“Immagina la gioia” di ritrovarsi fratelli

ROMA“Tutto era appartenuto all’esistenza e niente di più doveva essere scritto”. Eva, all’inizio di questo romanzo,voleva scrivere: voleva mettere su carta la vita, trovare una trama avvincente che convincesse un grande editore a pubblicarla. Eva aveva già una storia e per ascoltarla, seguirla e scriverla si trasferì a Sciacca dal Veneto. Questa era la terra di suo padre e di sua nonna Annina, era la terra in cui il suo estro poteva rinascere.

Eva è la protagonista di “Immagina la gioia”, il secondo libro di Vittoria Coppola. Pubblicato da Lupo Editore, il nuovo lavoro della scrittrice salentina è un romanzo familiare ambientato negli anni Novanta.
Eva ha degli occhi profondi, le mani dipinte di rosso e vestiti colorati. Eva ha un rapporto difficile con suo fratello Pietro, ma più che difficile il loro è un affetto mai espresso; sarà perché dieci anni di differenza tra i due che durante l’adolescenza di Pietro e la giovinezza di Eva diventano un limite insormontabile. Sarà che Eva sta inseguendo il suo romanzo e Pietro il pallone; sarà che Eva è troppo presa dalla scrittura e dalla sua vita tra Sciacca e Mira. Ma la vita, improvvisamente, stravolge tutto.

A Sciacca Eva raccoglie i suoi fogli e cerca di portare avanti il suo romanzo, nel frattempo fa la cameriera nel bistrot di Oliver. A Mira, dove dalla Sicilia suo padre Raffaele si trasferì anni prima per lavoro insieme a tutta la famiglia, Pietro arranca dietro al suo pallone. Il ragazzo ha qualcosa che non va, è il suo ginocchio.

 

La scrittura dell’autrice ci accompagna in questa storia ma vorremmo sapere più su quei luoghi: vorremmo poterci aggirare con Eva tra le strade di Sciacca, lasciarci trasportare nella tranquillità delle villette di Mira. Vorremmo, da lettori, che la forte capacità della Coppola di descrivere le emozioni si impossessasse anche dei luoghi.

Due ragazzi con una missione: “L’Angelo di Hitler”


Silvia Notarangelo
ROMADue ragazzi, lei quattordicenne, lui poco più grande. Lei una rifugiata austriaca residente a Londra, lui un tedesco di Monaco proveniente da una famiglia comunista. Che cosa li accomuna? Nulla, se non uno strano destino che sceglie di farli incontrare per affidare a entrambi una missione top secret. Si apre così il primo romanzo per ragazzi dello sceneggiatore inglese William Osborne. “L’Angelo di Hitler” (Edizioni Sonda) è una storia avvincente ed emozionante, un’avventura fantastica in cui due adolescenti dovranno vedersela con un segreto più grande di loro. Protagonisti inconsapevoli di una vera e propria “guerra nella guerra”, in cui non saranno risparmiati colpi bassi, astuzie e stratagemmi.

Tutto accade velocemente: è Churchill in persona a mettere a punto il piano. Il 2 giugno 1941 si reca dal ragazzo, il giorno dopo informa la ragazza. Non c’è tempo da perdere. L’addestramento è rapido, tutto deve svolgersi con riserbo e discrezione perché non si può fallire. I due non hanno neppure modo di confessarsi le reciproche identità. Da quel momento sono Leni e Otto Fischer, due fratelli di Salisburgo. La loro missione è tutt’altro che semplice: dovranno entrare in Germania e riportare in Inghilterra un “carico speciale”, un carico che ha un nome, Angelika. È lei il loro obiettivo. Perché? Non ha importanza, ciò che conta è portarla via dal convento in cui si trova rinchiusa.
Della sua identità, non una parola. Chi è la bambina? Che cosa ha fatto per diventare così preziosa al punto da mettere in atto un piano segreto per liberarla?
Il segreto non reggerà a lungo. Paracadutati in Germania, Otto e Leni si dimostreranno molto più furbi e scaltri di quanto non ci si aspetti dalla loro giovane età. Nonostante qualche piccola leggerezza, sapranno affrontare con coraggio qualunque tipo di situazione, persino un vero e proprio mastino come Heydrich, il vice di Hitler.
Tra fughe, assalti respinti e combattimenti all’ultimo respiro, si troveranno di fronte ad una scelta, azzardata ma condivisa da entrambi. Perché gli ordini sono ordini, ma la coscienza, a volte, va in un’altra direzione.

Nei “Racconti di Odessa” la vita di Bàbel’.

Giulio Gasperini
AOSTA – Innegabile come la vita personale possa diventare materia di racconto. Per gli scrittori tutti codesta è la fonte prima di ispirazione: il lievito madre da cui plasmare storie, vicende da architettare e dipanare. Isaàk Èmmanuìlovič Bàbel’ rappresenta forse una delle massime applicazioni di tale concetto e uno degli esempi più palesi. Nato nel quartiere di Moldavanka, a Odessa, fu perseguitato aspramente e violentemente dal regime di Stalin; fucilato nel 1940, tutti i suoi manoscritti erano stati in precedenza sequestrati e distrutti. Ciò che resta di Babel’, come i “Racconti di Odessa”, pubblicati da Voland nel 2012 con la traduzione di Bruno Osimo, hanno piuttosto come argomento e tematiche gli anni della sua adolescenza, trascorsa nella più totale libertà del quartiere ebraico della Moldavanka, palcoscenico privilegiato di trame e vicende che, già di per sé stesse, costituivano dei copioni narrativi irresistibili per chi, come Bàbel’, possedeva la vocazione alla scrittura.
L’umanità che prende vita negli intensi racconti è quella dei bassifondi, dei trafficanti, dei contrabbandieri che tramano, fanno e disfano per la pura gioia dell’evasione, dell’effrazione della legge, della sua indipendenza. Tra tutte, si erge la figura del giovane Benja Krik, non a caso chiamato “Il Re” per la sua tracotanza e la sua intraprendenza di comando. Nei racconti di Babel’ tutto il quartiere partecipa all’azione, in un esempio di sociabilità che trascende qualsiasi modello di perfetto socialismo ideale e “sociale” (se il bisticcio non fosse troppo pretenzioso). La condivisione, prima di tutto. Ma non solo condivisione; anche co-azione e co-operazione. Non c’è mondo che esista, per Bàbel’, se non c’è l’unità delle sue parti: un’unità, ovviamente, che non può essere imposta né totalmente e inappellabilmente paritaria, ma un’unità che sia a livello di azioni; che situi, insomma, tutti i partecipanti in una coralità ricca ed esuberante.
E proprio l’esuberanza è la chiave, anche stilistica, di questi racconti. La scrittura di Bàbel’ non è cristallina, né limpida. È una continua ricerca di iperboli, di collegamenti che si espandono all’infinito, un incessante rincorrersi di sottrazioni da cui dedurre il risultato finale. La ricerca non è mai semplice, è sempre un continuo mettersi alla prova, sentendosi guidati e condotti da un burattinaio che ci deride col suo stile ricco di tranelli e preziosità difficili da masticare. Perché spesso è il paradosso l’unico elemento che riusciamo chiaramente a distinguere: e ogni paradosso nasconde persino un fondo di realtà che, nel contesto narrativo e stilistico di Bàbel’, pare quasi diventare l’elemento meno importante.

“Grace Kelly”: il ritratto dell’indimenticabile principessa, icona di stile e seduzione

 

Alessia Sità
ROMA – La storia di un mito senza tempo si anima fra le pagine del romanzo biografico di Andrea Carlo Cappi, intitolato “Grace Kelly. La principessa di ghiaccio”, pubblicato da Aliberti editore. La vita della giovane americana, che da grande star di Hollywood diventa principessa di Monaco, nasconde in realtà ribellioni, scandali, solitudine, vittorie e infinita determinazione. Con accurata attenzione, Andrea Carlo Cappi ripercorre la biografia della donna, della diva, della sovrana e della madre, svelando retroscena poco noti al grande pubblico.
Proveniente da una famiglia benestante, fin da subito Grace manifesta la sua insofferenza nei confronti delle scelte paterne; e dopo aver rinunciato a un matrimonio conveniente, decide di trasferirsi a New York per trovare lavoro in televisione. Il suo fascino e la sua eleganza non passano di certo in secondo piano, e con il suo innato charme, ben presto, conquista i grandi divi hollywoodiani, Aga Khan, il Presidente John Fitzgerard Kennedy, lo scià di Persia e Alfred Joseph Hitchcock. Per la regia del grande ‘maestro del brivido’, che contribuì a consacrarla sul grande schermo, Grace interpretò ben tre capolavori cinematografici: “Il delitto perfetto” (1954), “La finestra sul cortile” (1954) e “Caccia al ladro” (1955). Fu sul set di quest’ultimo film, girato nel Principato di Monaco, che conobbe il futuro marito. E il 19 aprile del 1956, l’attrice che è stata principessa sullo schermo – ne “Il cigno”(1956) – lo diventa anche nella vita reale, sposando il principe Ranieri III. Dopo le nozze, Grace abbandona il cinema per dedicarsi agli impegni e alle sorti del Principato. Nonostante tutto, però, l’idea di ritornare sulle scene non l’abbandonò mai, fino alla tragica morte avvenuta il 13 settembre 1982. La dinamica del fatale incidente resta ancora oggi avvolta nel mistero. Sono molte le ipotesi avanzate e smentite nel corso degli anni. Negli anni ’90 si diffusero addirittura delle voci di una presunta affiliazione della principessa all’Ordine del Tempio Solare e qualcuno volle vedere l’ombra del complotto dietro la terribile tragedia. Il mondo però continuerà a ricordare la principessa non solo per la sua bellezza senza tempo, ma anche per il suo temperamento esuberante e allo stesso tempo glaciale, che contribuì a influenzare l’immaginario collettivo anche in ambito culturale. Infatti, come sostiene anche l’autore, Grace ispirò la sensuale Eva Kant, apparsa per la prima volta nel 1963, nel celebre fumetto ‘Diabolik’.

A quasi più di trent’anni dalla sua morte, il ricordo della ‘principessa di ghiaccio’ continua a essere molto forte e il suo stile e la sua eleganza fanno ancora oggi sognare tante giovani donne.


“Svanire è davvero possibile? O è solo un’illusione?”

Michael Dialley
AOSTA – “Svanire” non è solo il titolo della raccolta di Deborah Willis, edita da Del Vecchio editore, ma anche il primo racconto che apre la strada al lettore in un viaggio particolare, molto suggestivo che riguarda lo scomparire, lo svanire, il lasciare.
Sono 14 racconti i cui protagonisti sono i più diversi, sia per età che per cultura e stile di vita, ma tutti accomunati da un’esperienza di distacco: una moglie che scappa, qualcuno che muore, che viene rapito, ma anche chi è stato incapace di capire i figli, chi gli stava intorno, causando un allontanamento forzato.
Si viene incatenati subito alle pagine di questo libro, perché sono esperienze che tutti, chi più chi meno, hanno vissuto totalmente o solo in parte; sono racconti brevi, scritti con semplicità e chiarezza, ma soprattutto con un’intensità straordinaria.
Si impara a conoscere i vari protagonisti, con le loro emozioni, i loro sentimenti, le loro abitudini e si capisce come ci si senta dopo essere stati allontanati, dopo essere stati abbandonati o dopo essersi allontanati.
Sono tante le riflessioni che si possono fare dopo ciascun racconto: i genitori si chiederanno sicuramente se il rapporto con i figli è giusto, oppure si identifica con quello di alcuni racconti; un figlio si domanda se ha un atteggiamento giusto verso babbo e mamma, se ha affrontato un divorzio o, peggio ancora, un lutto, nella maniera corretta, con la giusta intensità; i ragazzi che si affacciano, appena ventenni, alla vita, al mondo, fuori dall’ala protettrice della famiglia, si interrogheranno su quali esperienze sono da fare per rendersi conto di come funzioni il mondo, su quali cose è necessario impegnarsi e quali situazioni vanno tralasciate e dimenticate.
Questo romanzo è una sorta di guida, non un saggio; è persino un cortometraggio con spezzoni di varie vite di varie persone. La domanda che viene rivolta a ogni lettore, alla fine, è: si può davvero dimenticare, essere dimenticati, svanire nel nulla, oppure una parte di noi rimane costantemente legata alle persone, ai luoghi, alle situazioni? La risposta sta in ogni uomo, non ci sono risposte giuste o sbagliate, ognuno pensa e agisce a modo suo, e non ci si può nemmeno chiedere perché qualcuno vicino a noi è svanito, o ha cercato di farlo.
Svanire nel nulla non è possibile né fattibile: dovunque andiamo, chiunque conosciamo, ci lascia un qualche cosa così come noi lasciamo tracce, parole, azioni, indelebili nel mondo.

Furgul, il cane che corre nel vento


Silvia Notarangelo

ROMA – Furgul non è un cane come tutti gli altri. Il suo nome significa “coraggio” e in lui è certamente una qualità che non manca. “Doglands”, il nuovo romanzo di Tim Willocks (Edizioni Sonda), è la sua storia, la storia di un viaggio straordinario verso una meta sconosciuta eppure intimamente sentita e desiderata.
Lo scrittore inglese si cala nelle vesti del protagonista, raccontando gli aspetti positivi ma anche le tante, troppe crudeltà a cui i cani sono spesso sottoposti. Furgul guarda gli uomini dalla sua particolare prospettiva, osserva i loro comportamenti, si interroga sulle loro azioni: talvolta li reputa strani, talvolta affettuosi, altre ancora non sa spiegarsi il perché di tanto odio. “I grandi sfruttano tutti gli animali (…) prendono e usano tutto ciò che vogliono e, quando si consuma o si annoiano a usarlo, si limitano a buttarlo via”. Una lezione che suona come un pugno nello stomaco soprattutto detta da un cucciolo.
Furgul nasce tra le mura di Dedbone’s Hole, la prigione dove sono rinchiusi e allevati i greyhound da corsa. Il suo destino pare, dunque, inesorabilmente segnato. All’improvviso, però, un segreto sconvolge la sua vita. Tutto cambia, deve fuggire da Dedbone’s Hole. La separazione da Keeva, la madre campionessa soprannominata “Folata di Zaffiro” , è dolorosa ma inevitabile. Il mondo che lo attende fuori non sarà tutto rose e fiori. Le prove da affrontare saranno tante ma lui saprà sempre dimostrarsi all’altezza. Nel tempo, complici incontri ed esperienze non proprio positive, la sua personalità si plasma, fino a raggiungere una maturità ed una consapevolezza spesso difficili da comprendere anche per i suoi simili. Furgul non vuole “appartenere a nessuno”, è un cane selvatico e gli piace esserlo. È inquieto e scalpitante, desideroso della sua libertà, non capisce cosa significhi “essere addomesticati” e non ha nessuna intenzione di farlo. Soprattutto, non intende piegarsi ai desideri spesso subdoli degli uomini. Potrebbe scegliere la strada più facile e diventare un cane da compagnia, uno di quelli che ubbidiscono senza fare troppo domande, rinunciando di fatto alla propria natura. Invece no. Furgul va avanti e continua a scappare per inseguire il suo sogno: trovare le misteriose Doglands e liberare Keeva.
Al termine di una lunga ed entusiasmante avventura, si troverà di fronte al suo passato per giocare, finalmente, la partita più importante. Una partita in cui non basteranno la forza ed il coraggio, ma bisognerà giocare d’astuzia, ricordando sempre che “un cane libero non muore mai, ma continua a correre nel vento”.

Dove si sente cantare “il suono del suo nome”.

Giulio Gasperini
AOSTA – La luce, il tempo, la pietra: sono queste le dimensioni privilegiate per le quali Cees Nooteboom parte alla scoperta del mondo islamico, durante vari anni. “Il suono del suo nome”, edito da Ponte alle Grazie nel 2012, è un collage di racconti e incantevoli poesie che sorprendono e cristallizzano istanti, attimi, momenti sorpresi in ogni istante del giorno e della notte. Mai realmente turista, Nooteboom ha saputo trasformare l’esplorazione e il viaggio in una vera e propria arte, in una declinazione di pura narratività. E sicché accade che i nomi – Marrakech, Atlante, Tangeri, Isfahan – scontornino i loro bordi, i limiti della loro realtà e concretezza, e si profumino di spezie, si squadernino di spazi indefiniti, si allunghino di dolci ombre: i nomi perdono la loro importanza geografica, si estraniano da una carta, e si giustifichino non in virtù del loro aspetto ma per la società che li popola e che, in loro, costruisce un confronto e un’unione.
Le piccole, intense incursioni di Nooteboom nel mondo islamico diventano squarci di anima, indagini affilate e potenti delle tante sfaccettature dell’intimo. La ricerca diventa ancora più efficace, in tale contesto, perché “è un paesaggio senza distrazioni, senza decorazioni”; un paesaggio essenziale, dove “il cielo è freddo e brilla di stelle”. La consapevolezza dell’essere umano trova molte strade, nelle descrizioni di Nooteboom; la realtà tangibile, l’abilità degli artigiani, la perizia dei loro mestieri, la sacralità delle tradizioni si filtrano attraverso la coscienza di un uomo che non è semplicemente viaggiatore ma peregrino in ogni terra, dalla Spagna all’India, alla ricerca del significato più vero, quello più genuino, quello che si smarchi dai luoghi comuni e dai pregiudizi dilaganti. E il percorso, senza la pretesa di giungere a una verità suprema, a una descrizione che sia anche racconto metafisico e univoco, comincia a svelare le bellezze e il rischio di fraintenderle. Si scopre, così, che l’aridità della pietra è necessaria per comprendere la bellezza, la sua unicità se nasce in un luogo dove nessuno l’attenderebbe e dove accoglierla è un atto di ribellione; e si scopre che la bellezza inevitabilmente consente di accettare la durezza, la ruvidezza, l’aridità, ovvero una parte innegabile dell’esistenza umana: “Dopo la pietra capisci la rosa, dopo la rosa sopporti la pietra”. È proprio il deserto la dimensione che più riduce l’uomo e lo ridimensiona nei suoi fragili e ridotti confini, che lo lascia esterrefatto al cospetto della sua nullità, della leggerezza del suo respiro, della permeabilità della sua ombra: “E quando ci giriamo, vediamo quello stesso vento cancellare subito i nostri passi insignificanti. Non siamo mai stati qui”.
L’avventura di Nooteboom, però, intenzionalmente non mira ad arrivare a una soluzione, non aspira consapevolmente a descrivere oggettivamente quello che si vede, quello che si tocca, si sente, si odora: “Io preferisco la sensazione del mistero alla certezza della soluzione”.

“Un grande artista, mesdames, non è mai povero”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Saper raccontare storie è un dono; un’abilità che, come le Mille e una notte insegnano, può persino salvare la vita. E sicuramente offre un’opportunità inestimabile di non perdersi ed esser ricordati. Karen Blixen sapeva raccontare storie. Sapeva costruire personaggi. Sapeva calibrare dialoghi, ricchi ma essenziali, dove neppure una parola – neanche una virgola – era fuori posto, né superflua. E uno dei massimi capolavori della sua arte di tessitrice di storie è senza dubbio “Il pranzo di Babette”, scritto nel 1958.
Babette è una misteriosa donna francese che, fuggita dalla Parigi dove era fallita la scommessa rivoluzionaria della Comune del 1871, si rifugia in un fiordo della Norvegia, assente anche dalle carte geografiche; lì, indirizzata da un suo conoscente francese, il noto cantante d’opera Achille Papin, va a cercare aiuto da Martina e Filippa, due anziane signore, figlie di un famoso decano protestante che, negli anni addietro, aveva fondato un movimento religioso di grande successo.
La vita di Babette si cristallizza così, per più di dieci anni. Mai un evento a rompere la quiete sonnolenta del borgo, mai un incontro, una parola che non fosse strettamente necessaria, mai un ricordo della sua patria, la Francia lontana, dove aveva perso tutti i suoi cari e il suo misterioso lavoro. Ma ben presto arriverà il momento, anche per Babette, di tornare a brillare, anche solo per un istante.
La storia di Babette è una deliziosa metafora della vita dell’artista, declinata – come non avrebbe potuto fare altrimenti – nella figura di una donna. Babette è cuoca: a Parigi era stata chef, caso quanto mai raro a quei tempi, e lavorava nel ristorante più rinomato della città. La sua creatività, il suo estro culinario (che si confonde con quello artistico) le avevano persino fatto creare dei piatti nuovi, assolutamente unici, inconfondibili. E sono quegli stessi che il generale Lowenhielm – l’unico a portare un po’ di colore ed emozione alla riunione dei puritani – riconosce e attraverso i quali si smarrisce ricordando il suo passato di giovanotto, quando i piaceri terreni erano i soli a esser ricercati ma anche quando la speranza per il futuro era la premessa della felicità.
Spenderà tutti i soldi vinti in una lotteria, Babette. Li spenderà perché è l’unico modo, quello, per poter tornare a essere la grande artista che era, un tempo; quella che riusciva a rendere felici gli uomini con i suoi pranzi; quella che, costretta all’esilio, non smette di essere un’artista ma sente sempre il bisogno, quasi un imperativo morale, di poter dare sempre il massimo; perché “un grande artista, mesdames, non è mai povero”.

È un “dolce sollievo la scomparsa”, per Sarah Braunstein.

Michael Dialley
AOSTA – Le vite sono delle storie da raccontare, e non fanno eccezione quelle di Paul, Judith, Sam, Hank, Bea, Byron, ma soprattutto quella di Leonora, la bambina che accompagna il lettore in tutto il romanzo di Sarah Braunstein, “Il dolce sollievo della scomparsa” edito da 66thand2nd nel 2012.
Sono storie che non risultano mai banali, tutte hanno un qualcosa di nascosto che cattura il lettore, sono particolari, difficili spesso. Vite di amore, rinunce, passioni sfrenate, sincerità, ma anche menzogne; e i protagonisti sono soprattutto bambini, con la loro innocenza ma anche con il loro non sapersi sottrarre alle pulsioni, alle passioni e con la voglia di libertà. I personaggi si raccontano, sono apparentemente estranei e lontani, ma poi nella narrazione alcuni si incrociano e, in età adulta, si troveranno a ricordare, rivivere momenti dell’infanzia, e a volte arriveranno a riscattare ciò che in passato non hanno potuto vivere, offrendoci spunti di riflessione e importanti lezioni di vita.
Leonora è il centro, ma al contempo periferia, di tutto il romanzo e ci fa imparare una cosa molto importante: le persone non sempre sono come sembrano e nelle situazioni estreme emergono forza, capacità, determinazione e, soprattutto, forza di volontà. È questo un insegnamento che lei ha ricevuto, a sua volta, dal babbo, e che si troverà a mettere in pratica negli ultimi istanti della sua vita: soffre, Leonora, nella stanza dove la tengono segregata, con il gattino che farà la sua stessa fine, ma a un certo punto ricorda le parole del padre – “Tieni duro!” – e poi riconosce un grande albero che ha visto ogni giorno per molto tempo: tutto questo le darà la forza di affrontare il suo destino; e lo farà totalmente sollevata.
I bambini sono innocenti, ma proprio per questa loro spensieratezza sono costantemente attratti dal male; il maligno è una calamita che attrae facendo leva sulla voglia di libertà e sull’elemento ribelle che c’è in ogni uomo. Scappare diventa una liberazione, così come lo è l’essere lontano da ogni legame; essere in un mondo di sconosciuti, essere totalmente svincolati da tutto e tutti dà, effettivamente, un dolce sollievo. Quante volte vorremmo scappare da tutto e tutti e stare con noi stessi? Spesso.
I bambini e i futuri adulti di questa storia hanno potuto provare questo distacco: chi volontariamente, chi involontariamente. Ma per tutti è stata, senza dubbio, un’esperienza fondante.

“The true adventures of Rolling Stones”

Dalila Sansone
GRAZ – Non è una biografia in senso proprio: dietro i vent’anni di Mick Jagger sulla copertina patinata dell’edizione riproposta per i cinquant’ anni della rock band non c’è la storia dei Rolling Stones. Troppo facile. Gli Stones non ci si sono mai del tutto prestati alla categoria del “facile”. Sfuggenti, taglienti, capaci di creare l’aspettativa e risponderle ancora meglio. Stanley Booth invece era un giornalista, scriveva di musica negli anni ’60. Un’idea: scrivere la loro biografia; ed è per questo che li segue nella tournée statunitense del ’69. Gli ci vorranno quindici anni per concludere una delle più graffianti auto confessioni di un’epoca. Le ragioni di una genesi così lunga stanno lì, in fondo al libro, incastonate nella postfazione come una pietra rara: un’analisi retrospettiva talmente lucida da valere tutte le parole, le immagini e le sensazioni che il loro intreccio precedente aveva evocato. A distanza, una distanza che impreziosisce la prospettiva.
Ci vuole tempo a capire le sovrapposizioni della narrazione, il collegamento con l’epigrafe all’inizio di ogni capitolo, le parole della madre del già annegato-in-piscina Brian Jones, i voli da un college all’altro, gli Hell’s Angels, il dente di coguaro che dondola all’orecchio di Keith Richards, nomi, tanti nomi, marijuana, alcool, il ritratto sbiadito di Jagger provato dalla stanchezza e convinto di essere ormai vicino al declino: – Sono otto anni che facciamo questa vita, quanto volete possa ancora durare?!
Si alternano una storia, polverizzata in mille storie, e la cronaca degli ultimi mesi di un periodo destinato a frantumarsi e implodere su se stesso allo scadere dell’appuntamento con il nuovo decennio. Gli Stones una delle metafore possibili. “The true adventures” (1984)si apre e si chiude con Altamon, 6 dicembre 1969. La promessa di una nuova Woodstock, al termine di una tournée folgorante che celebrava il riscatto di quelli che tre anni prima erano stati dati per finiti davanti agli scranni dei tribunali dell’Inghilterra perbenista. Fu l’emblema della fine degli anni ’60. Un declino che trapuntava con fili sottili le contraddizioni, le contestazioni, quel senso illusorio di libertà di espressione che, nonostante la polizia, i poteri forti, il Vietnam, si aveva la presunzione di possedere. Eppure Booth la provava quella nausea; non erano sufficienti le droghe, il ritmo, era lì, tutte le volte che Mick lanciava petali di rosa in chiusura sulle note di “I’m free”. Liberi? Liberi dentro le mura di una palestra? Liberi di suonare per gli studenti in libera uscita? Liberi circondati dagli Hell’s Angels ? Liberi di credersi liberi?
Quell’anno muore Kerouac. Una telefonata. La notizia. L’illusione si spezza e, solo a questo punto, ti accorgi che stai leggendo la STORIA. La fine è macchiata di sangue. Niente sarebbe stato più lo stesso, nemmeno gli Stones. Non guidavano, né erano il simbolo di nessuna protesta: erano giovani della periferia anonima di Londra, come tutti gli altri, come tutti i protagonisti dimenticati e senza nome che hanno fatto degli anni ’60 quello che sono stati fuori dalle analisi ufficiali e dalle cronache; la generazione di passaggio verso una società destinata a rimodellarsi continuamente in realtà che avrebbero, di li a poco, continuato a mutare credo e definizione (o presunti tali) vertiginosamente.
L’orrore collettivo di Altamon fu l’incubo che precede quei risvegli bruschi dalle percezioni dilatate in maniera straniante, fuori dal sogno, distanti dalla realtà. Una terra di nessuno dei sensi e di mancanza di riferimenti per certe coscienze. Booth ebbe bisogno di ridefinire se stesso, gli Stones avrebbero costruito pezzo su pezzo la loro identità, la loro di realtà consacrandola all’immortalità. Eppure nella musica di quegli anni la senti vibrare ancora quell’urgenza vitale di esistere, la rivendicazione di libertà, l’assoluta affermazione si sé stessi attraverso la negazione di adeguamento a qualunque schema precostituito. È lì che affondano le radici della leggenda. La rottura ha in sé le premesse della riorganizzazione dopo l’urto. Si sceglie se riutilizzare i pezzi e di quali fare le colonne portanti della ricostruzione. Non è riuscito a tutti bene. Ai protagonisti di questo racconto nella storia, voce narrante e personaggi principali, invece si. No, non avrebbero mai potuto trovare soddisfazione. Erano di quelli destinati a non provarla mai.