“Scongela l’arrosto” ovvero storie di ordinaria follia familiare

Luigi Scarcelli
PARMA – Una coppia si guarda alle spalle e vede due persone che si vogliono, si rincorrono, si amano, si odiano, si sposano, fanno una figlia. Dopo anni non vedono nessuna somiglianza tra quello che erano e ciò che sono diventati; una distanza quasi siderale spunta tra i primi momenti d’amore e la quotidianità della famiglia di oggi. Un esempio di dramma familiare e di coppia, affrontato nel  libro “Scongela l’arrosto” edito da Lupo Editore e scritto da G. Battista Odone, un giovane istruttore di nuoto con la passione (e la stoffa) per la scrittura.

 

La storia è concentrata in un fine settimana, in cui la protagonista Sara vivrà una delle esperienze familiari più traumatiche e significative della sua vita. In quel fine settimana infatti la ragazza sedicenne sarà spettatrice di una delle peggiori fasi del problematico rapporto tra i due suoi genitori, l’ironico e nostalgico Giulio e Lara, donna tanto bella quanto algida e distante nei rapporti umani. Il racconto scorre tra ricordi romantici e cruda quotidianità, incentrato su un rapporto a tre (padre, madre e figlia) fatto di apparentemente fragili equilibri: Giulio e Lara sembrano due persone completamente diverse, uno emblema dell’emotività, l’altra incarnazione di freddezza e precisione; Sara si divide tra una madre troppo distante e un padre forse troppo amico e confidente con lei.

Il libro  si conclude con un finale molto toccante che lascia intendere, ma non svela del tutto, i veri vincoli sentimentali dei personaggi.

L’autore riesce a trasmettere tramite la sua scrittura, in un racconto serrato, la ricca emotività dei personaggi e a descrivere il delicato e complesso mondo della vita di coppia, di una coppia vicina fisicamente ma distante negli animi, una coppia che nel tempo ha visto raffreddarsi la viva passione dei primi momenti, quelli della scoperta e della conquista.

Un libro breve ma molto avvincente, una storia che “prende” pagina dopo pagina e lascia riflettere sui mille volti e i mille equilibri di una apparentemente normale vita familiare.

 

 

“Appuntamento al Ritz”: sognare in un grand hotel

ROMA“Era da un paio di mesi, ormai, che provavo un gran desiderio di cambiamento. Lo sentivo ogni giorno più forte. Ero convinta di aver spremuto la città al massimo. Restavano poche gocce. E speravo che mi bastassero per resistere. Non volevo correre il rischio di morire di sete proprio nella Milano da bere!”
E come in ogni sogno che si rispetti il cambiamento per Hope arriva in maniera improvvisa. Una semplice telefonata mattutina le cambia i piani: da Milano deve volare verso Parigi. Così comincia “Appuntamento al Ritz” il libro di Hélène Battaglia pubblicato da Dalai Editore.

Hope, la protagonista, scrive di moda e il suo sogno è diventare scrittrice; intanto, con in Natale alle porte, Hope deve organizzare le feste in famiglia e organizzare è una cosa che le riesce molto bene. La vita, però, è fatta di sorprese e cambiamenti che non sempre permettono di pianificare con calma le cose. Hope ne è consapevole da quando ha risposto a quella telefonata. Dall’altra parte della cornetta c’è il suo capo. Deve andare a Parigi con il primo volo, lì qualcosa l’aspetta. Ad attenderla ci sono gli Champs-Élysées e il monumentale Hotel Ritz. Un Grand Hotel in piena regola è quello che trova Hope al suo arrivo in città. Lei dovrà “lavorare sotto copertura” e scoprire i retroscena di questo luogo da sogno.

 

In questo modo, con un “nuovo lavoro” e con Paul, lo steward incontrato sul volo verso la sua nuova vita, Hope ha l’occasione di rimettersi in gioco. Dai piani bassi dell’hotel, quelli riservati al personale, la protagonista del romanzo della Battaglia guarda al lusso in altro modo. Guarda al mondo in altro modo. E questo le dà la spinta per cambiare, per affrontare nuove sfide e timbrare ogni giorno il cartellino del lato segreto del Ritz.

 

Ironico e sorprendente, sognatore e incalzante, il romanzo di Hélène Battaglia è una favola 2.0.

“La mancanza di gusto”, il racconto di una famiglia

ROMA“Tornerò. Tra un mese o tra un anno, senza una ragione o per un matrimonio, supplicata da mia madre, contrita o contenta di essere qui, per un raduno di famiglia o per un funerale. Tornerò a controllare di chi si tratta. Approderò qui per curare un malessere, una solitudine e mieterne altre. Poserò le valigie, non mi tratterrò a lungo, eh, solo qualche giorno, per ascoltarli, per guardarli vivere. E poi riprenderò il treno, intenerita, irritata o cupa. Un giorno, il mio ultimo giorno qui, sarò confusamente atterrita all’idea di non aver saputo conservare qualche frammento delle loro esistenze per evitare che sfumino, silenziose. Questa casa diventerà il mio paradiso perduto, un po’ nauseante, quello che già sto tessendo. Bello, chimerico e triste. Come quello di un qualsiasi vecchio rimbecillito”.

È la casa del bisnonno, quella che raccoglie quattro generazioni nella settimana di ferragosto. È la casa, un castello, nella quale si cerca rifugio e riposo lontano dalla calura parigina. Ed è tra queste mura sospese nel tempo che Mathilde torna.

Mathilde è la protagonista di “La mancanza di gusto”, il libro di Caroline Lunoir pubblicato da 66thand2nd.
Giovane avvocato parigino, Mathilde arriva nella casa delle vacanze in un caldo giorno di agosto e, ad accoglierla, ci sono i nonni e i prozii, testimonianza fisica di un tempo che è passato e sta finendo. Delle loro vite, così intense di accadimenti, di gioie, dolori e momenti difficili, Mathilde constata che ormai sono ridotte al ricordo. Ma di queste persone, radici del suo albero genealogico, forse non ne ha la stessa forza. Mathilde non è abituata alle sfide dei suoi avi: la guerra è un avvenimento che si completa nei libri di storia, ai suoi occhi – e a quelli della sua generazione – avrebbero dovuto essere tutti partigiani perché a posteriori la vita è semplice, la guerra è semplice. La storia, però, è stata un’altra, la guerra è stata di più di uno scontro armato. La guerra è stata nelle vite di ognuno, nelle scelte e nelle conseguenze. E, a bordo di quella piscina che raccoglie generazioni a confronto, Mathilde pensa alla generosità della vità nei suoi confronti. Lei la storia la guarda dal bordo di una piscina in un castello della Francia, protetta e intrappolata in una famiglia che osserva dalla sdraio un mondo borghese che sta implodendo.

 

Vedi qui la video intervista all’autrice realizzata con ITvRome

Dopo il successo di “Eden”, Alessandro Cortese ritorna in libreria con un nuovo audace romanzo: “Ad Lucem”

Alessia Sità

ROMA –  “Striscerai sul ventre e mangerai la polvere per tutti i giorni della tua vita”.
Dopo il fallimento della congiura contro il Grande Padre, gli angeli colpevoli del complotto sono stati puniti crudelmente e scaraventati nell’Abisso. In “Eden” il desiderio di libertà di un intero popolo finisce per essere ‘schiacciato’ dall’implacabile furia di Yahweh. Umiliati ed esiliati per sempre, il destino dei sopravvissuti sembra ormai essere quello di strisciare fra i cadaveri sino alla totale estinzione. E’ con questo scenario che si apre “Ad Lucem” il nuovo audace romanzo di Alessandro Cortese, edito da ARPANet. Per Lucifero ha inizio un lungo e doloroso viaggio alla scoperta dei profondi meandri dell’oscurità. L’angelo ribelle, colui che sfidò il Monarca Supremo, diventa il punto di riferimento di tutti coloro che hanno sperato nella libertà, ma che adesso sono costretti a vivere nel baratro, vessati da infinite sofferenze. Il desiderio di riscatto e la vendetta, guideranno il Custode del Lume alla ricerca di nuovi alleati per costruire la “Città del Fuoco”: Ade. Nuovi interrogativi e sconvolgenti rivelazioni porteranno i protagonisti di “Ad Lucem” alla scoperta della verità. Arpie, grifoni, ciclopi, chimere seguiranno l’Angelo nel suo progetto di risalita al regno del Grande Padre. In “Eden” Lucifero aveva amato Eva fino alla rovina, adesso l’entrata in scena di Lillith – la creatura ribelle creata dalla polvere esattamente come Adamo – stravolge completamente quel sentimento che lo aveva totalmente annichilito. Dopo la terribile punizione divina, il Signore degli Inferi “non avrebbe permesso all’amore di fare altro danno” e soprattutto non avrebbe più permesso al Despota di sfruttare le sue debolezze.
Misticismo, esoterismo, antiche leggende, contribuiscono a conferire un tono di estrema solennità a tutto il romanzo. L’eterna battaglia fra il bene e il male sembra ormai essere il ‘leit motiv’ che anima la narrativa di Alessandro Cortese. Ancora una volta, nulla è lasciato al caso, ma ogni elemento contribuisce ad arricchire l’intreccio. La stessa struttura del libro, diviso in prologo e cinque parti: “Ministero nell’Abisso”, “Adunanza”, “Lo Schema”, “L’arte della Guerra” e “Le regole del gioco”, ne è un chiaro esempio.
Ancora una volta, Cortese spinge il lettore a interrogarsi sulla “Creazione dell’Universo”, sulla vera natura del Supremo e sulla Sua reale bontà divina.

Il Vaticano, protagonista indiscusso tra fantasia e realtà.

Marianna Abbate
ROMA  – Di libri sui segreti complotti del Vaticano ne sono stati scritti molti. Alcuni sono esageratamente fantasiosi, altri inquietanti. E poi c’è “Il curatore segreto del Vaticano” di Umberto Vitiello, pubblicato da qualche settimana da Lupo Editore.

 

Il romanzo immagina un futuro vicino, dove la Chiesa sta cercando di riorganizzarsi, lottando contro le impurità interne nell’intento di ritornare alle origini del cristianesimo. Trama abbastanza ingenua  e irreale, se non fosse che l’attualità sembrerebbe quasi dare ragione all’immaginazione dell’autore. Per Vitiello la trasformazione dovrà avvenire durante un segretissimo concilio, da svolgersi in un luogo misterioso e isolato come una tranquilla abbazia montana. Ovviamente la pacifica location è tutt’altro che sicura, a tratti ricorda moltissimo l’impervio monastero del “Nome della rosa”, e diventa subito dalle prime pagine teatro di un terribile omicidio su un aspirante monaco dalla storia complicata e dal passato sospetto.

Grazie all’aiuto di uno dei monaci che abitano l’abbazia, che per caso era dottore in economia, si risolvono e vengono svelati i terrificanti segreti della banca vaticana.

 

Il libro è interessante dal punto di vista della costruzione, tuttavia devo ammettere che a volte l’innegabile erudizione dell’autore rallenta un poco la trama: forse è questo il punto debole del romanzo. Tuttavia tutte le fila sembrano ricongiungersi in maniera abbastanza nitida, e questo è sicuramente un  punto a favore dell’esperienza di Vitiello.

Più che un vero e proprio thriller, nonostante gli ingredienti fondamentali siano mistero, omicidio e deduzioni, si tratta di un romanzo suspense con una strizzata d’occhio alla storia e, inaspettatamente, all’attualità.

 

“Delitto a Villa Ada”, il movente poetico di un omicidio

ROMA “E più sono intelligenti più sono pericolosi, creda a me che li conosco. Quello che è successo a Villa Ada si spiega solo così”. 

A differenza di tutti quelli che a Villa Ada ci vanno solamente per la corsa mattutina, Vasco Sprache nella villa ci vive e lo fa come un barbone. Nonostante sia un poeta conosciuto e un uomo di bell’aspetto, Sprache ha fatto del parco la sua casa e personalizza i viali appendendo agli alberi le sue poesie. Un giorno, però, viene ritrovato morto. Da questo delitto partono le indagini del commissario Sperandio, figlio di professori universitari e ultra quarantenne con il pallino per la poesia. Sperandio, infatti, è tra coloro che tutte le sere, dopo lavoro, si dedicano a comporre versi e la mattina, prima di recarsi a lavoro, con qualsiasi clima, si reca a Villa Ada per correre. E Sperandio conosce bene il parco e i suoi anfratti e, attraverso gli interrogatori per scoprire il colpevole del delitto, conosce anche tutti coloro che corrono e hanno un qualche rapporto con la poesia. Tra questi c’è Giorgio Manacorda, il professore universitario in “odore di nobel” che ha ritrovato il cadavere di Vasco Sprache.

 

Giorgio Manacorda in “Delitto a Villa Ada” – pubblicato da Voland – diventa personaggio, maggior indiziato per l’omicidio e forse vittima anche lui di un mistero che si gioca sul filo del verso poetico.

La trama del racconto è avvincente e il libro si dipana fino all’ultima pagina arricchendosi di colpi di scena e rimandi letterari (i nomi degli indiziati sono i cognomi di poeti italiani celebri, l’amicizia dell’autore con Pasolini, il ruolo “banalizzato” della poesia e lo scontro perenne tra ispirazione poetica e qualità letteraria). Autoironico e irriverente è Manacorda che scrive una favola noir dalle sfumature linguistiche e stilistiche degne del suo nome e del suo personaggio anche fuori dal romanzo.

“Heartland”, continua lotta metropolitana

ROMA –  “Suo padre aveva firmato qualche autografo sui volantini con le formazioni o su fogli sparsi, non parlava quasi, non ce n’era bisogno. Aveva fatto il calciatore, Rob lo sapeva, da giovane aveva giocato con i Lupi del Wolverhampton, poi si era infortunato ed era andato a lavorare come tutti i papà. Fino a quel giorno non gli era sembrata una cosa importante.” Ma Rob crescendo impara che le cose importanti ci sono e una di queste è la lotta alla xenofobia; un tunnel nel quale la città di Dudley sembra essere risucchiata. Anche se Rob volesse essere altrove, per esempio con Jasmine, Adnan o Andre, Rob sa che alla partita di calcio tra Cinderheath Fc e la compagine musulmana di Dudley, la sua città, ci deve essere. E’ in questo distretto siderurgico delle West Midland, infatti, che Rob è cresciuto, ha cominciato a giocare ed è diventato insegnante. Ma lui, questa partita non ha voglia di giocarla. Rob è il protagonista di “Heartland”, il romanzo di Anthony Cartwright pubblicato da 66than2nd.

Siamo nel 2002 e l’Inghilterra di Backham sfida l’Argentina di Veron; la sfida calcistica è la metafora della lotta intestina che sta attraversando la provincia britannica. Negli anni, la periferia delle città del Regno Unito sono diventate il centro dell’insofferenza multietnica e in questa partita che divide bianchi e neri della stessa città Rob vuole capirci di più. Schierato nelle fila dei bianchi, il protagonista del romanzo si trova ad affrontare Zubair, il fratello dell’amico scomparso Adnar.
“Heartland” è il romanzo «più manifestamente politico» di Cartwright. Infatti, “quest’urlo narrativo” dello scrittore manovale (data la sua lunga gavetta lavorativa) lo annovera di diritto nella grande famiglia del realismo sociale inglese (in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle) ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo.

 

«Tutti i romanzi, per quanto realistici, sono sempre e comunque opere di fantasia»

“La musica è vita. La vita è musica”.

Michael Dialley
AOSTA – La musica è l’unico elemento, forse, che accompagna l’esistenza di ogni uomo ed è partecipe di ogni tappa fondamentale della crescita di un individuo.
Questa la definizione di musica che emerge nel nuovo romanzo di Franco Leonetti, “Sei note di pentagramma”, per Lettere Animate Editore: 18 racconti indipendenti che raccontano, musicano la vita dei protagonisti attraverso un linguaggio colorato, spumeggiante, vivo, che pare di vedere davvero delle note su di un pentagramma.
Storie quotidiane, storie d’infanzia, situazioni difficili, fatte di disperazione, dolore, ma anche amore e gioia. Questo è l’andamento del romanzo, il cui unico filo conduttore è la musica, che s’intreccia ineluttabilmente alla vita di ogni uomo.
Mano a mano che si viene coinvolti dalle sinfonie, dalle arie, di queste vite viene spontaneo chiedersi se la musica sia un elemento che condisce ed accompagna l’esistenza delle persone, oppure se questa musica non sia anche la vita stessa.
Spesso i racconti lasciano il tema musicale molto ai margini, ma sono storie movimentate e sonore, quasi come se loro stesse fossero dei brani musicali rock, metal; le parole diventano acuti, bassi, batterie, che rendono la lettura quasi un ascolto.
Tanti i riferimenti ai grandi della musica, soprattutto rock, che hanno composto canzoni straordinarie, ma altrettanto unici i testi, le poesie, che venivano cantate; ecco, il romanzo vuole essere questo: parole scritte che si confondono con le note di uno spartito.
Quante volte ci si rifugia nella musica per riflettere, per svuotarsi la mente, per cercare di reagire alle situazioni nelle quali la vita ci spinge inesorabilmente, costantemente e ripetutamente; la vita è fatti di alti e bassi, sempre accompagnati da una colonna sonora, che cambia a seconda dell’età, del periodo, dello stato d’animo.
Si è accennato prima alla vita vista come musica: si pensi al minuetto, un componimento musicale che su di un pentagramma appare come una sequenza di note legate che creano un movimento ondulatorio fatto di alti e bassi; questo schema non può essere quello degli alti e bassi della vita di ogni uomo?

Nuove Edizioni Romane: “Piccole donne oggi”

Giulia Siena
ROMA – Era il 1880 quando Louisa May Alcott pubblicò “Piccole donne”, il libro diventato un classico della letteratura per ragazzi. La storia era quella di Meg, Jo, Beth e Amy, le quattro sorelle March, fanciulle molte diverse tra loro che vivevano la propria quotidianità nell’America dell’Ottocento. Dopo oltre un secolo dalla prima edizione del grande romanzo della Alcott, dalla penna di Angela Nanetti nasce “Piccole donne oggi”. Pubblicato dalle Nuove Edizioni Romane, “Piccole donne oggi” racconta la storia di quattro sorelle adolescenti che vivono le proprie passioni e le proprie diversità con entusiasmo e coinvolgimento.
Marta, Diana, Margherita e Isabella vivono con papà Marcello,  mamma Francine e nonna Miranda nell’Azienda Agricola Boschetto a chilometro zero. Infatti, l’ingegner Roggi – il padre delle ragazze – ha deciso di cambiare vita e andare a vivere con la famiglia in campagna, di prendersi cura dei campi, di vendere i prodotti della terra e di trasformare la grande casa nella loro dimora. Tutto per le ragazze Roggi cambia in un’estate: Marta, la più grande, è sempre alle prese con il cellulare e i social network e per questa storia del trasferimento in campagna è sempre di pessimo umore. Marta vorrebbe fuggire; vorrebbe andare in Francia a e sognare insieme al suo amico di chat, oppure prendere il motorino e raggiungere il paese, tornare alla vita. Tornare alla sua normalità. Ma il suo tentativo di fuga sfuma e deve impiegare le vacanze a studiare e a mungere (è un’attivita rilassante!); forse, però, la vita al Boschetto non è poi così male… Marta si scopre affascinata nell’osservare sua madre. Diana “la dea della caccia”, è proprio il caso di dirlo; Diana, la secondogenita, ha i colori del padre e la stessa passione per la natura. Lei è una boyscout dalle idee chiare, dall’animo green e dalla forte personalità. Diana, infatti, è la saggia di casa: ascolta, incoraggia e media tra Margherita e Isabella. Queste ultime sono le piccole di casa Roggi e tra loro è un continuo battibecare perché sono così diverse e così legate: Margherita, con la sua delicatezza attira le coccole e le attenzioni di mamma e questo fa andare su tutte le furie la piccola “scienziata”. Isabella infatti aspira a essere una scienziata, nella grande casa del Boschetto ha il suo laboratorio, viviseziona i piccoli animali e ha come amico un asino.
La loro vita si svolge così, con qualche imprevisto e cambiamento fino alla prima nevicata. La neve cambierà le ragazze e saranno pronte ad affrontare tutte le altre estati insieme.

 

Angela Nanetti non delude. Il libro coinvolge, la storia è articolata e i personaggi hanno l’ottima capacità di muoversi in tutte le situazioni del racconto. La trama del romanzo, nonostante quanto si possa pensare dal titolo, non è scontata. Le tematiche affrontate sono molteplici e raccontate con una facilità di scrittura che rende “Piccole donne oggi” un classico per tutte le età.

 

“Le estati non sono tutte uguali, ci sono quelle che passano nascoste e altre che ti cambiano la vita. E nemmeno gli autunni sono tutti uguali, perché le foglie che cadono non sono mai le stesse e neanche le piogge. Ecco perché quell’estate e quall’autunno furono per loro così importanti…”

“Memorie dall’innocenza”, quando l’errore aveva un altro volto

Marianna Abbate
ROMA – La parola memoria non ha un significato statico, perfettivo, come quello della parola “ricordo”. Avere memoria comporta un impegno, un coinvolgimento della persona. Comporta sentimenti, sensazioni, emozioni. Il ricordo è un’immagine fissa, una fotografia del passato, una tela dipinta e ormai incorniciata. La memoria è un quadro in fieri: tieni ancora in mano il pennello e stai ancora scegliendo i colori che comporranno l’immagine. Hai ancora qualcosa da dire, qualcosa da cancellare, qualcosa di cui pentirti e qualcosa da focalizzare. La memoria cambia.

Ed è la memoria la vera protagonista di questo breve romanzo di Serena Frediani, edito da Avagliano. “Memorie dall’innocenza” utilizza l’antico escamotage dell’amnesia post-traumatica, per scavare nell’inconscio dei protagonisti. Vittime di un incidente ferroviario, due persone che non hanno apparentemente nulla in comune, si trovano a ripercorrere la loro vita in un viaggio metaforico, che li porterà a rivalutare scelte e decisioni compiute in passati ormai lontani. Riemerge in loro un dimenticato bisogno di perdono, per quelle colpe sopite, nascoste sotto strati di altri ricordi. E se anche le loro storie sono molto diverse, il dolore sembra essere lo stesso.

 

Bellissimo lo stile narrativo della Frediani. Frasi sospese, tensione intrinseca ed emozioni. Le parole seguono il flusso dei pensieri, ma senza perdersi nelle divagazioni naturali della mente. Sempre focalizzata sulla trama, l’autrice riesce a trasmettere le paure e le incertezze dei suoi protagonisti.

 

Daria e Jean, due figure che vi ricorderete.