“Sul ciglio del dirupo”, storie di vita

Giulia Siena
ROMA
“Io non sono nient’altro che un involucro, una scatola che contiene uno strumento che viene suonato, ma non da me. Sono passiva a quello che capita, ho smesso di cercare di influenzare le cose quando non ho trovato altra strada da percorrere che accettare.” A dirlo è Monica, protagonista de “Sul ciglio del dirupo”, il racconto che chiude la raccolta e da cui prende il nome il libro di Emiliano Reali pubblicato da Ded’A Edizioni. Monica è soltanto una dei tanti protagonisti che affollano i diciotto racconti di Reali. Sono storie di vita, storie di donne e uomini, storie di disagio, emarginazione, determinazione. Storie di amore, omosessualità, malattia, partenze e arrivi.
La storia di Fabio che in “Senza pelle” (2004) si ritrova sulla strada a condividere la coperta di un nomade e il fuoco di una prostituta. Fabio però non ha pelle e non ha forma per i passanti o per i clienti che si fermano, ai loro occhi lui non appare. Ma di notte, su quella strada, una macchina perde il controllo e la sua vita torna a prendere consistenza, pelle. La storia di Lina (“Gli uomini di Lina”, 2008) che ammalia e regala piacere attraverso una chat; per gioco, per provocazione, per ribellione e per libertà. Clara (“RH Negativo”, 2005) ha voglia di evadere dal suo mondo piccolo borghese. Lei ha tutto, ma ha bisogno di altro e questo lo trova nei tasti di un pc, tra le righe delle conversazioni via chat con i suoi misteriosi amici. Il mistero l’attrae, ma ne viene travolta fino a scoprire il sottile legame di sangue che lega in modo indissolubile.

Dopo il successo di “Se Bambi fosse un trans” (Azimut, 2009), con “Sul ciglio del dirupo. X anni di storie da raccontare” Emiliano Reali racconta le emozioni con un piglio provocatorio in cui dolcezza e realismo si mescolano.

 

“Non sono un fottuto giornalista eroe” – un detective un po’ sgangherato

Marianna Abbate
ROMA – Piccola premessa: seppure non si tratti di un giallo canonico, questa recensione potrebbe contenere spoiler (NdR). Tutta tinta di giallo la copertina del libro di Antonio di Costanzo, ci fa ingiustamente associare questo libro ai classici gialli da edicola. Ma “Non sono un fottuto giornalista eroe”, edito da Cento Autori, sfugge a queste classificazioni estemporanee, ritagliandosi un posto tutto suo nel panorama letterario.

Si tratta di un romanzo, certo, ma non segue i canoni del giallo classico. Il protagonista, che dovrebbe svolgere il ruolo di detective amatoriale, non ha nulla del Poirot di Agatha Christie, e non assomiglia neanche al Watson, fedele amico di Holmes. Iacopo Fernandez è alla seconda avventura da detective ( la prima è stata raccontata nel libro “Volevo solo svegliarmi tardi la mattina” che devo assolutamente rimediare). Non è dotato di spirito di osservazione, né di grande intuito. Non ha la pazienza di studiare 675 tipi di tabacco diversi e neanche le conoscenze di chimica per farlo. Scopre le cose per il semplice motivo che gli vengono dette dalle persone più strane, che per un qualche motivo inspiegabile lo trovano simpatico. Persino il vicecapo della polizia, che odia notoriamente tutti i giornalisti, lo ha preso a benvolere.

Si trova, suo malgrado, in mezzo a una storia più grande di lui, nonostante tutti i tentativi a sfuggire alla realtà che lo circonda con “litrate” di alcolici che si versa in gola a ogni ora del giorno e della notte.

Il caso criminale, che vede coinvolta la morte di un clandestino cingalese, passa in secondo piano. Il crimine si trova sullo sfondo di questo libro che non è altro che un ritratto di parole di un personaggio molto ben costruito ed interessante. Tant’é che alla fine scopriamo che (ATTENZIONE SPOILER) a compiere l’omicidio sono state persone completamente slegate alla storia e mai nominate prima nel romanzo. Quindi non c’è nessun processo deduttivo, nessuna osservazione di una mente superiore: niente di niente. (FINE SPOILER)

E allora perché leggere questo libro? Vi assicuro che ci sono motivi validissimi.

In primis è scritto molto bene, un italiano di qualità di chi non si improvvisa scrittore dal giorno alla notte; il protagonista è interessante come vi ho già accennato, e speriamo di ritrovarlo in altre avventure, anche perché trovo che questo più che un romanzo sia un racconto lungo (signor Di Costanzo ci faccia una bella raccolta con almeno tre avventure e saremo felici).

Inoltre, il mondo raccontato somiglia tantissimo a quei sogni di giornalisti, cui piacerebbe moltissimo trovarsi per caso coinvolti in complicate storie dalle quali uscirebbero eroicamente vittoriosi, con al fianco una bella donna e prime pagine sui quotidiani a loro dedicate.

Non sono un fottuto giornalista eroe” ha qualcosa di Hemingway qualcosa di Bukowski e moltissimo dei corsi di scrittura creativa. Un linguaggio semplice, chiaro e affascinante.

Unica pecca? Un po’ troppi titoli di canzoni radical chic. Perdonabile.

 

 

Le professioni amiche dell’ambiente in “Guida ai green jobs”


Silvia Notarangelo

ROMA – Il monito lanciato poco tempo fa, “50 mesi per salvare il pianeta”, fa davvero paura. Perché non si tratta di uno dei tanti allarmi, purtroppo, sistematicamente ignorati (o quasi). È un vero e proprio ultimatum, un grido disperato per scongiurare un pericolo che si fa sempre più concreto e drammaticamente vicino. La terra è arrivata al limite. Mai come ora, occorre intervenire e farlo al più presto, perché il sistema si sta rapidamente avviando al collasso. La questione ci coinvolge tutti da vicino, ognuno con il proprio bagaglio di piccole o grandi responsabilità. L’attenzione e l’interesse per il tema devono essere alti. Per fortuna, opportunità concrete e progetti importanti non mancano, come emerge anche dall’interessante ed accurato saggio “Guida ai green jobs”, scritto da Tessa Gelisio e Marco Gisotti per Edizioni Ambiente.
Un testo prezioso, un’analisi ampia e articolata che si avvale dei numerosi contributi raccolti dai due autori e che abbraccia moltissimi comparti produttivi: dalle energie rinnovabili alla mobilità sostenibile, dall’ecofinanza alla green fashion. Attraverso le risposte di imprenditori ed esperti del settore, si delinea un profilo dettagliato della green economy italiana: che cosa significa oggi puntare sul verde, quali sono i profili professionali più ricercati, quali le sfide da affrontare e gli aspetti da migliorare. La parola d’ordine è efficientamento, ovvero “riduzione dei consumi energetici e più in generale di materie prime, ottimizzazione dei processi produttivi, creazione di modelli di consumo e risparmio”.
Una riflessione, però, è d’obbligo: se alcuni settori, come quello edilizio e chimico, fanno registrare incoraggianti segnali positivi, in tanti altri siamo appena all’inizio di un percorso lungo e certamente non facile, che necessita di scelte coraggiose e di nuove professionalità. E allora, di che cosa devono occuparsi e quale formazione è più indicata per quanti intendono intraprendere un lavoro green? Tra professioni ormai diffuse e consolidate, si inseriscono alcune interessanti novità. Per gli amanti del mare, si può contribuire attivamente alla salvaguardia del Pianeta in veste di bagnini sostenibili. Ma ci sono buone prospettive anche per amministratori di condominio con il pallino della sostenibilità, per ecovigili, disaster manager, wedding planner sensibili all’ambiente e al portafoglio.
Dunque, come dimostrano i due autori, le possibilità sono numerose. L’importante, ora, è prestare attenzione affinché “l’onda verde che sta spazzando il paese non si infranga contro interessi antichi e una politica cieca”.

“Ascoltare, capire, emozionarsi, sentirsi infiniti e parte del tutto: questo è Charlie”

Michael Dialley
AOSTA –
“Caro amico, ho deciso di scriverti perché ho sentito dire che sei uno che ascolta e che capisce […] OK questa è la mia vita. E desidero che tu sappia che sono felice e triste al tempo stesso, e che sto cercando di capire come ciò sia possibile”. Così inizia il romanzo di formazione “Ragazzo da parete” edito da Frassinelli nel 2006, che Stephen Chbosky propone sottoforma di raccolta epistolare e che tra pochi mesi uscirà nelle sale cinematografiche italiane, con il titolo di “Noi siamo infinito”.
Tante lettere destinate ad un “caro amico”, scritte da Charlie, un ragazzo appena entrato al liceo, un ragazzo che inizia a conoscere la vita dei grandi, confrontandosi con l’amore, i problemi adolescenziali, i sentimenti e le emozioni, nei tempi dei primi anni ’90. Colpisce fin dalla prima pagina la storia di questo ragazzo, perché forse tutti, almeno una volta, ci siamo sentiti “ragazzi da parete”, anche se lui lo è stato per gran parte del primo anno di liceo. È il confidente perfetto: ricorda tutto ciò che vede e gli viene raccontato, soffre con gli altri, non per gli altri; gioisce con gli altri, non per gli altri. Scopre il suicidio di un amico che lo sconvolge, ma cerca di capirne i motivi; scopre la violenza di un ragazzo verso la sorella, ma mantiene questo segreto per molto tempo e non tradisce le persone cui vuole bene, siano segreti belli o brutti; scopre il sesso, eterosessuale, grazie a un ragazzo della scuola, poi grazie a sua sorella; conosce la realtà omosessuale, che accetta, anzi si dimostra molto comprensivo ed emotivo.
Il romanzo procede piano piano, lettera dopo lettera, confessione dopo confessione e ci fa conoscere questo ragazzo, che non riesce ad essere “presente” nella vita. Il professore d’inglese e la ragazza di cui Charlie è innamorato sono le uniche due persone che riescono a capire questo adolescente: Bill, il professore, lo sprona a diventare protagonista della propria vita e della vita sociale e gli affida compiti extra che consistono nella lettura di libri. “Sulla strada” di Kerouac, “Di qua dal paradiso” di Fitzgerald, “Il buio oltre la siepe” di Lee, “Amleto” di Shakespeare, “Il giovane Holden” di Salinger, “La fonte meravigliosa” di Ayn dovrebbero aiutarlo a rendersi conto di quanto sia intelligente e speciale; peccato, però, che Charlie non se ne renda conto. Accetta passivamente questi lavori, assimila altrettanto passivamente gli insegnamenti di questi libri senza ragionarci e rifletterci, come vorrebbe il professore. Sam, invece, la ragazza che Charlie ama, che gli dice di non pensare a lei come ragazza da poter amare, e che alla fine dell’anno scolastico rivela a Charlie il significato di quella frase: non era un rifiuto, bensì voleva essere un aiuto a vivere la propria vita, ad agire per assecondare quell’istinto, a fare ciò che crede sia giusto senza pensare a cosa vogliono le persone intorno a lui. Solamente nelle ultime due lettere, però, il lettore comprende quale grande macigno sia dentro Charlie: le molestie sessuali di una zia defunta. Ecco che cosa blocca Charlie nei rapporti con le ragazze, ecco il suo amore verso la zia morta che non era un amore di nipote verso la zia, ma un amore disturbato, distorto e, forse, imposto. Da qui Charlie ricomincerà la sua nuova vita: il romanzo, infatti, si chiude con il suo primo giorno del secondo anno di liceo. Questa volta, però, Charlie non ha più paura di affrontarlo, anzi: a testa alta si appresta a questa nuova avventura, circondato dalle persone che ama e che lo fanno sentire amato.
Oggi ci sono i social network che rendono i ragazzi più aperti; riescono, nascondendosi dietro a un profilo virtuale, a dire ciò che sentono, ciò che vedono, attraverso link, chat, tweet. Fino a qualche anno fa era diverso, tutto era più personale, solitario, ma sicuramente era vissuto in maniera più forte e sconvolgente e si capiva, si cresceva consapevoli di cosa fosse la vita vera.

Via col vento. Domani è un altro giorno!

Marianna Abbate
ROMA – Tara, il caldo, la polvere e la guerra. Un amore enorme, infinito. Un’illusione.

Chi non ha sognato di essere Scarlet O’Hara- Rossella? E soprattutto, chi non ha visto il film con Vivien Leight e il Clooney degli anni ’50: Clark Gable? (Sono d’accordo con voi: era meglio Gable, non vi agitate).

Film indimenticabile, campione d’incassi e di Oscar,  che io ho visto per la prima volta solo qualche mese fa. E ora vi spiego perché.

Ero sempre la teenager brufolosa e nasona che tutti sfottevano, e amavo i libri. Li amavo tanto da disperarmi ogni volta che ne finivo uno. Per questo ho cercato assiduamente libri lunghi, libri oltre le 500 pagine, per rimanere più a lungo possibile in contatto con quei protagonisti che avevo appena conosciuto, e che spesso sparivano dalla mia vita dopo sole 150 pagine di lettura vorace. Che tradotto in tempo spesso era quantificabile in una singola nottata insonne.

Io invece avrei voluto rincontrarli la notte successiva, discutere di quelle cavolate dette a pagina 75, di quel pugno tirato a pagina 120 e di quei tradimenti a pagina 132. Così mia madre, dopo avermi proposto di leggere l’elenco telefonico della città di Roma, che sicuramente sarebbe durato qualche giorno, tirò fuori da una valigia in soffitta cinque libri, che si rivelarono tomi di un’opera unica: Via col vento di Margaret Mitchell.

Sono state le due settimane più belle della mia vita. Ne sono uscita ancor più brufolosa, con un aspetto cadaverico e due occhiaie nere, ma ne è valsa la pena. Ma questo libro mi ha segnato. Mia madre e le amiche spingevano affinché vedessi il film, e io rifiutavo categoricamente.

Non avrei potuto assolutamente rivivere quei momenti di guerra, l’uccisione dello yankee, la morte della mamma, la perdita di casa, la perdita dell’amore. Quell’amicizia falsa con la santa e buona Melania. Quel riconoscere piano piano di aver avuto sempre torto in tutto, che Ashley non era l’Amore e che Rhett se ne era andato. Quella falsa speranza del giorno dopo all’ultima riga. La disillusione.

Ci sono voluti quindici anni perché quelle sensazioni si placassero e io potessi desiderare di riviverle guardando il film. Se non l’avete visto, fatelo subito.

Libro e film sono bellissimi, banalmente bellissimi. Stupendi, meravigliosi, fantastici: suggeritemi altri sinonimi nei commenti perché ho finito i superlativi, ma non ho finito l’entusiasmo. Andate, smettete di guardare sottecchi quel macaco che avete accanto e innamoratevi di un uomo vero: Rhett Butler.

E’ finto, dite? Beh, nessuno è perfetto.


 

 

“Tutto iniziò con un calice spezzato”: il mistero del giallo “sempreverde”

Luigi Scarcelli
PARMA
“Tutto iniziò con un calice spezzato” di Selwyn Jepson è un giallo proveniente da quella che potremmo definire la belle époque di questo genere di romanzo. Edito per la prima volta nel 1930, viene oggi riproposto dalla Polillo Editore all’interno della sua linea I bassotti, che ha l’intento di portare alla luce manoscritti misconosciuti o finora inediti in Italia appartenenti al cosiddetto genere giallo.

La storia si svolge durante il primo dopoguerra ad Eastblyth , un tranquillo paese della campagna inglese, in cui John Arden, eminente sociologo ed esperto conoscitore del luogo e delle genti che vi abitano, organizza delle cene in compagnia dei suoi vicini, personaggi tutti appartenenti all’alto rango della società. Una di queste cene viene interrotta da un proiettile che, entrato dalla finestra della sala da pranzo di casa Arden, sfiora il padrone di casa rompendo il calice che egli aveva in mano.

A questo agghiacciante e misterioso tentativo di omicidio seguiranno altri delitti, tutti a scapito dei commensali di quella famigerata cena. John Arden prenderà parte alle indagini coadiuvato dall’eminente criminologo George Jupp e dall’ispettore English.
Il finale lascerà sicuramente di stucco e soddisfarà anche il lettore più difficile ed esperto del genere.

A quasi novant’anni dalla sua prima pubblicazione, “Tutto iniziò con un calice spezzato” con i suoi colpi di scena, l’analisi dei personaggi, il movente e l’arguzia dell’assassino è quasi la prova del perché il giallo sia un genere, per usare un gioco di parole, sempreverde.

“Il pasto degli schiavi”: il monologo esistenziale di Adriano Marenco

Alessia Sità

ROMA –Un uomo in gabbia. Una gabbia con le sbarre larghe. Ci si può passare senza problemi. Egli non può avere problemi a passare.
Si apre così “Il pasto degli schiavi”, l’ultimo lavoro di Adriano Marenco pubblicato da Edizioni Progetto Cultura. In una continua alternanza di buio e di luce, ha inizio il monologo dell’autore, incentrato su una condizione umana ed esistenziale ai limiti del grottesco. Non siamo molto lontani dal degrado già descritto da Marenco nel suo precedente romanzo breve: “La palude e la balera”.
Al centro della piéce è il potere in tutte le sue sfumature. La scelta del soliloquio non è casuale, ma quasi necessaria per rendere bene l’idea di come il potere non sia in grado di instaurare un dialogo oltre se stesso. Dall’altra parte, ci siamo noi, “le scimmie”, spettatori quasi impotenti della miseria e dello squallore del nostro paese. Marenco porta alla ribalta una triste realtà, quella costituita essenzialmente dai più deboli, dai ‘poveri’ costretti a “strisciare” dappertutto. L’umanità che “striscia per un’opportunità”. L’uomo che nella didascalia iniziale è chiuso in una gabbia non è stato confinato brutalmente. Sceglie di restare nella propria prigione dorata, protetto dal mondo, in quanto consapevole di quello che c’è sulla terra: solo “untume e resti umani”. “Noi siamo sani e dobbiamo proteggerci dobbiamo proteggere la nostra famiglia la nostra famiglia la nostra famiglia e perciò ci rinchiudiamo sempre di più (…) dobbiamo comprare e comparire e infilarci nelle nostre ville bunker almeno chi se le può permettere. Ma anche una gabbia va bene. Che ci protegge dalla sporcizia di fuori”.
Con un linguaggio forte e a tratti surreale, Marenco porta in scena la triste realtà di un paese, il nostro, logorato dalla mancanza di moralità, in cui tutte le anime sono barattate per un nulla. Un paese in cui “un’anima vale meno di una crosta di pane’.

 

Un paio di tacchi alti- un giallo per le serate d’autunno

Marianna Abbate
ROMA – E’ autunno, piove e fa finalmente freddo. Ci vuole proprio una tazza di té con del bourbon, castagne arrosto, un plaid e… un bel giallo. Quindi, eccomi qui a consigliarvi un giallo d’autore; un classico del genere: “Un paio di tacchi alti” di Timothy Fuller pubblicato da Polillo Editore.

Se avete amato Aghata Christie non potete perdervi questo romanzo, carico di sottintesi e indizi.

La trama è presto detta: si indaga su un omicidio avvenuto durante la riunione di ex studenti dell’università di Harvard. Ma quello che ci interessa è l’atmosfera: quell’aria che sa di mistero e cannella che avvolge i protagonisti di tutti i gialli d’autore.

Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1941, ed è innegabile che sia proprio la sua età a renderlo ancora più affascinante.

L’autore ci accompagna sui passi di Jupiter, un detective dilettante che si dimostra estremamente sveglio e abile- e anche un pochino nerd. La riunione degli studenti viene scossa dall’evento inaspettato, che li porterà a guardarsi con sospetto e scoprire vecchi rancori. Un unico indizio: un’impronta di scarpe con tacco accanto al cadavere. In più bisogna affrettarsi a risolvere il caso per scagionare l’amico innocente che sta per sposarsi!

Condite tutto con cappellini, cappotti cammello, una luce soffusa e un finale a sorpresa e avrete tra le mani un giallo come si deve.

Un altro punto a favore di questo romanzo è l’edizione, piccola e maneggevole, ma nel contempo rispettosa della nostra vista.

Polillo Editore da tempo si dedica alla ricerca e pubblicazione di gialli d’autore, dedicandosi in modo particolare ai classici del mistery inediti in Italia. Una serie di piccoli gioielli per gli amanti del genere. Il cofanetto con i primi 100 romanzi è una bellissima idea regalo per Natale.

 

 

“Come leggere un libro”: i preziosi consigli di lettura di Virginia Woolf

Alessia Sità

ROMA“Il lettore comune, come suggerisce il dottor Johnson, differisce dal critico e dallo studioso. E’ meno istruito, e la natura, quanto a talento, non è stata così generosa. Legge per il proprio piacere e non per impartire conoscenza o correggere l’opinione altrui.”
Così scriveva Virginia Woolf (1882-1941) – una delle più grandi icone letterarie del Ventesimo secolo – nel prologo a “The Common Reader. First Series, 1925”.
Per carpire ogni piccolo segreto su come il lettore dovrebbe approcciarsi alla lettura di un testo, Passigli editore ha pubblicato “Come leggere un libro”, una piccola preziosa guida. La raccolta è costituita dal prologo al saggio ”Come si dovrebbe leggere un libro?” – testo originariamente pensato come conferenza per una scuola femminile e poi pubblicato sulla “Yale Review” nell’ottobre 1926 e inserito in “The Common Reader. Second Series, 1932 – e da “Che effetto fa un contemporaneo”. Quest’ultimo apparve sul “Times Literary Supplement” il 3 aprile 1923 e solo dopo qualche revisione venne pubblicato in “The Common Reader. First Series, 1926.
Con grandissima attualità e accuratezza, Virginia Woolf descrive e spiega l’ambiente letterario. La lettura di un romanzo non è mai un atto semplice, ma richiede sensibilità, fervida immaginazione e capacità di confronto con le passate esperienze. Avere un termine di paragone è fondamentale per poter gettare le basi del nostro giudizio in previsione delle opere future. Non sempre, però, il “lettore comune” dispone di strumenti adeguati per comprendere testi particolarmente complessi, un esempio citato dalla scrittrice è “Ulysses” di James Joyce, pubblicato proprio in quegli anni. Infine, riferendosi ai contemporanei Viriginia Woolf scrive: “La nostra è un’epoca di frammenti. Alcune strofe, alcune pagine, un capitolo qua è là, l’inizio di questo romanzo, la fine di quello corrispondono al meglio di qualsiasi epoca o autore. Ma davvero possiamo passare alla posterità con un fastello di pagine sciolte, o chiedere ai lettori del futuro, con tutta la letteratura di fronte a loro, di separare con il setaccio le minuscole perle dai nostri cumuli di spazzatura?”. Arriverà il momento in cui il lettore, un tempo amico dello scrittore, si trasformerà in giudice e condannerà tutti quei libri poveri intellettualmente. Con estrema delicatezza e acuta lucidità, Virginia Woolf propone idee e suggerimenti su come ogni lettore possa scegliere in totale libertà cosa leggere, seguendo semplicemente il proprio istinto e tralasciando qualsiasi altro giudizio che non sia quello personale.

 

Le infinite possibilità della vita ne “Il latte versato”


Silvia Notarangelo

ROMA– “Nulla è più vero di una storia inventata”. Con queste parole, Cristiana Bullita si congeda dai lettori al termine del suo nuovo romanzo “Il latte versato” (DEd’A Edizioni). Ed ha ragione. Perché ci sarà anche una buona dose di immaginazione, ma le vicende che descrive non solo sono saldamente ancorate alla realtà, ma la rappresentano senza filtri, così com’è, nei suoi momenti più e meno piacevoli.
Con sensibilità, umorismo e, a tratti, una vena di malinconia, l’autrice delinea il ritratto accorto e delicato di quattro amiche non più giovanissime, consapevoli di un vissuto che non si può cambiare, ma decise a credere nella vita e nelle sue imprevedibili possibilità.
Chiara, Carla, Angela e Francesca sono quattro donne cinquantenni, legate da una profonda amicizia. Hanno personalità diverse, hanno affrontato esperienze diverse, rivelano un modo diverso di approcciarsi alla vita. Eppure, in loro, si avverte una profonda, comune inquietudine che le rende precarie, in bilico tra il desiderio di andare avanti, di proiettarsi nel futuro, e un passato, talvolta doloroso, che continua a farsi sentire sotto forma di ricordi e di rimpianti.
Ma c’è qualcosa, di ancora più forte, che le accomuna: l’amore, in tutte le sue sfaccettature. Per Chiara, insegnante di storia e filosofia, è un sentimento, mai sopito, per quel suo compagno delle elementari, tale Franco Ruscitelli, la cui ricerca forsennata continua a scandire le sue giornate. Per Francesca, scottata da una precoce relazione finita male, si trasforma in passione, una passione estraniante che la fa “vivere al di fuori del recinto angusto della ragione”. Nell’esistenza di Angela, all’amore inconsolabile per una vita stroncata si unisce un’inarrestabile voglia di riscatto, un desiderio disperato che, non soddisfatto, rischia di farla scivolare in un abisso sempre più profondo. È un sentimento platonico, ma vibrante e adrenalinico, quello di cui non riesce a fare a meno Carla, talmente stordita dal vortice delle emozioni da non rendersi conto che qualcosa non va.
Nell’arco di una giornata apparentemente come tante altre, le quattro protagoniste avranno modo di fare i conti con se stesse, con le proprie debolezze e i propri errori, con un passato che sembra offrire una nuova, inaspettata opportunità, ed un presente che riserva, invece, spiacevoli quanto prevedibili sorprese.