  “Opendoor” è la prima opera di Josi Havilio tradotta in italiano, pubblicata da Caravan Edizioni. Prima di presentare il testo volevo soffermarmi sulla scelta grafica e di formato, della casa editrice, che non ha nulla da invidiare alle grandi edizioni tascabili (se non il prezzo…). I libri si presentano compatti, gradevoli alla vista e al tatto, con un testo ben leggibile, elementi imprescindibili per una buona lettura. Devo quindi riconoscere che già in partenza ero favorevolmente influenzata dall’involucro.

Il libro è originale, vago, pieno d’emozione.

Josi Havilio è un giovane autore argentino, che si è guadagnato la fama proprio grazie a questo suo primo romanzo, pubblicato in origine da una piccola casa editrice.

La storia si svolge ad Opendoor, un paese sperduto nella campagna argentina. Un posto dove dall’inizio del ‘900 vivevano in esilio tutti i matti del paese. Il nome del villaggio è simbolico, le porte delle case, dell’ospedale, sono aperte, perché è inutile cercare di scappare.

E qui arriva la protagonista, anonima e sola. Sospesa tra sanità e follia, stringe amicizie passeggere, vive rapporti d’emergenza. Non è la sola a soffrire, tutti soffrono. L’aria e la noia danno l’illusione di una pace che non esiste.

Un romanzo quasi mistico, indolente ma allo stesso tempo malinconico e quasi nostalgico. Letteratura.

“Seminario Montale”: le ultime declinazioni d’Eugenio.

Giulio Gasperini
ROMA – Nel 1971 Montale pubblicò “Satura”, una raccolta che fratturava, risoluta, la linea della sua precedente esperienza (e vocazione) poetica. Alla paura cosmica del mondo che franava sotto la furia della bufera, si sostituì un inevitabile ripiegamento nel cosmo individuale, nell’intima personalità, nella quotidiana gestione di affetti e comportamenti; come a dire che, dopo la rinuncia all’universalità, l’uomo dovesse sperimentare finanche la diserzione nella terra del sé stesso. Gaffi editore ha pubblicato nel 2011 “Seminario Montale”, scritto da Fabrizio Patriarca (nella collana Centenaria), nel quale il critico si assume l’ingrato compito di guidarci alla scoperta e, più difficoltoso ancora, alla comprensione dell’ultimo consapevole Montale.
Con Satura si assiste, secondo il critico, al ripiegamento verso forme di “verità archetipiche”, finanche inspiegabili in una raccolta poetica che virava così risolutamente dal Morale degli “Ossi di seppia”, de “La bufera” e de “Le occasioni”. Prospettive metafisiche fin troppo raffinate e importata poetica del correlativo oggettivo lasciano spazio a un respiro che, se non più ampio, si concreta decisamente più diretto e sincero, lasciando spazio all’esperienze del lettore e al suo proprio apporto personale.
A partire da quell’odore di limoni, dal loro colore violento che ferì l’occhio e aprì alla presunta salvezza, Montale si accorse forse che il suo viaggio, giunto alle estremità più remote del mondo a toccare persino “Finisterre”, doveva tornare all’origine, come un fiume che, giunto alla foce, si strugge nella malinconia della separazione dalla sua sorgente. Patriarca vaglia attentamente tutta la critica del ‘900, la quale tanta attenzione riservò a Montale, fin quasi a spingersi nei lidi di una vera e propria elucubrazione teorica, tale da scontornare i veri limiti della sua poetica e presentarcelo forse più difficile di quel che in realtà fu.
Con uno stile, a tratti, un po’ pesante e difficile da leggere senza ricorrere al vocabolario persino per ricercare ansiosamente una congiunzione disgiuntiva, il critico Patriarca trapana con decisione e con puntualità chirurgica la superficie e il tessuto di una raccolta poetica ingiustamente bistrattata e considerata potenzialmente inferiore alle sue precedenti, che lo fecero scoprire e lo esagerarono poeta come mai nessun altro (con sommo dispiacere e disappunto del suo rivale Ungaretti). Fabrizio Patriarca ha uno sguardo attento e puntale, costantemente ci guida al riferimento e non ci abbandona mai durante la ricognizione del più tardo Montale, permettendoci così di giungere a una riscoperta che non sia di pura forma ma anche di ricca sostanza.