Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.

Le poesie delle donne che creano l’estate.

Giulio Gasperini
ROMA –
Scipione, Caronte, Lucifero… Avranno anche nomi diversi, ma ogni anno arrivano, puntuali e crudeli. Le temperature si impennano, l’umidità stringe in una morsa e le vacanze diventano l’obiettivo primo per chiunque. Ma l’estate è anche una stagione colorata e densa di emozioni, una stagione di libertà e di sogni, nella quale spesso si compiono i cambiamenti ma che, vicina al suo finire, induce ai pensieri e alle riflessioni. È la stagione del riposo, delle pause di cuore e mente, ma è anche il preludio a ogni nuovo inizio e a ogni ritorno di responsabilità. Per i bambini, ad esempio, come ricorda Vivian Lamarque, finiva la scuola e cominciavano i giorni della colonia: “Alla stazione / prima di partire / un pompiere faceva l’appello. / Sedevamo sulle valigie / e i bambini dicevano alle mamme / guarda i bambini delle colonie”.
L’estate è la stagione del mare, dei ricordi che lui spinge a riva, dei tesori che ci concede: come, ad esempio, le conchiglie, che si raccolgono sul bagnasciuga e che, se avvicinate all’orecchio, paiono ritornarci, in altri altrove, la voce del loro mare. Margherita Guidacci conchiglia si finse, e pretese un suo ritorno all’origine: “Non a te appartengo sebbene nel cavo / della tua mano ora riposi, viandante; […] / Io compagna d’agili pesci e d’alghe / ebbi la vita dal grembo delle libere onde. […] / Perciò si duole in me l’antica patria e rimormora / assiduamente e ne sospira la mia anima marina, / mentre tu reggi il mio segreto sulla tua palma / e stupito vi pieghi il tuo orecchio straniero”. Katherine Mansfield, invece, la invoca come cantrice d’eterno, come voce del mito in terra di miti: “Ascolta: la conchiglia iridescente / canta nel mare, al più profondo. / Eternamente giace, e canta silenziosa”. L’estate è la stagione che svuota le città, che le spopola, le rende un deserto di suoni e voci. In pochi calpestano i marciapiedi, ci dice Vivian Lamarque, in pochi si incontrano agli angoli delle strade: rimangono pochi i suoi abitanti e gli altri si macchiano di piccoli grandi crimini, per la furia delle vacanze, per la furia del riposo: “Agosto ce ne andiamo / solo vi lasciamo Milano / vigilate voi, noi assenti / sulle nostre case eleganti / sui bei ladri distinti / sui governanti. / Noi ce ne andiamo, vi lasciamo / i nostri cani adorati / affamati assetati / […] / Vi lasciamo per compagnia / i nostri cani adorati / affamati assetati / e poi piccioni e piccioni / e sotto i piccioni / statue dai grandi nomi / statue rinomate / ma voi come vi chiamate? / Vi abbiamo tolto anche i nomi / nelle nostre città / vigilate voi, voi Persone / che chiamiamo Vù Cumprà”.
Ma l’estate è anche la stagione dei cieli chiari e delle notti dense di stelle, dei pianti delle comete, dei desideri espressi che chissà se prima o poi, nel resto della stagione, si esaudiranno o rimarranno speranze: triste l’estate evocata da Maria Luisa Spaziani, una stagione zuccherina e malinconica, perché il sole abbaglia, è vero, ma crea anche molta ombra: “Scorreva un vento caldo sugli abeti / tenebrosi da secoli, e portava / da fondali africani un grido lungo / come un corno da caccia. Solo il tonfo / delle pigne ritmava il suo ruggito / lontano, quasi musica, e rasente / il disco della luna, rari uccelli / notturni sciabolati sul confine / d’ombra e di luce qui da te giungevano / a portare messaggi che ora il tempo / mi esalta e mi confonde. Fu una notte / di aspettazione, e lento San Lorenzo / si annunciava con pianti di comete, / gigli che si sfogliavano nel buio, / senza mani a raccoglierli”.
E quando l’estate finisce rimane in bocca come un retrogusto amaro: le giornate si accorciano, i colori cambiano, si fanno meno soffocanti, e tutta la natura – secondo Emily Dickinson – pare addobbarsi: “L’acero sfoggia sciarpe più festose / ed il prato si veste di scarlatto – / per paura di essere fuori moda / voglio mettermi un ciondolo”. E la fine dell’estate comporta la fine della festa, la fine del movimento più frenetico: si torna, come dice Patrizia Cavalli, al riposo, alla rilassatezza dei gesti: “Tra un po’ tutti all’inferno. / Però per il momento / è finita l’estate. / Avanti, su, ai divani! / Ai divani! Ai divani!”.

“Il richiamo della strada” e le nostre distanze compresse.

Giulio Gasperini
ROMA –
“Il mondo offre una fonte inesauribile d’ispirazione”. La mistica del viaggiatore sta tutta in questa frase, in questo concetto semplice quanto disarmante, sorprendente. Come racconta Sébastien Jallande nella sua piccola guida “Il richiamo della strada” (edito in Italia da EdicicloEditore nel 2011) il viaggiatore comincia il suo viaggio ben prima di partire. L’attesa, la preparazione, l’edificazione stessa del viaggio rappresentano vere e proprie tappe fondanti, oltreché obbligate. Perché il viaggio è preparazione, è formazione, è crescita; il viaggio è “un atto filosofico”. “Partire impone una presa di coscienza”: il considerare, cioè, di dover mettere in discussione tutto, di noi. Ogni nostra singola scelta, la direzione che, di volta in volta, dobbiamo calibrare ed eventualmente cambiare, ci inducono a confrontarci prima di tutto con noi stessi, con le nostre attese e le nostre pretese, con le fragilità e i punti di forza. “La vita è altrove”, come scrisse Kundera, e come Jallande pone come epigrafe della sua mistica del viaggiatore.
Si parte per conquistare un qualche orizzonte, si parte per dare un nome ad altre terre (un nome che sia tutto nostro, intimo e privato), per nutrire la propria aspirazione all’ignoto. E prima di partire mettiamo in conto le distanze che dovremmo percorrere, quei sentieri che creeranno la nostra mappa personale. Le distanze però, nella nostra contemporaneità, sono da reinventare perché si sono compresse, in qualche caso annullate. Non ci sono effettivamente più nomi da inventare né terre da battezzare. Oramai il mondo è squadernato in cartine e planisferi, è sondato da radar e GPS, è monitorato da internet e motori di ricerca. Oggi, più che in passato, quando l’emozione del grido “Terra!” defibrillava i cuori e sbizzarriva le menti, il viaggio ha senso solo se ripiegato sulla personalità che lo compie. Sul soggetto che lo vive. Sicché la geografia più importante non è né quella fisica né, tantomeno quella economica o politica: la geografia più stimolante (e quella più valida su cui puntare) è quella intima perché “appropriarsi di un luogo sconosciuto è anche sviluppare una rete di legami”. Ecco allora che la geografia si accompagna alla sociabilità, è una “mistica dell’incontro”, e non se ne può separare, non si può scindere né prescindere. Noi siamo gli artefici del mondo, del suo sviluppo, delle sue derive e dei suoi approdi; noi, come scrive Jallande, partecipiamo alla “sedimentazione del mondo”. Ci sono particolari, dettagli, brividi sui quali gli atlanti non dicono niente, per i quali non informano.
Il “partire è anche confrontarsi con ciò che ci viene negato”: è un continuo mettersi in gioco e screditare le opinioni altrui, nell’unico tentativo di cercarsi le proprie. L’unico compimento del viaggio, l’unico modo per analizzarlo e farlo gemmare e fruttificare, è il suo racconto. Perché la narrazione aiuta noi stessi e gli altri: “Ogni racconto è un dono per la memoria degli uomini” scrive Jallande. “Raccontare il proprio viaggio è quindi una forma di terapia contemporanea”, risponde a “un desiderio imperioso di mettere ordine in sé”. E rimane l’unico modo affinché il viaggio continui oltre il rientro. E ne fiorisca il significato.

Il “Proclama del fascino” alla fine dei giorni.

Giulio Gasperini
ROMA –
Era morto da una manciata di giorni. Si era spento, come tanti suoi amici, di AIDS, a Roma, in quella stessa città che lo aveva visto protagonista di magiche e irregolari notti. Era stato sepolto al Cimitero degli Acattolici, sotto la Piramide Cestia. Fu sepolto accanto all’amica, Amelia Rosselli, che si era suicidata poche settimane prima. Era il 1996: un anno tragico per la Roma letteraria (che a quel tempo ancora esisteva). Poche settimane dopo, nell’aprile, Arnoldo Modadori Editore pubblicò il suo addio al mondo: con “Proclama sul fascino” Dario Bellezza si separò dalla terra cantando un ultimo omaggio all’unica cosa che, oltre l’amore, aveva contato per lui, che gli aveva donato il potere di poetare: il fascino. Inteso come eros, come forza tellurica, potente e sferzante, che stimola gli uomini e impedisce loro di prostrarsi e inaridirsi. Tutto ha fascino, intorno all’uomo, anche tradire: “La verità è che tradire / ha fascino, violento e incorruttibile”. L’uomo vi è immerso, nel fascino, come fosse circondato da una cornice di perfezione: “Come debbo sparire dinanzi / alla bellezza del Creato!”. Il fascino, fin dai versi di “Morte segreta”, ha rappresentato in Bellezza un addendo fondamentale, che spesso si sommava alla morte, alla perdizione, alla putredine. Un compito gravoso, il suo, consapevole che “i poeti animali parlanti / sciagurano in bellezza versi / profumati – nessuno li legge, / nessuno li ascolta. Gridano / nel deserto la loro legge di gravità”.
Si separa dal mondo, Bellezza, da ogni oggetto che lo ha definito uomo. A cominciare dal telefono, “strumento libero / e appassionato di conversari / lugubri e obliqui, allegri / sin da ragazzo, adolescente / e più invano parlando d’amore / che di altro passai la vita / al telefono”. Si separò dal mondo, Bellezza, consapevole di stare per farlo, guardando la paura negli occhi; una paura con la quale conviveva dal 1987, una lotta impari, con un “male stupido”, che gli permetteva di contare i giorni, con la certezza che, presto o tardi, l’ultimo sarebbe arrivato: “Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei”. Si sentiva peccatore, si sentiva parte dell’annuncio evangelico: “Chi non ha paura di morire / scagli la prima pietra: adoro / la lapidazione; così il sangue / non sarà più rosso e la morte / non sarà più nera”. Si separò dal mondo, Bellezza, ostaggio della solitudine: “E oggi il telefono / muto non riporta più nessuna / parola amica”. Ogni amico abbandonato, ogni spazio lasciato vuoto, riempito soltanto da un ennesimo dolore: “La sedia di paglia si è rotta, / ne conservo solo lo schienale. / Fu regalo di un amico defunto / ormai sparito, suicida, arrivato / nel buio calmo degli Inferi”. Si sveste persino del suo ruolo, quello poetico, del quale chiede ammenda, come se fosse l’unico, reale, più importante peccato di cui mondarsi per consegnarsi alla luce. E trova spazio anche la concessione del perdono, come un novello Cristo in croce prima dell’ultimo fiato: “Dio mi assolva i peccati capitali. / Quelli sessuali non sono né tali / né osceni reati da prigione, lager / o manicomio. Se sono un expoeta è / solo colpa mia. I critici li perdono”. L’unica certezza di fronte alla morte è, di medicea memoria, la fugacità del tempo migliore, quello più perfetto: “Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità: / poi avanza tremando / vecchiaia e dura, dura / un’eternità”. L’eternità, per Bellezza e i suoi versi, però perdura. E ancora perdurerà.

“Neurosuite”: la poesia che rima con pazzia.

Giulio Gasperini
ROMA – Alda Merini poetò la sua “Terra Santa”: quelle “mura di Gerico antica” che erano il limite tra sanità e follia (anche se confuse erano le parti, se chi dentro o chi fuori). Ma la pazzia, la pericolosità dei manicomi, la perversa pretesa di guarigione che lì si covava erano già state declinate in versi. Da tante. Soprattutto femmine. Una gemma è “Neurosuite”, della dimenticata Margherita Guidacci, edito nel 1970 da Neri Pozza.
La silloge è un attraversamento delle “acque oscure”, come le appella la Guidacci stessa, a partire dalla soglia d’ingresso, da quella “Sala d’attesa” che è anticamera dell’inferno. Sicché non è un caso se anche nella poesia della Guidacci compare Dante e il suo Minosse, declinato nella figura del (nemico) dottore: “Avvìnghiati Minosse, / cingiti con la coda / anche se noi non la possiamo scorgere / perché l’hai ben nascosta / sotto il camice bianco”. In realtà, non ha neppure importanza il luogo: “Ma cosa importa dove siamo / se, essendo quel che siamo, / in nessun luogo ci sentiamo salvi?”. Lì i pazienti “entrano e ricevono / […] / un nome greco per il loro male”. Lì dentro si muore, “sepolte le stelle, la luna, / abrogata l’alba, distrutto / ogni ricordo luminoso” non c’è più una scheggia di vita, una scintilla di forza, di dignità. Le sbarre recintano l’uomo, lo delimitano nello spazio e lo sviliscono nell’animo: proprio il luogo che dovremmo pensare più sicuro ci rende più spesso prigionieri. E ci viola, violento. Tutto diventa ostile, sospettabile, anche un carrello che “non si capisce bene se col tè o l’iniezione”. E l’animo si frantuma: “Questi cocci che furono anime / non ti dicono i loro segreti”, perché “il nostro crollo non finiva mai”. Nulla conforta, neppure le arance col chiasso del loro colore, neppure le visite nell’ora del passo, perché “la solitudine / è la peggiore compagnia / come la compagnia / è la peggiore solitudine”.
La Guidacci lascia anche spazio alla polemica politica, un elegante e delicato affondo ai legiferanti: “Avemmo troppo o troppo poco – / ed il vano rimpianto / di leggi più serene”. C’è spazio per la polemica medica, per le tecniche adoperate – in particolare l’elettrochoc – che trasforma i pazienti in martiri dai segni tangibili, come sanguinanti icone ortodosse, nella “traccia degli elettrodi”. E poi c’è la polemica sociale, data dall’incontro tra un ‘cittadino’ e un ‘reduce’: l’imbarazzo che ne deriva, l’inutilità della tangenza, quella “conversazione interrotta, l’inquieto sorriso”.
Secondo la Guidacci, il malato pretenderebbe soltanto la sua dignità, pretenderebbe di non essere un numero incasellato e archiviato ma di poter sfogliare i propri diritti, di fronte all’inibizione della propria vita (“Almeno sia la morte di mia scelta!”). Quel che è più agghiacciante, però, ci confida la Guidacci, è la totale impossibilità di guarire, per l’inutilità delle cure. Non c’è cura, infatti, nel manicomio; c’è soltanto posticipo dell’inevitabile: “Si levano i nostri demoni / e vanno ad aspettarci / un po’ più in là, verso l’alba”. Non c’è nessuno che conforta, nessuno che aiuta: “Insegneresti il volo / a una farfalla murata / in secoli d’ambra?”. La disperazione è pesante, la prospettiva funesta: “Qui tante tende sbattono, / tante porte si schiudono. / Balenano spiragli, / ma tutti danno sul vuoto”. Ma un po’ di speranza affiora, filtra tra queste pieghe disperate: siamo tutti come una giovane rondine che “ubbidisce al richiamo / d’altri cieli che ancora non vide”. Perché la peggior prigione siamo noi per noi stessi: “Tu confini con l’aria, / tocchi gli alberi, cogli i fiori, sei libera, / e sei tu stessa la tua prigione che cammina”.

“La vacanza delle donne” e l’inevitabilità della guerra.

Giulio Gasperini

ROMA – Come potrebbe cambiare una società se le donne smettessero di voler fare l’amore? Aristofane aveva provato a tratteggiarla, con le sue sagge donne, capeggiate da Lisistrata, che per convincere gli uomini a non far più la guerra negavano sé stesse e i dolci piaceri del talamo. Le donne di Luigi Compagnone, invece, non decidono arbitrariamente uno “sciopero” del sesso ma rimangono colpite come da un’epidemia che le fa placare le voglie e le fa, pudicamente, ritrarre di fronte ai loro doveri coniugali. “La vacanza delle donne”, edito per la prima volta nel 1954 e riproposto, nel 1999, da Avagliano Editore, è il racconto ironico e divertito della crisi di un paese, Melaria, descritto come una sorta di Utopia, di Città del Sole, dove la società era composta e civile, dove si badava “alle serene articolazioni della sintassi” e dove c’era “molta fatica d’amore”. Dove “le stesse pagine bianche degli annali non eran lì a indicare stagioni vissute in pace e decoro?”

Gli annali del paese, che Compagnone finge di consultare, non hanno mai registrato nulla che valesse la pena di annotare: “Le nascite e le morti, e qualche sporadico episodio di nessuna importanza”. Tutti hanno un impiego, tutti hanno una loro collocazione nella società. Nessuno ne è escluso, nessuno sente il bisogno di fuggirne. Gli uomini, nerboruti e passionali, pieni di fiduciosa speranza in sé stessi e nell’avvenire, trovano il compimento del loro orgoglio nel possedere le mogli, le quali parimenti si fanno luoghi di ritorno e sublimi approdi, senza nessuna malizia né svilimento umano. E all’improvviso, senza nessun preavviso né motivo, le donne cominciano a ritrarsi alle carezze e ai gesti dei mariti; principiano a nascondere il volto nel cuscino, a schermirsi e sottrarsi, a privare gli uomini del loro successo quotidiano.
E come sublimano, gli uomini, la loro inesauribile tensione sessuale? Nel modo che, più di tutti, è all’opposto: con la violenza. Cominciano, infatti, una serie inaspettate di violenze e di vandalismi, così inusuali per quella delizia di posto che era Melaria. Un uomo precipita da un balcone; un giovanetto viene aggredito “con innominabili intenzioni in una strada fuori mano”; la farmacia devastata; il convento minacciato di saccheggi e distruzioni; “e ovunque ubriacamenti e cazzotti, a rotoli il lavoro negli uffici amministrativi”. Il delicato equilibrio sul quale si muoveva tutta la cittadinanza era misteriosamente spezzato: la sconosciuta formula magica che lo preservava intatto e immacolato era svanita, nell’assurda assenza d’un nemico concreto con cui prendersela e a cui addossare la responsabilità. Sicché diventa naturale, in quest’accelerarsi di eventi, pensare di formare un esercito, accreditando titoli e promuovendo persone per le loro capacità, più che per il loro reale merito. E partire, delirando, verso un nemico inesistente, cercandolo chissà dove, chissà quanto lontano, chissà per quanto.
Tutto questo per colpa di una mancanza. Non di sesso, ovviamente; ma d’amore.

Avete mai notato “La bellezza dell’asino”?

Giulio Gasperini
ROMA – Shakespeare lo aveva fatto. Nella sua commedia forse più straordinaria, “Sogno di una notte di mezz’estate”, aveva addirittura costretto una fata, pur sotto incantesimo, a innamorarsi di una testa d’asino su un corpo di uomo. Pia Pera parte proprio da qui: da un amore che troppo spesso è onirico, perso tra i fumi della trasformazione, quando tutto il mondo si scontorna e, come vento, sposta le sabbie e modifica le dune. I racconti de “La bellezza dell’asino” (Marsilio, 1992) testimoniano proprio questo: quanto il mondo possa essere completamente diverso, persino capovolto, se osservato e analizzato da un’altra prospettiva, collaterale, finanche estraniante.
I sentimenti, gli amori, il sesso, le sensazioni possono pur essere sempre le medesime, ma si quantificano e significano diversamente, offrendoci magari un appiglio estraniato ed estraniante. Un gatto che parla della sua padrona modella come se lei fosse la sua amante, e facendoci credere di esserlo stato veramente, in carne e ossa. Una successione di lettere consequenziali ma pericolanti, in una sorta di “relazioni pericolose” degli anni Novanta. Una confessione dolorosa e lancinante, compromettente e invalidante dell’umanità intima e più profonda. Il mondo va così accelerato, così rutilante, da mozzare il fiato nei polmoni, da lasciarli sgonfi. E allora cosa c’è di meglio che riposarsi tra le parole, tra i pensieri che vengono modellati dalle sillabe, messe poi nero su bianco con la precisione chirurgica di un inchiostro che non si smarrisce e che compatta l’uomo, impedendogli di sciogliersi e perdersi. Tutti marionette siamo, tutti goffi fantocci che il destino (o, chi preferisce, il caso e la casualità) muove docilmente, plasma secondo le sue direttive, gestisce e smentisce. Ma non ci sono solo gli uomini ad avere importanza. Ci sono anche gli animali che pensano e si comportano come gli uomini, meglio di loro in qualche caso, dimostrando sia istinto che inarrestabile spirito di conservazione. I legami umani sono complessi e fragili, delicati nel loro equilibrio di parole non dette ma pensate, di voci compromesse e di destini riscattati.
Al centro di tutto, c’è comunque la bellezza; la bellezza che provoca indifferenza, sospetto nei confronti dell’altra umanità che respira e pulsa tutt’intorno; la bellezza contro la quale ci troviamo a combattere e vivere; la bellezza che non sempre incentiva, quasi mai si trova nei posti che ci aspetteremmo; la bellezza che comporta fatica, mette in gioco l’uomo, lo porta a scommettere persino contro sé stesso, attendendo la possibilità di un riscatto e di una riconversione sincera; la bellezza che lo motiva e lo sostanzia, lo giustifica e lo definisce, che lo compromette e, in qualche caso, lo divora e lo strazia. Qualcuna ha scritto che, forse, potrebbe pure salvarlo!
La bellezza c’è. Da qualche parte. E da qualche parte, ognuno di noi, la scova. Anche in un asino.

Lago Maggiore “LetterAltura 2012”: la montagna che si svela.

VERBANIA – La splendida cornice dei Laghi Maggiore e d’Orta fa da sfondo alla sesta edizione di LetterAltura, il festival di letteratura di montagna, viaggio e avventura. Verbania e Macugnaga, Baceno e Crodo, Ameno e Miasino ospiteranno, tra giugno e luglio, una serie di iniziative culturali incentrate sulla promozione della montagna, un territorio che, in tempi di crisi, risente pesantemente dei tagli e della mancanza di investimenti. L’Associazione Culturale LetterAltura contribuisce a mirare “una diversa prospettiva di sviluppo, fondata sul paesaggio e sulle ricchezze naturali” della montagna, cercando di sottolineare e promuovere la montagna in ogni suo aspetto, dalla ricchezza e dalla bellezza del territorio alla promozione enogastronomica, a incontri con grandi autori a escursioni e gite naturalistiche e paesaggistiche. Saranno proposte, infatti, sei diverse tipologie di evento: incontri con autori e confronti a più voci, musica e parole in scena: teatro, reading e performance, cine-incontri e proiezioni multimediali, esperienze per bambini e ragazzi, escursioni e visite guidate, aperitivi e degustazioni. Cinque saranno invece i percorsi tematici: alpinismo, la capra, il formaggio di capra, montagne d’Europa e (r)esistenze (ovvero le piccole comunità di montagna che non vogliono sparire). Ospiti di punta del festival saranno Roberto Einaudi, che dialogherà col giornalista Enrico Martinet sul tema “Gli Einaudi: le radici montanare di una grande famiglia italiana”, Pino Cacucci che racconterà della sua lunga esperienza in terra messicana, Giuliana Sgrena che, il 7 luglio a Crodo, ricorderà la Val d’Ossola dei suoi genitori e Luis Sepulveda, che parlerà, domenica 1 luglio a Verbania, della Patagonia e del Sud del mondo. Grande attesa anche per lo spettacolo teatrale di Marco Paolini “Dedicato a Jack London”, in programma sabato 30 giugno a Verbania, alle ore 21. Particolare e suggestiva l’escursione guidata che partirà da Bacceno l’8 luglio “in cammino sulle tracce delle streghe, tra leggende e realtà storica”. Gli incontri sul Lago d’Orta, invece, saranno quasi tutti dedicati alla figura del grande scrittore Mario Soldati. Il denso e ricchissimo programma del festival è scaricabile su www.letteraltura.it

La pallida primavera (digitale) del Salone del Libro.

Giulio Gasperini
TORINO –
“Primavera digitale”: così, con questo pomposo titolo, era stata battezzata quest’anno la XXV edizione del Salone del Libro di Torino. E, paradossalmente, come qualche espositore ci ha fatto notare, l’organizzazione non è riuscita (almeno nella prima giornata) ad attivare il wi-fi nelle zone espositive. Se ne parla, di digitale, – alla maniera italiana – se ne discute, se ne discetta e se ne ipotizza il futuro; ma il presente è nero, quasi paradossale, sicuramente grottesco. Ma, sinceramente, a noi non fa che piacere: riteniamo che sia già un evento che si chiami ancora Salone del Libro. Ponendo l’accento su quella parola, LIBRO, che tra poco sarà spodestato da un termine del neo-inglese, E-BOOK, così poco pieno di storia e di esperienze, così sterile e ridicolo.
Gli amanuensi medievali, Gutenberg, Manuzio: tante tappe di una storia splendida, tante stazioni di una devozione incomparabile e indefessa. Che sta per approdare nell’immaterialità del digitale. Anche l’Enciclopedia britannica si è arresa: basta carta, adesso soltanto digitale. E il sapere, siamo pronti a scommettere, non sarà mai più lo stesso. Perderà consistenza, pragmatica, deissi. È consolante, riteniamo, sapere dove, fisicamente, un’informazione si trovi. Dove si possa sottolineare. Dove si possa colorare. Il digitale si aggiorna subito, è vero. Ma si aggiorna anche troppo alla svelta, senza il controllo, senza la sicurezza di star leggendo una verità (quantomeno presunta). E, soprattutto, si perde, si smaterializza, evapora, fagocitata da tante altre informazioni che utili non sono, tutt’altro. Immaginavo una bassa casa di legno, col tetto di assicelle, incatramata per resistere agli uragani, con dentro ciocchi fiammeggianti e, allineati sulle pareti, i migliori libri: un posto dove vivere mentre il resto del mondo saltava per aria. C’è luogo migliore di questo, al mondo? Dovremmo per forza, adesso, come Chatwin, spingersi nel vuoto di suoni e odori della Patagonia per goderci codesti piaceri? Codeste devozioni?
Ha colpito, al Salone, la buona presenza di piccoli e medi editori che affollavano alcuni angoli. Ha colpito la quantità impressionante di titoli e copertine, di costole e di colori, che scheggiavano la vista e lo sguardo d’insieme. Ha impressionato la marea incomprensibile di brutta letteratura e di scadente saggistica fiorite su quei banconi. Ma è un giusto prezzo da pagare se, la conseguenza, potrebbe essere la totale sterilità o, ancor peggio, l’ancor più drammatica proliferazione di e-books che, con il loro basso costo di realizzazione e la loro tipica immaterialità (per non parlare della sterilità grafica), non potranno che far aumentare il delirio scrittorio degli italiani e, al contempo, favorire il totale silenzio che li accoglierà. Il nulla che le loro idee e le loro parole nutriranno.
Le forze in campo sono ben chiare, fin dall’ingresso nel Salone: è chiaro dove siano i grandi e dove languiscano i piccoli. Feltrinelli, Mondadori, Rizzoli, Einaudi: non soltanto esposizioni di libri ma veri e propri luoghi di strategie, di marketing. Dove le vetrine sono abbellite al centimetro, dove non si scova un solo granello di polvere, dove non importa cosa ci sia lì, al cospetto di tutti, purché sia quel solo prodotto che deve vendere (e che deve farlo a livelli forsennati). Impressionante la RCS, nel suo asettico allestimento, d’un agghiacciante bianco abbagliante, quasi fosse un ospedale, dove i libri risaltano, sì, ma dove manca completamente il calore umano che un libraio saprebbe infondere; e persino un piccolo editore, perché quando vende i propri libri diventa, oggettivamente, un libraio lui stesso. E se li coccola, come fossero figli. Perché ognuno di loro gli ha portato via energie, soldi, persino un po’ di vita.
Ed ecco, è laggiù che languiscono i piccoli, pigiati in sette in uno stand, con l’orgoglio di chi è fiero di ciò che pubblica e la speranza che, un loro titolo, diventi magari “Harry Potter”. Oscuri, un po’, gli editori a pagamento, che allettano gli scrivani con le loro copertine tutte uguali, messe insieme con un gelido word art, e un altrettanto gelido interesse per le sorti della scrittura. Divertenti, all’opposto, gli spazi regionali, sia per chi è lontano e si ritrova la sua regione vicino, sia per chi ha voglia di conoscerne di nuove, e di avvicinarsi a nuovi mondi, nuovi angoli d’Italia. Oltre al libro, infatti, lì c’era la cultura del territorio, e ognuno si vantava dei propri meriti, dissimulando negli stand altrui i demeriti.
La Mondadori, tanto per non far scappare nessuna porzione di mercato, non campeggia solo con il suo esercito di titoli e autori best e long sellers, ma piantona il campo anche col suo franchising: dove si vendono libri la più grande casa editrice italiana punta anche a fagocitare i librai indipendenti che, dalla fiera, non hanno certo benefici. Forse, questo, insieme a “Più libri più liberi” di Roma (decisamente più snella e vivace, più avventurosa e selvaggia), è il momento dell’anno in cui più si compra: compulsivamente, quasi alla cieca, senza chiedersi neppure più di tanto se quell’inchiostro sulle pagine dà vita a un prodotto utile, o anche solo apprezzabile. Ma si compra, si compra. Ed è anche un bene, per lo scarso pubblico librario italiano, ma causa anche un buon numero di danni.
Ma il digitale, in tutto ciò, dov’è? Un solo editore di e-book, in tutta la fiera. Due o tre stand, di Sony, Ibs, Amazon che propongono costosi reader: la gente preferisce accasciarsi sulle uniche poltrone di tutto Lingotto Fiere. In pochi occhieggiano l’elettronica esposta. Troppo distante, forse? O troppo stanchi? Del resto, la carta pesa. E le borse sono piene. Le percentuali dei comunicati stampa parleranno anche chiaro, ma l’impressione che si aveva percorrendo la fiera era che l’e-book, il digitale, fosse ancora lontano dalla mentalità dei visitatori. Quasi tutti hanno l’iPhone, è vero; ed è altrettanto vero che diversi tablet, primo fra tutti l’iPad, cominciano a essere avvistati, in mani insospettabili. Ma perdura ancora l’emozione di tenere un libro vero tra le mani, di annusarlo, di sfogliarlo, di leggere l’inchiostro. Perdura, insomma, l’esperienza tattile che, fino a poco fa, era imprescindibile nella forma mentis della nostra lettura. “Primavera digitale” era intitolato quest’anno il Salone. Ma, si sa, le mezze stagioni non esistono più; e uscire da Lingotto Fiere con una borsa pesante di carta e di sillabe stampate pare sia ancora più appagante che uscirne con l’esosa leggerezza d’un dispositivo elettronico.

“Incontriamoci all’Inferno” con un Dante spensierato.

Giulio Gasperini
ROMA – E se Dante diventasse meno austero e istituzionale? E se fosse possibile scherzare con la Commedia, la più grande opera che l’umanità letteraria abbia mai pensato e partorito? E se immaginarsi le liti, i bisticci, le incomprensioni tra Dante e la moglie Gemma non sottraesse nulla alla magia dell’opera ma, anzi, ce l’avvicinasse e la rendesse più familiare? Cinzia Demi, toscana di origine, lancia un invito e una sfida: “Incontriamoci all’Inferno”, edito da Pendragon nel 2007 e ripubblicato in nuova edizione nel 2010, non è una semplice “parodia” dei fatti e dei personaggi che formano quel “racconto di incontri” che è la Commedia, ma è una maniera nuova e quasi rivoluzionaria di penetrare nella complessità della materia e della forma poetica. Come strumento la Demi utilizza quella stessa ironia con la quale Dante aveva così sapientemente tessuto il suo poema, le sue sillabe poetiche, le sue metafore e le immagini ricche di vita e di quotidianità. Dante aveva scherzato su tutto, su ogni aspetto dell’uomo, della vita, della religione, senza farsi problemi e senza timori reverenziali sulla materia trattata.
Si comincia con una lettera che un fiorentino invia al suo illustre concittadino, rimproverandolo per aver seminato il terrore su quello che, nell’oltretomba, i morti avrebbero trovato: “Va bene che c’avevi rabbia ‘n corpo e core / ma la paura ci fe’ ghiacci marmati / e pe’ secoli s’è tramandato ‘l terrore”. Poi si prosegue con il catalogo delle donne più importanti, da Bice Portinari (che, insieme a Rossana Fratello, canta “sono una donna non sono una santa”), al dialogo tra Pia de’ Tolomei, Francesca da Rimini e Piccarda Donati, infastidite tutte dalla presunzione di un Dante che crede di poterle ridurre loro e le loro vite a una manciata di sillabe: “Nessun uomo, nemmen’il Poeta / ha, in nessun tempo, mai afferrato / di quanta giustizia è fatta la meta / che può raggiunger sol chi ha capito / quanto noi donne siamo speciali / nel sentimento e nella ragione / e che ‘un siamo tutt’uguali / ma ognuna di noi è pur’emozione!”. Poi ci sono gli uomini, da Ulisse al Conte Ugolino; e poi ci sono i demoni, da Caronte a Pluto, che affermano, in tutta onestà, qualche lato divertito e divertente della loro personalità. E poi la Demi crea dei contrasti, delle dispute verbali sul modello della tenzone, così tanto di moda ai tempi di Dante: Gemma Donati litiga con Dante per la sua infedeltà di sguardi (“Madonnina mia che attaccabottoni! / Tu e tu’ amici rimatori e la sapete lunga: / ‘n chiesa co’ santi e ‘n taverna co’ ghiottoni, / e la lista de le conquiste qui s’allunga! / E io a casa: co’ tutto quello ch’ho portato ‘n dote / oberata di figli, mai nelle tu’ opere citata: / che forse ti riscordi cosa disse ‘l sacerdote? / Che so’ meno gentile e onesta di ‘sta Bice dannata?”), Bonifacio VIII e Celestino V si confrontano ironicamente sui loro peccati, Virgilio protesta con Dante di averlo sfruttato per accompagnarlo e gli angeli e i demoni si offendono con lieve sarcasmo.
La lingua della Demi è corposa, densa, plastica. È una lingua tangibile, deittica perché figura un hic et nunc applicabile a ogni momento, ogni attimo, a ogni realtà che possa presentarsi a ognuno di noi. È la lingua che si usa correntemente in Toscana, è quella che ribolle come magma e fluisce come acqua potente. È una lingua che può essere giustamente declinata anche negli incontri che caratterizzano la Commedia, negli incroci di persone e di realtà, nella varietà delle situazioni. Con Dante, insomma, si ride e si scherza, senza per questo perdere la potenza delle sue parole e del suo messaggio ma, anzi, calandolo in una ricca quotidianità e capendo più intensamente la grandezza della poesia.

“Città distrutte” e ricostruite, in eterno.

Giulio Gasperini
ROMA – La storia è un susseguirsi di eventi, allacciati da rapporti di causa ed effetto. Questa è la prima regola da capire. Poi esistono degli snodi, generalmente dei punti finali, che chiudono un’era e ne principiano un’altra: e spesso, a marcare questi momenti, c’è una città che viene distrutta, rasa al suolo, assediata e magari espugnata. Davide Orecchio parte da questo, possiamo chiamarlo, strano postulato, magistralmente riassunto in un verso di Betta Rauch (“Certo, sono una città distrutta. Se Dio vuole, la storia è fatta di città distrutte e poi ricostruite”), e sbizzarrisce la sua fantasia e la sua vocazione poetica in sei biografie infedeli (come recita il sottotitolo), sei biografie al limite dell’invenzione: “Città distrutte”, edito nel 2012 da Gaffi nella collana Godot, è proprio questo. Un inganno storico, ma un profondo e perforante bisturi umano; una collana di exempla che potrebbero essere anche veri, ma sono piuttosto finti; sempre che non se ne capisca la verità vera più profonda.
Inutile negare che l’autore ci prenda in giro; e che, nel far questo, si diverta come un bambino, di gusto. E proprio di un bambino preservi l’innocenza e lo sguardo limpido, puro. Perché la sua presa in giro, il suo inganno, non è né violento né crudele. È l’inganno di chi sa che un dato storico imperfetto, che un albero genealogico un po’ trascurato, un incontro anticipato o posticipato non inficiano i veri rapporti, quelli più profondi, di causa ed effetto, ma le significano magari in maniera più potente o più intensa. Una galleria di sei personaggi, dalla desaparecida Éster Terracina alla poetessa obliata Betta Rauch, dal politico Pietro Migliorisi al regista Valentin Rakar, che attraversano come un colpo di fendente tutte le categorie dell’umano lavoro. Le loro storie sono complesse, spesso smarrenti, confuse da una narrazione che scivola nella mente del lettore con disinvolta poesia, senza pretese di chiarezza ma con un processo di sottrazione dell’evento e del sentimento che lascia smarriti ma pieni di domande future, di tensioni centrifughe e centripete; le quali allontanano ma, al contempo, trattengono al racconto, alle parole, a quelle linee che, così, pare possibile seguire sui palmi sinistri delle loro mani, come un continuo accadere delle “casualità della vita”, le sole che possano mai scombinare un destino.
Il privato diventa pubblico, e lo condiziona. Il pubblico forza il privato, e spesso lo devasta. Le poche regole sono ridotte in frantumi, l’orizzonte è sempre un poco più lontano da dove si era calcolato potesse essere: le biografie tratteggiate da Davide Orecchio hanno solo queste, come leggi. Non c’è, in queste storie, sudditanza alla Storia, ma un ancor maggiore rispetto e attenzione per quelli che sono i veri e potenti significati che la storia ha: una verosimiglianza di manzoniana memoria ma di modernissimi risvolti. Questi personaggi sono veri, sono concreti, perché la parola li ha definiti e contenuti, con un leggero tratto, come fossero volti e figure botticelliani. Non delicati, ma ben compresi. Al di là che una qualche terra li abbia davvero sorretti e li abbia visti passare. Sempre con bene in mente, però, che l’infedeltà alla storia non deve mai diventare un obbligo.