“L’età d’oro dei viaggi”

L'ippocampo_chronicalibri_età dell'oro viaggiROMA“L’età d’oro dei viaggi” è un cofanetto elegante e intenso di Gérard Piouffre pubblicato da L’ippocampo. Napoli, Marsiglia, Genova, Liverpool, Amburgo si allontanano. Tra qualche giorno, all’orizzonte apparirà un altro porto: quello di New York, d’Algeri o di Alessandria d’Egitto.  Tra qualche settimana si arriverà a Bombay, a Singapore, a Yokohama oppure a Rio, via Dakar…
All’alba del XX secolo, i mari e gli oceani vengono solcati dai piroscafi delle grandi potenze marittime, prime fra tutte l’Inghilterra, cui l’immenso impero coloniale offre vasti sbocchi. E la competizione tra le Compagnie comincia: i transatlantici si fanno sempre più veloci e grandi, ci sono quelli della P & O, dai tipici fumaioli dipinti di giallo, il Mauretania e il Lusitania della Cunard, l’Olympic e il Titanic della White Star… senza dimenticare il Rex, orgoglio dell’Italia fascista, che strappa il mitico Nastro Azzurro  nel 1933. Con eccezionali documenti d’archivio, ecco un secolo di navigazione a vapore, sei grandi rotte marittime da percorrere, dalle tempeste dell’Atlantico  alle aurore del Pacifico, dagli scali tropicali ai ghiacciai del Grande Nord. (scheda libro a cura della casa editrice)

Lo shopping, la nuova frontiera della meditazione

Marianna Abbate
ROMA “Meditazioni sullo shopping” è questo il titolo allettante del libricino rosa edito da Mimesis, che vedete nella foto. Ma se sperate in una storia di amore e shopping alla Kinsella, avete sbagliato copertina. Questa è roba seria: si tratta di Filosofia. La maiuscola nella parola filosofia è voluta, perché non vi sto parlando di filosofia come stile di vita, ma di quella scienza che ha visto sviluppare la teoria della maieutica e ucciso Socrate con un bicchierino di cicuta. Orbene, vi direte, nulla di strano. Qualche donna fashion si è dedicata allo studio degli antichi filosofi e trovando l’argomento un po’ superato ha pensato bene di dedicarsi ad un argomento più allegro producendosi in un’analisi sociologica dell’acquisto compulsivo. Niente di più sbagliato.

L’autore è un UOMO!, un filosofo di nome Seiffart Achim, che approccia l’argomento da profano. Achim si è trovato incuriosito dall’argomento osservando la sua assistente, una ragazza che ritiene essere molto intelligente. La suddetta, della quale per onore alla privacy non sappiamo nulla, indossa abitualmente un abbigliamento elegante che il filosofo ha valutato circa 3000 euro, di cui un migliaio solo per la borsa, esclusi gioielli. La domanda nata spontaneamente nella testa di questo filosofo, che ci piace immaginare un po’ sgangherato e sgualcito, è stata: perché questa ragazza spende tutto questo denaro in abbigliamento, se non ha bisogno di affermarsi socialmente in quanto ha già un ruolo importante dovuto al suo lavoro?

Oh innocenza della filosofia! E’ evidente che Achim non abbia mai provato il bisogno di fare una buona prima impressione, o che non ha mai pensato che i capelli unti sono il peggior biglietto da visita.

Se volete scoprire quale sia la teoria finale, vi invito alla divertente lettura del suo libello. Ma non posso esimermi dal condividere con voi la mia personale teoria sulla scienza dello shopping.

Ecco, chiunque mi conosca un pochino, sa che amo fare acquisti. E sa anche quale è la mia personale opinione sull’intelligenza. Se sei un genio, non è necessario che sottolinei la tua “nerdaggine” con un abbigliamento trasandato e occhiali spessi un dito. Anzi, la mancata cura del tuo aspetto è sintomo di una mancata intelligenza sociale. Un aspetto curato ed elegante aumenta esponenzialmente il valore delle tue parole.

Per questo sconsiglio vivamente di mangiucchiarsi le unghie e indossare sacchi di iuta: nerd correte a a fare shopping, con il beneplacito della filosofia.


“Segni di pietra”: la Valle d’Aosta come (forse) non t’immagini

Giulio Gasperini
ROMA – Se dovessimo dire quel che ci viene in mente della Valle d’Aosta probabilmente tutti ci immagineremmo subito alte montagne, lunghe piste da sci, boschi fitti e animali selvatici, la lingua francese che vi si parla in regime di bilinguismo e, forse, qualcheduno penserebbe al casino di Saint-Vincent. Ma c’è un volto della Vallée che andrebbe, in maniera opportuna, sistemato al primo posto di questa improbabile classifica: quello, ovvero, della Storia che qui, in questa grande valle incastrata tra le montagne più alte d’Europa, si è concretata in ardite tracce. Ci riferiamo, ovviamente, ai tanti castelli che punteggiano il suo panorama, appollaiati su speroni di roccia che difficilmente potremmo pensare abitabili e, ancor meno, edificabili. Tutti questi castelli, le torri, i manieri e le residenze che hanno scolpito sulla roccia la storia della Vallée, questi “Segni di pietra”, sono riprodotti in un bel volume realizzato nel 2008 dall’Associazione Forte di Bard, che gestisce l’omonima fortezza, una delle prime che ci mozzano il fiato, per imponenza e arditezza architettonica, entrando nella regione.
Francesco Corni riproduce, con particolareggiati disegni a china, le architetture nel loro complesso, soffermandosi attentamente su dettagli peculiari o più significativi, e offrendoci l’illusione quasi di poter toccare, sfiorare quelle rocce, quei mattoni, quelle finestre dalle ardite linee e geometrie. In alcuni casi, addirittura, i castelli vengon smembrati, proposti in sezione, resi vulnerabile agli occhi di chi guarda, per far comprendere tutta la reale grandezza delle costruzioni. I disegni sono poi accompagnati da piccole didascalie chiarificatrici, che contestualizzano le architetture e tratteggiano indispensabili nozioni di storia.
Dopo alcune introduzioni sulla storia della Vallée, i disegni (che paion quasi elaborazioni grafiche tridimensionali) sono raccolti in tredici sezioni: dai castelli primitivi (tra i quali quelli di Cly, la Tour Colin a Villeneuve e la Torre dei Balivi ad Aosta) ai castelli che si tramutano in vere e proprie residenze (come nel caso di Montjovet e Sarriod de la Tour a Saint-Pierre), dai castelli del periodo aureo (Fénis, Aymavilles e Verrès su tutti) ai castelli trasformati col sopraggiungere dell’artiglieria (il Castello di Saint-Germain a Montjovet e il Forte di Bard) si squaderna tutta la storia della Vallée, così ricca di eventi inaspettati e fondamentali anche per la storia dell’Italia tutta. Basti pensare ai legami strettissimi che unirono la famiglia Savoia a questa piccola regione, a partire dal conte Umberto “Biancamano”, capostipite della dinastia sabauda, che intorno al 1000 stabilì una posizione egemone della sua famiglia in questo angolo di mondo, per finire con Umberto I e Maria José che trascorrevano le villeggiature con grande piacere nel castello di Sarre, usato precedentemente da Vittorio Emanuele II e da Vittorio Emanuele III come residenza per le amate cacce.

“Al di là della natura”, l’uomo è l’animale che dimentica di essere animale

Silvia Notarangelo
ROMA – L’uomo è “l’animale che dimentica di essere animale”. Questa la tesi attorno alla quale ruota “Al di là della natura”, il bel saggio scritto da Marco Maurizi e recentemente pubblicato da Novalogos. Antispecismo, movimento animalista, Marx ed Engels, scuola di Francoforte: sono questi alcuni degli argomenti oggetto dell’accurata analisi dell’autore.
All’uomo non può essere tutto concesso. L’antispecismo ne è convinto. Non si tratta, però, di una condanna incondizionata della civiltà e della cultura. Più semplicemente, bisogna lavorare per una riconciliazione con il mondo naturale che non significa “tornare indietro”, ma stabilire un nuovo corso nei rapporti tra le specie.
Come immaginare, però, una società affrancata dalla violenza sugli animali che non abbia prima eliminato la violenza dell’uomo sull’uomo? Con questo interrogativo Maurizi introduce il movimento per i diritti degli animali, un movimento cui vengono contestate una sopravvalutazione dell’etica e dell’azione individuale, nonché la convinzione di costituire una società più giusta mediante un riconoscimento legislativo. Affinché ci sia, però, una vera liberazione animale occorre andare oltre.
L’indignazione verso il capitalismo e la sua ossessione per il profitto, già nella prospettiva assunta da Marx, possono, come dimostra l’autore, diventare strumento per una contemporanea liberazione animale e umana. Una liberazione che, secondo gli studiosi della scuola di Francoforte, non può che rientrare all’interno di un unico processo. Perché solo in un ordine che abbia saputo superare la contrapposizione tra cultura e natura, il rapporto tra uomo e animale riuscirà ad evolversi fino a divenire un “rapporto reale”, in cui sarà l’uomo con un “ atto di solidarietà” a decidere per e per il suo altro.

“Gli occhi della lingua”, la lettura interna di Jaques Derrida

Silvia Notarangelo
ROMAJacques Derrida non ha certo bisogno di presentazioni. Francese, di formazione fenomenologica, deve la sua fortuna filosofica alla tematizzazione del decostruzionismo.

Nel 2011, a sette anni dalla sua scomparsa, Mimesis Edizioni ha pubblicato “Gli occhi della lingua”, un volume curato da Luigi Azzariti-Fumaroli, in cui il Derrida riflette su una lettera del 1926, indirizzata da Gershom Scholem a Franz Rosenzweig.
La sua è una “lettura interna” che si sforza di attenersi il più possibile al testo tralasciando eventuali contaminazioni, richiami o commenti personali.
Nella lettera Scholem manifesta tutta la propria inquietudine di fronte a ciò che ha identificato come un “male interiore” che sta progressivamente lacerando il sionismo. Si tratta della secolarizzazione, della modernizzazione della lingua ebraica, in parte legata alle necessità della comunicazione quotidiana. Un male che, secondo Scholem, porterà non solo alla perdita della lingua sacra, di una lingua per natura non concettuale, ma determinerà anche un suo “ritorno vendicatore”, destinato a colpire quanti l’hanno profanata. Perché se è vero che non si può evitare di parlare la lingua sacra, si può, però, parlarla nello “scostamento, nella distrazione, come dei sonnambuli sopra l’abisso”.
Il tono, di ispirazione apocalittica, non lascia però trapelare quale sia il vero atteggiamento di Scholem, se di paura o di speranza in un ritorno della voce di Dio attraverso una lingua pronta, in qualunque momento, a risvegliarsi.
Non meno contraddittoria, come osserva Derrida, è anche la sua posizione in merito alla secolarizzazione. L’attualizzazione della lingua sacra è, in realtà, impossibile, la secolarizzazione non è altro che una “façon de parler”, una fraseologia vuota, un mero artificio retorico. E allora, non esiste alcuna lingua cattiva che viene a corrompere una lingua sacra, ma una “non-lingua alla quale si sacrifica la lingua sacra”. Un sacrificio che, nel distruggerla, non potrà che manifestarla e salvarla.

Leggi che fanno ridere e sentenze che fanno piangere dal ridere

Stefano Billi
ROMA – Che l’Italia sia un popolo non solo di santi, navigatori e poeti, ma anche di legislatori, questo i cittadini lo sanno bene. Perché in Italia di leggi ne sono state approvate moltissime, così tante che si è addirittura addivenuti a coniare il termine dell’ipertrofia normativa, proprio per indicare l’incredibile ammontare di regole di condotta a cui devono conformarsi i consociati. Ed è quasi lapalissiano riconoscere che tra quella moltitudine di norme, talune manifestino un contenuto irrilevante per la società a fronte dei cambiamenti socio-culturali occorsi nel tempo all’interno della realtà nazionale.

Di questo, e di alcune determinazioni creative della giurisprudenza italiana, si occupa il libro intitolato “Bestiario giuridico 1. Leggi che fanno ridere e sentenze che fanno piangere dal ridere”, scritto da Giuseppe D’Alessandro e pubblicato dalle edizioni Angelo Colla. Questo testo ha la caratteristica di avvolgere l’autore in un raffinato clima umoristico, che lascia sorridere di fronte a leggi e sentenze dai contenuti spesso esilaranti. Dimostrazione questa che il diritto non è una campo del sapere arido e sterile, ma piuttosto assolutamente vivo, dinamico e talvolta divertente. Tra le pagine, dunque, prendono voce numerosi esempi della creatività legislativa e giurisprudenziale italiana, tutti elencati con una precisa attenzione dell’autore nella citazione delle fonti giuridiche inserite nell’opera. Non solo, perché Giuseppe D’Alessandro riporta pure le bestialità che in campo normativo affliggono l’ordinamento europeo.

Insomma, questo “bestiario giuridico” descrive quali e quanti mostri traggono vita nel panorama della creazione del diritto e della sua applicazione, lasciando intendere tra le righe tuttavia che in molti casi, di fronte alla richiesta di giustizia, il cittadino trova solo la dura ed implacabile legge.

Un libro consigliato a tutti, non solo ai cultori delle materie giuridiche, perché – parafrasando un celebre brocardo latino – il diritto è anima e struttura della società in cui viviamo.

“Morti per la giustizia”: un libro per crescere.

Stefano Billi
ROMA – Il tempo passa in fretta e si fa presto a dimenticare quegli avvenimenti che hanno caratterizzato la storia di un popolo, di una nazione. Soprattutto, ci si scorda di chi, quegli eventi, li ha vissuti sulla pelle, da protagonista, portandone ancora i segni e le cicatrici. Eppure, la coscienza di tutti dovrebbe essere attenta a non far cadere alcuni fatti nell’oblio, anche perché solo così ci si può preservare dal rischio che si ripetano certi errori già commessi nel passato.

Allora, vale davvero la pena leggere “Morti per la giustizia” un libro edito da Baldini Castoldi Dalai dove si unisce il dettato costituzionale alle storie drammatiche di undici uomini e donne che hanno perso la vita negli anni più bui della Repubblica, quelli tra il 1969 e il 1982.
Frutto di un incontro pubblico organizzato dalla Fondazione Roberto Franceschi Onlus, questo testo introdotto da Michele Serra racconta di Giorgio Ambrosoli, Giovanni Arnoldi, Giulietta Bazoli, Luigi Calabresi, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Roberto Franceschi, Guido Galli, Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Giuseppe Pinelli, Walter Tobagi. E ne racconta attraverso la voce di coloro che, questi personaggi travolti dal sangue stragista, li hanno conosciuti e amati, come fratelli, genitori, figli, amici. Voci che, tra le pagine, si trasformano da testimonianza dell’essere vittime della violenza politica e criminale, in dimostrazione insigne di impegno pubblico, fondato ed ispirato sulla carta costituzionale, quale passaggio imprescindibile per una costante costruzione della democrazia. La cosa straordinaria di questi scritti, perciò, è rendersi conto di come chi ha subito sofferenze personali atroci e devastanti, abbia ancora la forza di mettersi in gioco per il bene del paese, coscienti che quel dolore può divenire la base per la costruzione di un futuro diverso, sicuramente migliore, grazie al loro impegno. Citando le fulgide parole di Benedetta Tobagi, “trasformare violenza, abusi e sofferenze in materia che possa essere vitale”. Ancor più eccezionale, poi, è l’idea di fondare ogni intervento di quell’incontro su singoli articoli della Costituzione, senza trasformare l’iniziativa in una sterile esegesi della grundnorm italiana, ma piuttosto muovendo dalla comune presa di coscienza che per affrontare tempi di crisi profonda, bisogna avere dei fari che rischiarano l’oscurità. Senz’altro la Costituzione, nei suoi lungimiranti “versi”, offre i valori fondanti dell’Italia, di quella comunità che va da nord a sud e che è accomunata dal medesimo amor patrio.

Un vecchio professore universitario di diritto privato era solito consigliare ai suoi studenti di lasciare una copia della Costituzione Italiana vicino al cuscino, quasi a voler proteggere il sonno, pronta per essere letta e per destar conforto di fronte a qualunque incubo.

Leggendo “Morti per la democrazia” si comprende benissimo che traguardo impareggiabile sia quella norma del 1948, e quanto ancora possa aiutare il bel paese a diventare bello davvero.

“Seminario Montale”: le ultime declinazioni d’Eugenio.

Giulio Gasperini
ROMA – Nel 1971 Montale pubblicò “Satura”, una raccolta che fratturava, risoluta, la linea della sua precedente esperienza (e vocazione) poetica. Alla paura cosmica del mondo che franava sotto la furia della bufera, si sostituì un inevitabile ripiegamento nel cosmo individuale, nell’intima personalità, nella quotidiana gestione di affetti e comportamenti; come a dire che, dopo la rinuncia all’universalità, l’uomo dovesse sperimentare finanche la diserzione nella terra del sé stesso. Gaffi editore ha pubblicato nel 2011 “Seminario Montale”, scritto da Fabrizio Patriarca (nella collana Centenaria), nel quale il critico si assume l’ingrato compito di guidarci alla scoperta e, più difficoltoso ancora, alla comprensione dell’ultimo consapevole Montale.
Con Satura si assiste, secondo il critico, al ripiegamento verso forme di “verità archetipiche”, finanche inspiegabili in una raccolta poetica che virava così risolutamente dal Morale degli “Ossi di seppia”, de “La bufera” e de “Le occasioni”. Prospettive metafisiche fin troppo raffinate e importata poetica del correlativo oggettivo lasciano spazio a un respiro che, se non più ampio, si concreta decisamente più diretto e sincero, lasciando spazio all’esperienze del lettore e al suo proprio apporto personale.
A partire da quell’odore di limoni, dal loro colore violento che ferì l’occhio e aprì alla presunta salvezza, Montale si accorse forse che il suo viaggio, giunto alle estremità più remote del mondo a toccare persino “Finisterre”, doveva tornare all’origine, come un fiume che, giunto alla foce, si strugge nella malinconia della separazione dalla sua sorgente. Patriarca vaglia attentamente tutta la critica del ‘900, la quale tanta attenzione riservò a Montale, fin quasi a spingersi nei lidi di una vera e propria elucubrazione teorica, tale da scontornare i veri limiti della sua poetica e presentarcelo forse più difficile di quel che in realtà fu.
Con uno stile, a tratti, un po’ pesante e difficile da leggere senza ricorrere al vocabolario persino per ricercare ansiosamente una congiunzione disgiuntiva, il critico Patriarca trapana con decisione e con puntualità chirurgica la superficie e il tessuto di una raccolta poetica ingiustamente bistrattata e considerata potenzialmente inferiore alle sue precedenti, che lo fecero scoprire e lo esagerarono poeta come mai nessun altro (con sommo dispiacere e disappunto del suo rivale Ungaretti). Fabrizio Patriarca ha uno sguardo attento e puntale, costantemente ci guida al riferimento e non ci abbandona mai durante la ricognizione del più tardo Montale, permettendoci così di giungere a una riscoperta che non sia di pura forma ma anche di ricca sostanza.

Patrizia Simonetti ai microfoni di ChronicaLibri

Stefano Billi

ROMA – ChronicaLibri si fa radio. Infatti, abbandonata la consueta scrittura di articoli, per un istante ChronicaLibri diventa speaker radiofonico ed intervista Patrizia Simonetti, autrice del libro “Il giornalista radiofonico. Istruzioni per l’uso“, Armando editore.

 

 

Lei ha lavorato in radio sia come speaker, sia come giornalista. Quale dei due tipi di approcci al mondo radiofonico è attualmente il Suo preferito?

 

In questo momento mi piacerebbe molto tornare a lavorare in radio come speaker, nello specifico come conduttrice di un programma musicale o di attualità, in cui poter parlare a ruota libera senza limitarmi a leggere il testo di un notiziario o di un servizio giornalistico, seppure redatti da me. Questo probabilmente perché ho lavorato come giornalista per ben vent’anni, dal 1989 al 2009, e sento il bisogno di cambiare. O piuttosto di tornare al mio primo amore che è,  appunto, quello di fare radio in modo più “libero”. Allo stesso tempo la mia natura è oramai quella di giornalista per cui l’ideale per me sarebbe uno spazio da riempire, ad esempio, con musica e notizie, magari a tema, o, ancor meglio, un programma, anche di utilità, che preveda l’intervento degli ascoltatori. Interagire con chi ti segue è molto gratificante, anche se allo stesso tempo rischioso. E’ come una prova del nove in diretta: se la gente ti chiama e vuole parlare con te, vuol dire che il tuo programma è buono e tu stai lavorando bene, se invece ti ignora, evidentemente c’è qualcosa che non va. Ma sarei disposta ad accettare la sfida.

 

Nel Suo manuale, Lei affronta la realtà del giornalista radiofonico in maniera davvero schietta e sincera, fornendo un taglio consapevole sui pregi e difetti di questa professione. Stante questa consapevolezza, Lei immagina la radio ancora come qualcosa di magico, così come quando ha iniziato questo mestiere?


La radio “è” magica e non smetterà mai di conquistarmi con il suo fascino. Sono convinta, come ho anche accennato nell’introduzione del mio libro, che nessuna nuova tecnologia potrà mai soppiantare questo mezzo unico e creativo. La radio regala informazione, intrattenimento, compagnia, senza chiedere nulla in cambio. Puoi ascoltarla mentre fai altre cose o concentrarti solo su di lei. E’ diretta, immediata, sincera. La radio ha un potere che definirei generoso, perché può esser messo a disposizione sia di chi la fa che di chi la ascolta, offrendo ad entrambi un’infinita gamma di possibilità: può comunicare, far riflettere, divertire, aiutare, può persino alleviare solitudini e  rafforzare legami. Io ho sempre vissuto di radio, prima come ascoltatrice, poi come conduttrice. La radio è stata il sottofondo della mia vita e la mia vita stessa. Come potrei mai smettere di amarla?

 

Perché ha sentito il bisogno di scrivere un manuale sul tema del giornalismo radiofonico?


Ho lavorato per vent’anni in un’agenzia di stampa radiofonica come giornalista, ricoprendo ogni tipo di mansione: redattrice, responsabile di settore, conduttrice, inviata. Sebbene dura e faticosa, è stata un’avventura bellissima. Ma poi è finita. Le lunghe storie d’amore, anche se ci fanno soffrire, ci lasciano sempre qualcosa. Così ho pensato che anche questa mia complessa “relazione” doveva e poteva lasciare un segno. Ho quindi deciso di documentare quella che è stata la mia lunga esperienza in questo settore e metterla a disposizione di chi vuole intraprendere questa strada, illustrandone con sincerità  il fascino ma anche le difficoltà, sperando che possa essere d’aiuto. Anche scrivere, del resto, è stata sempre la mia passione: in questo modo ho potuto unire i miei tre grandi amori: la radio, il giornalismo, la scrittura. E poi, dopo aver tenuto alcune lezioni di giornalismo radiofonico all’Università, coltivo l’idea di tenere un corso tutto mio come docente e mi piacerebbe che questo testo potesse esserne la base.

 

Molti speaker o giornalisti radiofonici hanno appreso il loro mestiere attraverso numerosi anni di esperienza, forgiando la propria voce a partire dalle emittenti più piccole sino a quelle più blasonate. L’avvento di molteplici libri che aiutano a diventare speaker o giornalisti radiofonici, secondo Lei può arricchire e accelerare il processo di formazione professionale delle nuove voci che si affacciano in radio, accorciando il tempo che prima era necessario ad imparare questo mestiere?


Ho cominciato da giovanissima e come autodidatta in piccole emittenti di quartiere: all’epoca, parliamo degli anni 80, andavano molto di moda le dediche radiofoniche ed io ne facevo tante! Poi, a mano a mano che acquistavo esperienza e sicurezza, mi proponevo ad emittenti più prestigiose, in alcune delle quali sono riuscita ad entrare, fino ad approdare in Rai. Ritengo dunque che la pratica, sia per la conduzione radiofonica che per il giornalismo, sia assolutamente la scuola migliore. Tenendo tuttavia presente che, come scrivo nel mio libro, tutto può riuscire più facile se si possiedono alcune cosiddette doti innate. I testi sull’argomento certamente possono aiutare, purché spieghino realmente ciò che è meglio fare e ciò che è meglio evitare, fornendo una base teorica che può rivelarsi molto utile ad apprendere più velocemente il mestiere. Ma poi la pratica è fondamentale. Sicuramente anche un buon corso può dare una mano. Purtroppo però c’è da dire che attualmente non basta “saper fare”: la crisi colpisce ogni settore ed anche quello di cui stiamo parlando.  Non è facile trovare un lavoro, quanto meno degno di questo nome, neanche in radio. Ma se c’è la passione il mio consiglio è: insistere!

 

Perché i lettori del nostro giornale dovrebbero leggere il Suo libro?


“Dovrebbero” è una parola grossa! Direi che lo consiglio a coloro che vogliono intraprendere questa professione perché può essere un valido aiuto di base: l’esperienza insegna sempre. Può quindi aiutare ad essere più preparati ad una prova pratica, spiegando in modo chiaro e semplice cosa verrà chiesto loro nella redazione di una radio o di un’agenzia radiofonica, aiuta a familiarizzare con i termini tecnici del giornalismo radiofonico e illustra, proprio come un libretto di istruzioni di un kit, come si prepara e si realizza un notiziario, un servizio, un’intervista. Se durante uno stage viene chiesto di preparare un lancio o procurarsi un sonoro, chi ha letto il mio libro non dovrà chiedere di cosa si sta parlando, ma potrà mettersi subito all’opera. Allo stesso tempo lo consiglio anche ai semplici curiosi: non vi siete mai chiesti, ascoltando un notiziario o un servizio, cosa c’è dietro e come è stato preparato? Il mio libro ve lo racconta.

“I maestri del pensiero indiano”: la ricchezza del pensiero del paese più “strano” al mondo

Giulio Gasperini
ROMA – L’India è, forse, il paese più “strano” al mondo. “Strano” per la sua grandezza, che la rende quasi un continente (3.287.590 kmq, il settimo al mondo per estensione) e per la sua popolazione da capogiro (1.173.108.018 abitanti); per le sue contraddizioni, e per la sua ricchezza e varietà di architetture e religioni; per la sua composizione climatica (dal deserto di Jaisalmer alle foreste tropicali delle Andamane) e la sua frammentazione linguistica (1.652 dialetti oltre alle lingue “ufficiali”). Ma è anche un paese dalla storia millenaria e dalla grande eredità culturale: in particolar modo filosofica e religiosa. Giuseppe Gangi ne “I maestri del pensiero indiano dai Veda a Osho” delle Edizioni Clandestine (2011) vuole proprio ripercorrere la storia del pensiero che in questo subcontinente s’è sviluppato e ha finito per colonizzare e condizionare la crescita e lo sviluppo della società e della cultura di altri continenti, primi fra tutti l’Europa.
L’India ha, infatti, da sempre affascinato il Vecchio Continente: per la sua distanza, la sua magia, la sua apparente invulnerabilità, il suo mistero remoto. Dai romanzi di Salgari, ad esempio, ambientati in un’India quasi inventata, immaginata e mai esplorata, imparata dai libri e dai racconti di viaggiatori coraggiosi, passando dal fascino delle poesie di Tagore che gli valsero il Premio Nobel nel 1913 (straordinariamente assegnatogli dopo quello, del 1907, a Kipling, cantore, all’opposto, del colonialismo inglese), per finire al viaggio che i Beatles vi compirono nel 1968, per frequentare un corso di meditazione presso l’ashram di Maharishi Mahesh Yogi.
L’India è ricca e ubertosa: la bibliografia che la riguarda è talmente imponente da passare persino trascurata, consultata con velocità insidiosa. Ecco, allora, che il volume di Giuseppe Gangi può aiutarci a far un po’ d’ordine ed entrare in possesso dei primi e più rudimentali sistemi d’orientamento. Dai Veda, raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii che fondarono l’insieme delle dottrine religiose dell’induismo, al pensiero filosofico di Osho, i cui scritti son diventati dei veri e propri best-seller da primi posti in classifica, passando per l’esperienza del Buddha e del buddhismo, che in India conserva tre posti sacri (Bodhgaya, Sarnath, Kushinagar), e giungendo ad analizzare il pensiero dell’India contemporanea, divisa tra colonialismo inglese, voglia d’indipendenza e crudeltà intestina (da Tagore a Gandhi), Gangi permette anche ai meno esperti di poter costruirsi le ragioni di un mondo, quello indiano, così lontano ma anche così fortemente composito che, in un gioco di costanti equilibri e di profonde contraddizioni, riesce ancora a sorprendere sé stesso e si esagera, persino, potenza del futuro.