“L’uomo d’argento”, muoversi per non spostarsi di un centimetro

Matteo Dottorini
ROMA
– In un futuro non troppo lontano, in cui l’occidente è crollato sotto i colpi della crisi definitiva, una generazione perduta si autogestisce dopo essere scappata e aver ricreato una città in cui è sempre venerdì notte. Qui, alcool e sostanze sono l’unico fine, il coito compulsivo e disinteressato l’unico sesso praticabile e l’autodistruzione l’unica barriera protettiva contro l’ansia e lo smarrimento che non risparmia sia chi arriva e sia chi in città, da un po’, risiede. Questo è “L’uomo d’argento” di Claudio Morici pubblicato dalle edizioni e/o.
Con un linguaggio gergale ma non generazionale, divertente ma mai frivolo, l’autore dà prova di possedere quel che racconta, di parlare di qualcosa che conosce, senza retorica o banali moralismi. Nel futuro immaginato da Morici non è dovuto sapere, se non tramite brevi riferimenti fatti dai protagonisti, cosa avvenga nel mondo esterno all’ambientazione della storia.
Muoversi per non spostarsi di un centimetro, fuggire da un mondo deludente verso il suo clone mascherato da “diverso”, con gli stessi vizi e le stesse ineludibili distopie. Uno dei peggiori scenari possibili che potremmo ritrovare dietro l’angolo con personaggi, se possibile, peggiori dello scenario stesso, reali quanto quelli delle living room, dei rave party e dei club che conosciamo bene.
Qual è il miglior mondo possibile dopo questo? E ancora, una volta vista per davvero la realtà e immaginandone una alternativa, di fuga, saremmo capaci di pensarla diversa da quella che viviamo tutti i giorni? Morici sembra chiederci questo, indicando il nichilismo come unica soluzione possibile per opporsi a tutto ciò che oggi ci piega, ci costringe in ginocchio, ci toglie l’aria, l’acqua, il cibo. Solo l’uomo d’argento mantiene un ordine, astraendosi completamente da tutto quello che lo circonda, dalla morte che cammina, da una fine perpetuata ad libitum. Ma non è, forse, anche lui, in quanto ideale utopico, un fantasma?
Lo si inizia credendolo un romanzo di genere, futuristico o cyberpunk , ma si rivela, invece, una narrazione, sociologicamente accurata nei minimi dettagli, della crisi della nostra generazione, che da una parte lotta e dall’altra annaspa.

“Chuck Norris ha un armadio nello scheletro”

Stefano BIlli

Roma – Sì, avete letto bene: “Chuck Norris ha un armadio nello scheletro”. Né errore di battitura, né sintomo di arteriosclerosi precoce del redattore. Piuttosto, si tratta dell’esilarante titolo del terzo volume, curato da Mist e Dietnam (per l’anagrafe, Riccardo Bidoia e Massimo Fiorio) ed edito da Tea, che raccoglie al suo interno cinquecento facts riguardanti il ranger texano più forte, indistruttibile, imperturbabile, impietoso e cattivo che sia mai esistito.

Osate chiedere di chi si stia parlando? Allora mettetevi al riparo, perché Chuck Norris, protagonista dell’intramontabile serie televisiva “Walker Texas Ranger”, vi sta già raggiungendo con un calcio rotante. Infatti, alla sua figura, si associano fatti – denominati appunto facts – che forse sono leggenda, o forse no, perché nessuno dubita più delle titaniche imprese dell’attore statunitense, tanto che Chuck Norris rappresenta ormai un fenomeno umoristico inarrestabile.

La goliardia e la robusta comicità delle gesta del ranger texano assurgono a pilastro incrollabile dell’ironia targata ventunesimo secolo, tanto che il prestigioso quotidiano londinese Times, in un’intervista a Chuck Norris, definisce quest’ultimo un acclarato online cult hero.

Perché, è opportuno che lo sappiate, «Chuck Norris può svuotare la luna piena». Così come è in grado di «riempire un pozzo senza fondo». Vi sembra che stia esagerando? Allora tremate al pensiero che «Chuck Norris può abrogare la legge di gravità».

Questi sono i facts. Pillole di satira così sopraffina da strappare a chiunque una fragorosa risata. Soprattutto contagiosa. Infatti, la loro caratteristica più incredibile è proprio quella di spingere il lettore a voler scoprire incessantemente nuove gesta sempre più incredibili. Senza contare quella voglia febbrile che induce i lettori, infine, a diventare essi stessi creatori di facts. Ecco allora alimentarsi un ciclo comico che sembra non conoscere né crisi né momenti di noia, come testimoniano le molteplici ristampe i volumi inediti che si aggiungono costantemente all’opera di Mist e Dietnam, raccoglitori indefessi – e straordinari – di quest’onda di divertimento popolare e disarmante.

Perciò, se la malinconia da fine ferie è in procinto di abbattersi sul vostro morale, non dimenticate che «Chuck Norris sa cosa hai fatto l’estate scorsa». Perché «Chuck Norris ha affondato uno scoglio col suo gommone».

E ricordate: «Chuck Norris can try this at home».

Un ritratto fatto di parole


Marianna Abbate

ROMA – Una figura eclettica, poliedrica e ancora oggi estremamente innovativa. Un uomo che ha cercato per tutta la vita un linguaggio che gli permettesse di esprimere appieno i messaggi che voleva trasmettere. E così ha frequentato la poesia, il dramma, il romanzo e la cinematografia. Si è cimentato anche nella poetica dialettale del suo Friuli, in una estrema e coraggiosa ricerca dei sentimenti originali. Ci piace leggere Pasolini narratore, ci piacciono i suoi film carichi di emotiva passione. Ci è piaciuta la sua Callas/Medea, carica del furor senechiano. E siamo quindi convinti di conoscere l’opera di Pasolini, di comprendere il suo messaggio.

E qui giunge in aiuto Luigi Martellini, con il suo Ritratto di Pasolini, edito da Laterza. Lo studioso mostra l’artista in tutte le sue forme, con un’analisi oggettiva e approfondita della sua biografia e delle sue opere. E’ evidente la sua ammirazione per lo scrittore, riconoscibile nell’attenzione alle citazioni e alle tematiche. Uno sguardo d’insieme che permette di conoscere meglio l’artista, anche per chi approccia per la prima volta le sue opere.

Un testo gradevole, scorrevole e nonostante questo, carico d’informazioni. Un testo che non può mancare nella bibliografia di una tesi su Pasolini.

 

“I giorni chiari”: il romanzo quasi fiabesco di Zsuzsa Bánk

 

Alessia Sità

ROMA – “Tengo i giorni chiari, quelli scuri li rendo al destino”.
Sullo sfondo della Germania degli anni Sessanta, si dipana la toccante storia di Aja, Seri e Karl e di tre madri sole, profondamente segnate dalla vita. Sono questi i protagonisti del romanzo quasi fiabesco di Zsuzsa Bánk, “I giorni chiari”, edito da Neri Pozza nella collana I narratori delle tavole.
Ai margini di un villaggio, in una casa fatiscente priva persino di una cassetta per le lettere, vivono Aja e sua madre Évi, una giovane ungherese sposata con Zigi, acrobata del circo. L’unica ricchezza che sembra essere in possesso di questa piccola famiglia è un giardino di alberi da frutta, che circonda la loro sgangherata abitazione. Ed è proprio in quel giardino che la piccola Aja vivrà i suoi indimenticabili ‘giorni chiari’ dell’infanzia, insieme agli inseparabili amici Seri e Karl. L’esistenza dei tre bambini, però, è profondamente segnata da tragici eventi personali; ma come per incanto, il dolore e il lutto sembrano ‘svanire’ nella spensieratezza dei giochi, dei momenti trascorsi nel villaggio a sud della Germania e nel paradisiaco giardino. Sono tutti attimi di vita vissuta intensamente, sempre sotto lo sguardo vigile di tre madri forti e premurose. I giorni chiari sono proprio i giorni trascorsi nell’innocenza della tenera età, quando le dure prove quotidiane, le sconfitte e le illusioni della vita adulta erano ancora lontane. A distanza di vent’anni, i tre ragazzi, ormai maturi, si ritrovano a fare i conti con il passato, con insospettabili segreti e inaspettati tradimenti.
Zsuzsa Bánk ci regala un romanzo dai toni poetici, in cui a parlare non sono solo i personaggi, ma soprattutto è la vita, che con un abile gioco intreccia continuamente i destini dei suoi protagonisti.
Pagina dopo pagina, l’autrice ci fa rivivere i momenti salienti di una profonda amicizia immersa in un’atmosfera magica. Lo stile di Zsuzsa Bánk è lineare e semplice. La sua scrittura molto intensa, inevitabilmente arriva dritta al cuore di chi legge, perdendosi completamente fra le righe del suo romanzo.

L’essenza della vita secondo Françoise Héritier


Silvia Notarangelo

ROMA – Lontani dal lavoro e dai frenetici ritmi quotidiani, l’estate può essere il momento giusto per riconquistare un po’ di serenità e riscoprire ciò che davvero ci rende felici.
Il sale della vita” dell’antropologa  Françoise Héritier (Rizzoli) è un’autentica miniera di spunti per riflettere su quante piccole cose possano allietare la nostra esistenza. Non occorrono eventi o situazioni particolari, a volte è sufficiente saper gustare ed apprezzare quei momenti, quei gesti, quelle occasioni che ogni giorno la vita sa regalare.
Con umorismo, leggerezza e, talvolta, una punta di malinconia, l’autrice si lascia andare ad una libera associazione di idee che prende forma nell’arco di due mesi. Una lunga riflessione in cui riconoscersi e in cui riconoscere un universo di sensazioni, capaci di strappare un sorriso ma anche di suscitare qualche lacrima.
Tutto può dare un senso, un sapore diverso all’apparente monotonia quotidiana.
Ci sono i piaceri della cucina, come “il profumo delle brioche calde per strada”, le bellezze offerte dalla natura, “il volo di una rondine”, la facoltà di compiere gesti tanto banali quanto liberatori, “fischiettare con le mani in tasca”o “appoggiare i piedi su un tavolino”.
E ancora, le piccole indispensabili rivincite personali, “dare una bella lezione ad un misogeno rispondendogli a tono”; l’adrenalina che nasce da nuove esperienze o posti sconosciuti, “veleggiare in feluca sul Nilo”; le inquietudini e i turbamenti che rendono imprevedibile il vissuto di ognuno.
L’importante, come sostiene la Héritier, è riuscire a salvaguardare “quella capacità di sentire e provare sentimenti, di lasciarsi coinvolgere…e di comunicare tutto questo agli altri”. Nulla di trascendentale, dunque, semplicemente una spassionata presa di coscienza di quella “grazia tutta speciale” che consiste “nel puro e semplice fatto di esistere”.

La tragedia secondo Ismene

Matteo Dottorini
ROMA
– Che cos’è “La ribellione di Antigone”… di certo un libro, l’ultimo lavoro di Giancarla Dapporto, edito da Portaparole che ripercorre alcuni stralci della tragedia di Sofocle, ma è anche altro, molto altro.
E’ un testamento, che Antigone, figlia di Edipo, lascia ai posteri per mano della sorella minore Ismene. E’ Ismene infatti che la Dapporto, andando controcorrente rispetto alla tradizione, ingaggia come narratore di questa tragedia. Antigone, di ritorno dal lungo esilio durante il quale ha assistito il padre Edipo, è testimone dello scontro tra i fratelli maggiori che, per questioni dinastiche, si tolgono la vita l’un l’altro sotto le mura di Tebe. Lo zio Creonte, successore al trono, nega la sepoltura a Polinice, tra i due defunti il fratello reo di aver guidato un esercito straniero contro la città. Antigone, allora, dopo aver fatto appello alle leggi eterne degli dei e reclamato una degna sepoltura per il fratello traditore, vistasi negare la richiesta dall’irremovibile zio, si toglie la vita come sacrificio, mettendo fine all’intera dinastia reale.
“La ribellione di Antigone”, però, è anche un buon compendio del ciclo tebano. La giovane Ismene narra gli epici natali della sua famiglia, genìa divina, ma vittima della maledizione degli dei che porterà lei, la più giovane e meno coraggiosa tra i discendenti di Cadmo e Armonia, a rimanere l’unica sopravvissuta e, allo stesso tempo, testimone di un ciclo glorioso e ancor più tragico.
Ma “La ribellione di Antigone” è soprattutto il racconto dell’eterna lotta tra due passioni: in questo caso la tracotanza, la Hybris, del sovrano, e la Pietas di Antigone.
La Dapporto, attraverso Ismene, racconta e, nel farlo, mostra. Mostra delle immagini, un flusso di immagini usando uno stile asciutto, senza orpelli. I ragionamenti e il filo dei pensieri della voce narrante sono funzionali allo svolgimento, filologicamente ineccepibile, delle vicende. La prosa e i dialoghi, sempre essenziali, conservano il pathos della teatralità originaria.
Rimane intatta la dimensione religiosa, perduta in altri adattamenti moderni della tragedia. Gli dei,ossia le forze e le passioni che i greci riconoscevano e umanizzavano, tornano ad essere il motore della tragedia. La negazione del loro ascendente, individuabile nella tracotanza del sovrano, torna nell’opera della Dapporto il punto centrale degli eventi da cui scaturiscono la ribellione di Antigone, il suo suicidio e, nella catarsi finale, la resa di Creonte che, finalmente, apre gli occhi di fronte alla sua stoltezza. Elemento non da poco, che mette luce sulla profonda conoscenza e il grande rispetto per il pensiero greco da parte dell’autrice.
Giancarla Dapporto, con uno stile semplice e comprensibile a tutti, come lo stesso Sofocle, narra una storia epica e inossidabile, adattando il linguaggio della sua prosa agli archetipi che essa racconta, sempre attuali e che non necessitano di alcuna vera modernizzazione. Non è mai semplice riscrivere i classici, la tentazione di adattarli ai tempi per renderli commercialmente accattivanti e fruibili al largo pubblico, o quella di attualizzali, mettendoli in sintonia con la corrente sociologica sposata dall’autore di turno, presta spesso il fianco all’emergere di stereotipi dal sapore scolastico, quando non scade in stucchevoli adattamenti postmoderni. Il pericolo è sempre lo stesso: individuare un buono e un cattivo, pratica che, inesorabilmente, pone un velo sulla saggezza antica che, da ogni classico, letteralmente trabocca nelle nostre mani. Una saggezza smarrita eppure pronta all’uso, così preziosa e utile per la costruzione di una coscienza personale, sociale, civica e che, in questo frangente storico, andrebbe più che mai recuperata. La Dapporto, nel suo breve libro, mantiene pulsante questa saggezza e ha, tra l’altro, il merito di non trasformare Antigone in quel modello di proto-femminista , nichilista o ribelle, tanto caro a certi ambienti giornalistici, letterari e soprattutto politici novecenteschi.
E’ tutto questo che rende “La ribellione di Antigone” un romanzo di formazione, un testo da possedere, adatto a chiunque: a chi ama i tragici e a chi ha fruito anche dei loro svariati adattamenti,a chi ama le storie di eroine che non passano con la moda del momento, a chi mastica Calasso e a chi cerca un ottimo libro per far conoscere alcuni personaggi, per la prima volta, ai propri figli.

“La spia” Ezra Pound è davvero il padre dei giovani neofascisti?

Marianna Abbate
ROMA – L’albero m’è penetrato nelle mani,
La sua linfa m’è ascesa nelle braccia,
L’albero m’è cresciuto nel seno
Profondo,
I rami spuntano da me come braccia.
Sei albero,
Sei muschio,
Sei violette trascorse dal vento –
Creatura – alta tanto – tu sei,
E tutto questo è follia al mondo.

 

Se non vi piace questa poesia, Ezra Pound per voi non è nessuno. Lo capisco. Eppure a me questa poesia piace; mi piace l’immagine dell’albero cresciuto in seno della linfa/sangue che scorre nelle braccia/rami. E’ buona poesia: è metafora dell’unione con la terra, con il mondo- dà un posto all’uomo.

Ma se non vi piace la poesia di Ezra Pound è davvero inutile che voi leggiate questo libro. Perché in fondo chi se ne frega se un pazzo americano qualunque era fascista o se faceva la spia per gli alleati attraverso messaggi cifrati.

Se invece credete come me che questa sia Poesia, cambia tutto. Ora vi interessa sapere perché. Volete sapere come sia possibile che un Poeta, uno che sa usare le parole con genialità, uno “che ci capisce” insomma, possa aver fatto un errore così grande e grottesco come aderire al fascismo. Perché un uomo capace di una così grande sensibilità, ha prodotto così tante e terribili invettive antisemite, e ha ammirato follemente un uomo- Mussolini-  che chiamare ignorante è un eufemismo bello e buono?

Forse per la stessa mania di grandezza dannunziana? Eppure Pound non vive il periodo d’oro, vive la caduta, la delusione, l’abbandono del popolo.

E qui la teoria del complotto trova il suo sfogo naturale: forse era tutto una finzione, forse Pound era una spia per gli alleati. Justo Navarro la presenta nel suo romanzo “La spia” edito da Voland.

Se pensate che sia stato un grande poeta, forse questa teoria potrà rasserenarvi.

 

“Il giardino delle bestie”: questa settimana torniamo a temere la storia

Marianna Abbate
ROMA – Non avete mai la sensazione che sulla II Guerra Mondiale sia stato già detto tutto? Credetemi, io ce l’ho ogni volta che guardo la copertina di un nuovo libro sull’argomento- o che accendo la televisione per vedere un film sul tema. Eppure, ogni volta mi devo ricredere. La seconda guerra mondiale è un pozzo inesauribile di nefandezze, orrori ed ingiustizie- ma anche atti eroici, sconvolgimenti e ritrovamenti.

E così, guardando con timore il tomo di 600 pagine che mi è stato affidato, ho pensato: cosa ci potrà mai essere di nuovo- di sconosciuto in un libro così grosso?

L’autore di “Il giardino delle bestie” edito da Neri Pozza nella collana Bloom, ci presenta una storia vera, un tantino romanzata per rendere la lettura più scorrevole. Il protagonista collettivo sono i membri della famiglia Dodd, parenti di un distinto professore americano, che inaspettatamente si ritrova- per volere dello stesso Roosevelt, ambasciatore a Berlino.

Così dalla loro vita felice di Chicago, si ritrovano a vivere una vita altrettanto felice, anche se un po’ nostalgica, a Berlino. Ignari della realtà passavano pomeriggi nei caffè assieme ai gendarmi delle SS e serate ai balli in compagnia di gente del taglio di Goebbels.

Ma una realtà così terribile può sfuggire solo ad un cieco- e ovviamente il professore tale non era. Dopo i terribili avvenimenti legati alla “Notte dei Lunghi Coltelli” l’ambasciatore, che non era mai stato molto diplomatico, si trovò ad essere persona non grata e dovette richiedere al proprio governo di tornare in patria.

Ovviamente l’America e il suo governo, al contrario del professor Dodd, rimase cieca più a lungo, senza riconoscere in modo univoco ed esplicito il pericolo rappresentato dal nazismo.

Ma dov’è la novità in questo romanzo? Perché vale la pena leggerlo? Non sappiamo forse tutto sui fatti antecedenti la guerra e sul periodo d’oro del nazismo in Germania?

Ricorderete tutti, quel macabro e terribile film di Rossellini che raccontava la temeraria ascesa e la disperata caduta della potente famiglia tedesca dei von Essenbeck. Il titolo era “La caduta degli dei”, e non poteva esserci titolo migliore per raccontare la storia di una famiglia che si sentiva immortale, priva di ogni regola e libera di distruggere tutto, persino se stessa.

Ora, questo film raccontava il punto di vista dei protagonisti, dei fautori della guerra. In questo romanzo abbiamo un punto di vista inedito- una sobria e abbastanza oggettiva, dal punto di vista storico, visione della realtà. Uno sguardo critico, privo di esaltazione ideologica- quasi distante.

Un punto di vista che coincide con il nostro. Un bel libro.

“La sesta stagione”, una grande saga italiana

Silvia Notarangelo
ROMA – “La sinfonia in musica può considerarsi il corrispettivo del romanzo in letteratura”. È partendo da questa singolare riflessione che Carlo Pedini si è cimentato in un originale esperimento nel suo romanzo d’esordio “La sesta stagione” (Cavallo di Ferro), selezionato per il Premio Strega.

Prendendo come modello di riferimento I Buddenbrook di Tomas Mann, l’autore, celebre compositore e direttore d’orchestra, ha tentato di utilizzare nella narrazione la stessa tecnica compositiva della sinfonia, conferendo al racconto una struttura ben definita e tempi e ritmi precisi. Il romanzo, per certi aspetti corale, ed imponente per varietà di temi e personaggi, ripercorre cinquant’anni di storia italiana, dal 1934 al 1985, rievocandone gli eventi principali, le tragedie, i devastanti cambiamenti che hanno interessato anche le più piccole realtà.
Una storia inventata, ma verosimile, che si apre con la grande festa organizzata per l’inaugurazione di un santuario mariano nell’immaginario paesino di Civita Turrita. Qui le vicende di tre seminaristi, Piero, Ottavio, Oreste, si intrecciano con quelle della diocesi e della comunità locale. Diverso è il loro modo di vivere il sacerdozio. Alla freddezza e all’ambizione di Don Ottavio, proiettato ad una brillante carriera ecclesiastica sacrificata per un atto spregevole, si contrappongono l’esuberanza di Don Oreste e il suo ministero vissuto tra la gente, la timidezza e l’insicurezza di Don Piero destinate a riservargli una vita protetta all’interno del vescovado.
La decadenza che, a poco a poco, investe la diocesi di Civita Turrita va di pari passo con la crisi che colpisce la Chiesa: perdita di fedeli, diminuzione delle vocazioni, nascita di nuove correnti religiose. Tutti cambiamenti che non sfuggono alla riflessione conclusiva di Don Oreste: “ Il Concilio è servito solo ad allungare la nostra agonia…se ci saranno dei giusti allora verrà davvero la primavera. Se no guardati bene dalla sesta stagione che sarà ben più terribile della quinta perché non vedrà una settima”.

Un’amicizia per sempre


Silvia Notarangelo

ROMA – Ross ha diciassette anni, scrive racconti di avventura e quando, in uno stupido incidente, perde la vita, i suoi tre amici, Sim, Kenny e Blake decidono che non possono lasciarlo andare così, che merita qualcosa di più di uno squallido funerale. Cercare vendetta verso quanti, negli ultimi tempi, gli hanno reso la vita difficile non basta. Per il loro amico occorre pensare a qualcosa di veramente speciale.
È un’avventura intensa e, a poco a poco, sempre più coinvolgente quella regalata da Keith Gray nel suo nuovo romanzo “Quel che resta di te”, pubblicato da Piemme (collana Freeway).
A raccontare, in prima persona, è Blake, apparentemente il più impacciato e complessato dei tre, in realtà terribilmente determinato e combattivo. Il piano messo a punto dai ragazzi, dopo qualche esitazione, è relativamente semplice: portare il loro amico, o meglio la sua urna, a Ross, l’omonimo paesino della Scozia dove da sempre sarebbe voluto andare. Tutto facile sulla carta, un po’ meno nella pratica. Il furto dell’urna, la preoccupazione dei genitori, la polizia che si mette sulle loro tracce e un inconfessabile segreto che stenta a venire a galla. Saranno due giorni intensi per i tre ragazzi, e non solo per i vari imprevisti con i quali dovranno fare i conti.
Il viaggio sarà un’occasione di riflessione, un momento per guardarsi dentro e ammettere che forse le cose sono un po’ diverse da come si sono immaginate per tanto tempo. I sensi di colpa iniziano ad affiorare, ognuno sente di avere la sua parte di responsabilità ma, come spesso accade, riversa sugli altri le proprie mancanze.
Alla rabbia si unisce un tremendo senso di impotenza. Lo scontro è dietro l’angolo e i tre si dividono. Alla fine del viaggio solo Blake e Kenny si ritroveranno a Ross, su un bordo roccioso, per dire finalmente addio al loro amico.