“50 smagliature di Gina”: dalla trilogia alla sana ironia

 

Alessia Sità

ROMA – “Hai dei bellissimi piedi. Hai una bellissima voce. Hai una bellissima protesi sulla testa del femore. Quando una Gina invecchia, coi complimenti si è costretti a scavare il fondo del barile.”
Gina: s.f. Femmina della specie umana, dotata di grande capacità autocritica e di 50 mila smagliature di interiorità ed esteriorità. Insofferente a qualsiasi attività fisica – che non sia lo shopping sfrenato – e tragicamente affetta da diverse sindrome: da quella di Stendhal o dello stendino a quella della Piccola Fiammiferaia. Tratti particolari: la Gina, generalmente è accoppiata, sposata o impegnata con un esemplare gigiesco.
Quello appena tracciato non è che un sommario identikit della tipica Gina di cui parla Rossella Calabrò nel suo ultimo lavoro: “Cinquanta smagliature di Gina”, edito da Sperling&Kupfer. Dopo aver svelato ‘il lato b della trilogia più hot dell’anno’ (“50 sbavature di Gigio“), in cui descrive l’apparente ‘dramma’ di aver un Gigio per casa, la brillante blogger torna in libreria con una sana dose di umorismo per parlare – da Gina a Gina e da Gina a Gigio – di quelle piccole imperfezioni che ci accomunano e allo stesso tempo ci rendono uniche nel nostro universo femminile. Non è facile scegliere quale smagliatura raccontare, dal momento che sono una più divertente dell’altra; ma sappiate che per ognuna di esse esiste un’unica soluzione. Nessuna arma, infatti, è più potente dell’autoironia per combattere inestetismi, imperfezioni e dilemmi esistenziali. Quante volte ci perdiamo nei meandri della nostra mente, nel tentativo di decifrare quel presunto messaggio subliminale che si nasconde dietro un’osservazione esterna? Basta poco per mandarci in crisi. Per esempio, se un’amica ci trova un po’ stanche, noi pensiamo subito di essere terribilmente brutte. Se il nostro uomo riceve un banale sms, il nostro istinto deleterio ci porta subito alla conclusione che ha l’amante. Se la bilancia ci ‘annuncia’ di aver ‘guadagnato’ un etto in più, ecco che davanti a noi si palesa la triste e tragica (ir)realtà di essere ormai obese e senza alcuna speranza. Alt!!!! Fermiamoci. Ricomponiamoci e resettiamo queste assurde convinzioni.  La speranza c’è, e – come dice, anzi scrive Rossella Calabrò – ‘è l’ultima a smagliarsi’. Basta arrovellarsi la mente e il corpo per compiacere i nostri compagni o mariti. Proviamo a guardarci con altri occhi e a sorridere delle nostre smagliature, dei nostri rotolini di ciccia, delle nostre ‘braccia a pipistrello con conseguente onda d’urto’. Non esiste trattamento più efficace dell’autoironia per renderci irresistibili. In fondo, “quando con un uomo ci sentiamo libere di essere totalmente noi stesse, quello è l’uomo giusto”; e pazienza se il nostro Gigio continuerà a baciarci sugli occhi appena truccati… Ricordate: la perfezione non esiste, anzi come dice Rossella Calabrò: “La perfezione è un’immensa cazzata”.

 

“Magma”- una lavina intellettuale

Marianna Abbate
ROMA – Quando parliamo di élite della società di oggi, ci riferiamo sempre meno all’aristocrazia per nascita e alla ricchezza acquisita. Quello che sembra effettivamente differenziare i singoli dalla marmaglia è il sapere e lo status di intellettuale, quel qualcosa che ci fa essere effettivamente superiori. Per questo motivo in molti scelgono di camuffarsi da persone colte vestendo in modo trasandato, facendosi crescere la barba, guidando una bicicletta per le trafficate strade di Roma, citando filosofi e rimatori dialettali nella stessa frase e guardando gli altri dall’alto in basso. Cercano, insomma, di coprire il mancato sapere con un look radical chic o hipster per gli anglofoni, che permetta loro di rientrare in quella tanto anelata élite di nobiltà del nostro tempo.

Ovviamente il goffo tentativo è abbastanza visibile ai più, e i veri intellettuali guardano con ancora più sdegno ed ironia a questa sfera della società. Perché la caratteristica che divide in modo assoluto il vero intellettuale da uno falso è quanto poco gliene freghi al primo di quello che pensa il secondo e di quello che pensano gli altri in generale.

La caratteristica fondamentale è la depressione. Dopo il postmodernismo è arrivato il momento del neodecadentismo, con il suo pessimismo cosmico e l’abuso di sostanze stupefacenti a scopo produttivo.

Lars Iyer, l’autore di “Magma” pubblicato da Meridiano Zero, è un vero intellettuale. Lui di mestiere fa il professore di filosofia, e credo che non esista al mondo sogno proibito più eccitante per gli aspiranti elitari, che fare il professore di filosofia. Il professore di filosofia è il nonplusultra dell’intellettualità: un mestiere che non ti obbliga a produrre assolutamente nulla se non pensieri. Se sei lì a fissare il muro con lo sguardo perso e fai il medico, ti potrebbero dire che stai perdendo tempo. Se invece sei un filosofo e stai fissando lo stesso muro di prima tutti cercheranno di camminare in punta di piedi per non disturbare il tuo lavoro. Ovviamente Lars Iyer queste cose le sa, lui sa tutto. Guarda con ironia quelli che lo guardano mentre lui se ne sta tranquillo a fissare il muro perché aveva visto una crepa.

E decide di aprire un blog: “Spurious”.
Per raccontare l’altra parte, l’altro punto di vista: quello che passa davvero per la testa degli intellettuali 2.0.

Il risultato del seguitissimo blog è il suo primo libro, tradotto in italiano come “Magma”.

Il libro, che non mi sento di chiamare romanzo perché completamente privo di trama, ci porta nei meandri dei pensieri di due accademici britannici. Tra l’alcol e l’insoddisfazione cronica i due viaggiano in quell’Europa che ha visto i successi e la realizzazione del talento di autori e filosofi. L’elemento comune tra Lars e W. è sicuramente la capacità di riconoscere in sé la mancanza di un qualunque talento che potesse portarli all’Olimpo della memoria eterna. Entrambi hanno delle conoscenze molto superiori alla media, e devo riconoscere che a volte ho faticato a seguire il filo dei loro ingarbugliati pensieri. Ma questa conoscenza, questo sapere che li porta ad avere un atteggiamento di saccenza involontaria e congenita, non porta soddisfazioni. I due sono delusi di non avere le capacità letterarie di Kafka e la sua limpidezza nella costruzione della trama.

Il loro raffinato senso critico non grazia nemmeno loro stessi, anzi sono proprio loro i protagonisti assoluti di ogni disapprovazione, costantemente sotto esame del recensore più esigente: l’Io.

E non bastano i giornali, i giochini scaricati sul cellulare a uccidere quell’anelito fremente, quella tensione che dovrebbe essere produttiva, ma non lo è.

Ironico, tagliente, originale questo non-romanzo. Non è un libro facile e sicuramente non vi farà sentire rilassati, ma se siete in cerca di qualcosa di nuovo, eccolo: l’avete trovato.

 

Per la prima volta in Italia Ştefan Agopian


Silvia Notarangelo

ROMA – Visionario, poetico, malinconico. Tre aggettivi che ben si addicono al romanzo di Ştefan Agopian. Lo scrittore romeno, tradotto per la prima volta in Italia da Paola Polito per Felici Editore, trasporta il lettore in un’atmosfera surreale, carica di risonanze esistenziali attraverso un racconto sospeso tra realtà ed immaginazione.
Ambientato in Romania nei primi anni dell’Ottocento, “Almanacco degli accidenti” narra la storia di due senzatetto che si tengono compagnia, in attesa che qualcuno o qualcosa scateni la loro fantasia. Sono Ioan Marin e Zadic l’Armeno. Il primo, maestro Geografo della scuola di Colzia, si perde spesso tra i suoi pensieri, vagheggiando “i tempi migliori” in cui poteva abbandonarsi alla lettura nonostante le guerre, la carestia, la peste. Il suo compagno, Zadic, è uno stravagante tuttofare, capace di cimentarsi con le più disparate professioni fino a giungere a un’amara conclusione: “nessuna di queste mi ha dato la ricchezza che vado cercando”.
Insieme, inebriati dall’alcol, si sostengono, si stuzzicano, talvolta mettono in scena delle vere e proprie competizioni a colpi di citazioni erudite: Plinio, Aristofane, Ippocrate sono solo alcuni degli autori classici che irrompono nei loro discorsi. Ricordi, pensieri, storie ed episodi paradossali scandiscono la monotonia delle loro giornate. “Stiamo, è questo che facciamo”. Così Zadic si rivolge all’amico con una considerazione che pare racchiudere l’essenza della loro vite.
Tra scene di guerra e sparatorie, molossi parlanti, diavoli accovacciati, angeli in parata, i due rimangono così, “come due santi senza preoccupazioni terrene, solamente contemplando e scambiandosi parole”, anche durante l’ultimo, incredibile viaggio con la fantasia.

“Nel mare del caso” con la congiura della parola.

Giulio Gasperini
AOSTA – Esplode come un thriller, come un giallo psicologico il nuovo romanzo di Gianni Nuti, “Nel mare del caso” (Mauro Pagliai Editore, 2012). Ma il cadavere che subito si racconta, che si presenta con nome cognome e indirizzo – quasi esigenza di novello battesimo e riconoscimento sociale – non ha fretta di accompagnare il lettore al disvelamento del colpevole. Ci fornisce gli indizi, ma sempre in sottrazione, avanzando alla ricerca non tanto del (presunto) omicida, quanto della sua intima ultimazione personale, frammento su frammento, ricordo dopo ricordo; ammissione su ammissione.
La storia – la cornice più ampia – è una saga familiare: un uomo e una donna, entrambi dai pensieri silenziosi ma dai gesti pratici, si scoprono a dover amare la loro figlia affetta da tetraparesi spastica. La fredda clinicità della diagnosi pare togliere il valore umano della bambina, pare negarlo risolutamente, come se prima di tutto quell’esserino nuovo di zecca fosse un problema da risolvere e non una vita da coltivare. La guerra dei genitori comincia da subito: una guerra contro tutto il mondo. Anche contro sé stessi, auto imputati di non esser stati in grado neppure di concepire un figlio che fosse “normale”. Poi una guerra contro tutti gli altri, in un continuo sentirsi giudicati e compatiti; è un suicida gioco alla ricerca dei motivi di questo naufragio “nel mare del caso”, di questa che pare punizione riservata ai più miserabili tra gli uomini.
Nessuno, però, pare soffermarsi sulla ragazza, su Alma, che vive nei suoi tempi, che gestisce le sue pause, che alimenta le sue ragioni. Alma si fa sentire, urla disperatamente nel romanzo, proprio perché nella vita nessuno l’ha ascoltata, nessuno l’ha sentita, diffidando (e fraintendendo) della sua afasia. Nessuno, realmente, ha capito che la velocità non è la stessa per tutti. In definitiva, nessuno ha capito (o voluto comprendere) tutta la potenza della sua diversità. Forse la sorella, la piccola Paola che, nata dopo, si è trovata troppe responsabilità a gravarla, troppi significati di cui rivestire la sua esistenza. Tanto da maturare una decisione estrema, di privazione del corpo, quasi in un contrappasso che odora di punizione, di crudele inflizione.
La pregevole tessitura di tipologie narrative, dal racconto in terza persona alla lettera, forma ben calibrata di confessione, aumenta il ritmo e lo impasta di attesa, di tensione intima ed emotiva. Lo stile è diretto, scarno, con alte punte di liricità, soprattutto nella descrizione del rapporto biunivoco tra umani e ambiente. Tutto, insomma, dal punto di vista stilistico e tecnico, supporta il pellegrinaggio dell’anima di Alma, la sua significazione che altro non è se non un ultimo, disperato tentativo – ricorrendo alla parola scritta, visto che quella sussurrata, quella spezzata della voce, è stata pressoché inutile – di quantificare la propria vita: un’apologia spietata, una grammaticalizzazione intima che può contare su una consapevolezza feroce, lucida, disarmante.
Alla fine, non importa neppure aver la certezza di chi sia l’assassino, o se un assassino ci sia mai effettivamente stato. Alla fine, ciò che importa è capire la potenza e il ruolo della parola. Perché questo è un romanzo delle poche voci. Le uniche, le più, non per caso, sono quelle dei medici, della scienza: di quanto, insomma, più concreto e risolutivo possa esistere. Ma le vite, le esistenze, ebbene, loro non conoscono una parola che sia esclusiva ed esauriente. E soprattutto una parola che crea fraintendimenti. Perché la parola congiura. Spesso, la sua assenza equivoca. Non c’è possibilità d’appello, per chi non conosce il verbum. Come ci si può difendere? Soltanto gli occhi, soltanto i gesti paiono non esser abbastanza. Paiono non esser quasi nulla. Ma le ultime parole di Alma, rivolte soltanto a noi lettori, sono un testamento lirico, una decisa e risoluta ammissione di consapevolezza; mai tardiva, ma netta, inappellabile. Perché ogni vita ha una meta e non c’è mai indifferenza. Ci può essere distanza, incapacità comunicativa, insofferenza emozionale. Ma mai indifferenza.

“Cicale”, il rumore dell’infanzia

Giulia Siena
ROMA 
– Marta è una cicala. Marta si sente una cicala; come loro adora il sole, il mare, Napoli, la vivacità della gente e odia andare all’asilo. Più che l’asilo in se, Marta odia essere reclusa in solo posto. Forse perché, con la sua famiglia, è sempre stata abituata a spostarsi di città in città e conoscere e scoprire nuove vite e nuove culture. Fin da piccola Marta ha una paura-attrazione per tutto ciò che vola, quindi, con la sorella Anna, lanciano di tutto dall’ottavo piano della loro abitazione partenopea. Ma la piccola protagonista a un certo punto deve scontrarsi con la realtà: la vita felice della cicale deve evolvere e intraprendere una strada. Ma Marta si ribella. Sono gli anni Ottanta e Marta Jorio è la bambina che oggi si racconta in “Cicale”, l’ultima uscita della collana Gli anni in tasca di Topipittori.

L’autrice, per raccontarsi, parte dal concetto che “si nasce e ci si forma fra le atmosfere di una precisa geografia” ed è questa geografia a fare di Marta una bambina curiosa, entusiasta e alle volte malinconica. Le sfumature malinconiche, infatti, in questo libro prendono colore: il colore dei ricordi, della forza degli adulti,  delle avventure e dei caratteri dei familiari; il ricordo di un forte terremoto, della speranza nonostante la paura.

“La passione di Ornella”

Luigi Scarcelli
PARMA – “Il mondo ti condanna se ami senza dignità”

Passione, una parola che indica un sentimento forte di voglia, piacere ma anche di dolore.

Ne “La passione di Ornella”, il libro di Nina Vanigli edito da Lettere Animate, tutti i significati di questa parola si riflettono nelle vicende della protagonista. Ornella è una ragazza ordinaria, che vive la sua personalissima, controversa e grottesca storia d’amore con Alessandro, una specie di angelo al rovescio, tanto bello quo crudele. Alessandro non prova amore per Ornella, ma la usa come un oggetto di sua proprietà, al servizio del suo piacere e dei suoi perversi giochi erotici. Portata allo stremo, Ornella per un attimo vedrà con lucidità il suo rapporto d’amore malato e cercherà di allontanarsene, ma l’attrazione sarà così forte da costituire una vera e propria gabbia mentale in cui la ragazza rimarrà imprigionata fino alla fine del romanzo.

Il racconto scorre veloce, nel  suo ritmo  si riflettono l’istintività e la carica delle forti tinte erotiche che contraddistinguono la trama, senza troppi fronzoli e con molta incisività. Nina Vanigli, che non è il vero nome ma uno pseudonimo dell’autrice, riesce curiosamente ad interpretare bene molte di quelle che sono tipiche fantasie erotiche maschili.

Il libro è anche, a mio avviso, un’occasione persa: il tema dell’amore cieco e perverso, che purtroppo affligge soprattutto le donne con risvolti spesso drammatici, è la punta di un iceberg fatto di aspetti istintivi, psicologici, fisici e sociali che caratterizzano i rapporti tra uomo e donna, l’ombra di quella che può essere una distinzione tra amore maschile e amore femminile e non un sentimento troppo spesso rappresentato come unico e omogeneo.

“La passione di Ornella” non si pone questi quesiti, ma guarda al lato puramente sensuale, doloroso ed erotico, in senso ampio, dell’amore. Questo ovviamente non è un aspetto negativo di per sé, ma a tratti sembra trascinare nella trama troppa superficialità: i personaggi  femminili, ad esempio, sono trattati, forse non volutamente, in maniera non troppo benevola nel momento in cui  rimangono affascinate dalla straordinaria bellezza  di Alessandro oscurando qualsiasi bestialità del suo comportamento. Lo stesso Alessandro poi è un personaggio che se fosse stato approfondito dal punto di vista caratteriale e psicologico avrebbe contribuito a dare un risvolto diverso alla trama.

 

 

“Questa mattina è arrivata una lettera”: i racconti inediti di Joseph Roth

Alessia Sità

ROMA – Sono nove i racconti contenuti in “Questa mattina è arrivata una lettera”, gli inediti scritti giovanili di Joseph Roth, editi da Passigli Editori e curati da Vittoria Schweizer.

Il ‘fil rouge’ che accomuna ogni frammento – databile presumibilmente fra il 1918 e il 1928 – sembra essere la grande capacità che l’autore ha nel creare i suoi personaggi. Si ritrovano molto spesso figure grottesche e disperate. Ogni essere umano è caratterizzato da un tormento interiore, che lo rende patetico e avvincente allo stesso tempo. Barbara, Gabriel e il protagonista di “Umanità malata” ne sono un chiaro esempio. La prima è una donna fragile ed estremamente generosa, che senza esitazione sacrifica la propria esistenza per amore del figlio; il secondo è un piccolo funzionario borghese, totalmente devoto a un lavoro che però non sembra gratificarlo abbastanza; mentre l’uomo del terzo racconto, anche egli vittima sociale, è costretto a vivere in una clinica psichiatrica, straziato dalla presenza assidua dei fantasmi del suo passato. Nei suoi scritti, Joseph Roth affronta diverse tematiche che, pur se a distanza di moltissimi anni, risultano ancora oggi molto attuali. Il lettore è spinto a riflettere e a immedesimarsi continuamente con quei personaggi che suscitano nel contempo compassione e simpatia. Racconti come “Questa mattina è arrivata una lettera” o “Giovinezza”, fanno inoltre intravedere il microcosmo personale dell’autore, che in questi frammenti descrive intimi sentimenti e figure legate alle proprie radici passate.
Quella di Joseph Roth è una scrittura elegante e metaforica, che riesce a conquistare proprio per la grande capacità introspettiva che emerge da ogni singola storia.

 

“Caterina fu gettata”. Vi è mai capitato di differenziare la vostra fidanzata?

Marianna Abbate
ROMA – Siamo nell’epoca della raccolta differenziata, del rispetto dell’ambiente e dei romanzi fatti con lo stampino: tutti uguali e tutti già letti. Viviamo in un mondo in cui tutto è già stato fatto e detto, comprese queste mie banalissime parole.

E allora “Caterina fu gettata” diventa un simpatico momento di astrazione. Ho letto che in internet qualcuno ha definito questo romanzo breve di Carlo Sperduti, edito da Intermezzi, come urban fantasy. Non dico che sia una definizione completamente sbagliata, ma potrebbe risultare deviante per un lettore che non sa di cosa stiamo parlando e si immagina fatine volanti e draghi sputafuoco. Si tratta di un romanzo nonsense, una narrazione sperimentale, che tanto ricorda quella corrente anni ’70 che ha visto come protagonista assoluto Calvino.

Nel mondo di Caterina si muore mille volte, ma questo non influenza in nulla la vita dei protagonisti, che continuano imperterritamente a risorgere in un trionfo di virgole e punti esclamativi, da sconvolgere Manzoni. La sperimentazione non si trova solo nella trama, assurda e decisamente astrusa, ma anche nello schema linguistico, nell’utilizzo della parola come significante, spesso privata del significato.

Un esperimento linguistico e letterario, ma nel contempo narrativo. La costruzione dei personaggi avviene attraverso le loro azioni, e non attraverso la caratterizzazione aprioristica dello scrittore, che influenza al minimo lo svolgimento degli eventi. A volte sembra di trovarsi nella casa di una coppia qualunque, dove la fidanzata sciorina nel sonno tutte le cose che odia del proprio compagno. Ma subito dopo ci ritroviamo nell’incredibile mondo astratto, dove si può buttare in un secchio gatto e fidanzata.

Un losco individuo condisce gli avvenimenti con una delicata suspense che ci fa temere chissà perché, quella morte che nel testo è un avvenimento quotidiano e abitudinario.

Devo riconoscere che la mia fantasia non è riuscita a prevedere gli eventi di questo libricino, che mi ha fatto sorridere e scuotere la testa con allegria.

 

Bellino, proprio bellino.

“Brezze moderne”: la raccolta poetica di Pietro De Bonis

Alessia Sità
ROMA –Esiste la poesia/allora esiste Dio!/Come quando non conosci i dolori/Ma vedi lo stesso gente piangere.”

Sono questi i versi che compongono “Continuerò a non morire se Dio vorrà” una delle poesie contenute in “Brezze moderne”, la raccolta poetica di Pietro De Bonis pubblicata da Lupo Editore.
Il volume è suddiviso in tre parti: Poesie, Intermezzi e Aforismi. La prima parte è costituita da liriche dall’estensione e dalle tematiche variabili; mentre nelle ultime due parti, l’Io poetico è continuamente impegnato a indagare non solo su se stesso, ma anche sull’uomo e sulla società attuale. Leggendo “Brezze moderne” non ho potuto fare a meno di ricordare la bellissima “Commiato” di Giuseppe Ungaretti, nella quale il poeta spiegava all’amico Ettore Serra cosa fosse per lui la poesia.  “Gentile/Ettore Serra/poesia/è il mondo l’umanità/la propria vita/fioriti dalla parola/la limpida meraviglia/di un delirante fermento/Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/scavata è nella mia vita/come un abisso.” Come per il grande Giuseppe Ungaretti, la poesia del giovanissimo Pietro De Bonis sembra essere il risultato di una sofferta e profonda operazione di ‘scavo’ nell’’abisso’ della propria anima e del proprio solipsismo esistenziale. Liriche come “Più cresco”, “Invaso”, “Libertà” e molte altre ancora, testimoniano la necessità di far conoscere al mondo le proprie personali emozioni, oltre che la propria percezione della vita quotidiana. L’autore sonda costantemente l’animo umano, scendendo nei meandri più oscuri dell’uomo, per meditare sul vero senso della vita. “Pensavo al cielo, lo vediamo celeste ma in realtà dall’universo è nero. E lo stesso il mare, in riva è azzurrino chiaro e lontano si scurisce. Tutte le cose da vicino sono più chiare e belle, più le avviciniamo e più si fanno vedere. Forse occorre più vicinanza tra gli uomini del mondo”. Proprio in questo bellissimo monito, contenuto nella parte dedicata agli Intermezzi, sembra essere riposto il messaggio della raccolta “Brezze moderne”. Mai fermarsi alle semplici apparenze, soltanto continuando a scandagliare le mille sfaccettature dell’animo umano potremo raggiungere la verità delle cose. Del resto, “I colori veri della vita non sono quelli che si vedono, ma sono quelli che si acquistano amando.” Con grande sensibilità, Pietro De Bonis ci regala una raccolta poetica che ci esorta a meditare attentamente sui nostri attuali tempi e sulle nostre piccole e grandi emozioni che, spesso, mettiamo a tacere per paura di svelarci troppo fragili.

Un sogno ad occhi aperti: “Il paese del caos”

Silvia Notarangelo
ROMA – Alcuni lo sognano, altri lo temono. C’è chi lo considera un habitat ideale, chi inorridisce soltanto al pensiero. Il caos non mette tutti d’accordo, anzi. Ordine, norme, disciplina fanno parte della nostra vita, ma è innegabile quanto le imposizioni di qualunque genere, siano mal digerite. Cosa potrebbe succedere, allora, se ad essere imposti per legge fossero il caos, il disordine, l’illusoria assenza di regole? Sarebbe un mondo fantastico o, almeno, così deve averlo immaginato Flavia, la piccola protagonista de “Il paese del caos”, il nuovo libro di Marcella Russano pubblicato da Fanucci.

Niente cameretta da sistemare, niente giochi e barbie da mettere a posto, pena la tanto temuta e detestata punizione. Un “sottile ricatto” messo in atto da molti genitori a cui i bambini (non tutti) si piegano più o meno coscientemente. Niente e nessuno può, però, arginare la loro fervida immaginazione. Anche l’autrice si lascia guidare dalla fantasia in un viaggio magico ed entusiasmante, lungo il quale non mancheranno risposte a quei piccoli e grandi dubbi che già si insinuano nelle menti dei bambini.
È un sogno ad occhi aperti, un’avventura piena di insidie e di sorprese, quella in cui si ritrovano catapultate Flavia e Martina, la sua migliore amica.
La “Repubblica libera del caos” le accoglie rivelando tutta la sua stravagante normalità. È un mondo apparentemente alla rovescia, un mondo in cui tutti sono alla ricerca di qualcosa perché non si trova mai nulla e nessuno, per legge, ha il potere di mettere ordine. Per chiunque disobbedisce le porte del carcere sono pronte a spalancarsi.
Il “sottile ricatto”, insomma, si ripete, sotto diverse spoglie, ma con analoghe, odiose conseguenze. Venire a contatto con questa realtà, dominata da regole-non regole e caratterizzata dall’infelicità dei suoi abitanti, si trasformerà in una sfida avvincente per le due bambine, chiamate a superare le loro paure, a battersi per una giusta causa, scoprendo, non da ultimo, un’amara verità: talvolta, le regole, se giuste e condivise, possono servire a qualcosa.