Silvia Pingitore, “Il disordine delle cose” per le generazioni senza santi in paradiso

il disordine delle cose_pingitore_chronicalibriGiulia Siena
PARMA
– Lucia non aveva mai pensato al suo futuro. Lucia si accontentava di vivere giorno per giorno senza domande e senza richieste tra l’ordine della sua scrivania e le quattro mura di un seminterrato nel centro di Roma con sua madre e suo padre. Lei, come molti, non aveva “santi in paradiso” ma, come pochi, non voleva diventare un’artista, una celebrità, un’attrice, nonostante il suo nome, Lucia Fellini, potesse suggerire – ai suoi coetanei – quel tipo di carriera. Lucia non aveva pretese ma, quando all’ultimo anno di liceo venne presentata l’Università La Speranza, capì che la sua strada era imparare a comunicare! Così, fuori dal tempo, dalle mode e dalla realtà Lucia scelse la sua strada. Lucia, nata dalla geniale penna di Silvia Pingitore, però, rimaneva ai margini di quella vita troppo diversa da lei, fatta di arrivisti, segreti e invidie. Dal suo mondo ordinato e quasi intatto, fermo a decenni che non le appartenevano, nel mondo di Lucia entrò il disordine, Il disordine delle cose.

Pubblicato da La Lepre Edizione, il romanzo di Silvia Pingitore dopo averci presentato la protagonista e il suo mondo ci porta in viaggio: dal crollo dell’Università La Speranza alla Finlandia. Sì, la Finlandia, perché Lucia aveva fatto entrare poche cose nuove nella sua solita vita, tra queste c’era il poema epico Kalavala, il libro “sacro” finlandese incentrato sull’amore per la natura. Come una sorta di ossessione questo libro era uscito dalle aule universitarie ed era entrato nella sua quotidianità, era simbolo, segno e sogno di una speranza che in Lucia si stava destando. Allora per gioco e all’improvviso Lucia partì verso questo nuovo mondo senza sapere per quanto tempo e per quale obiettivo sarebbe stata lontana dalla sua solita vita. Il viaggio alla ricerca di santi in paradiso ha inizio.

 

Silvia Pingitore con ironia e disillusione crea un particolarissimo ritratto di giovani dalle belle speranze. Quello che ne esce è una generazione tradita, insicura, talentuosa, rabbiosa e ormai quasi indifferente. Giovani donne e uomini che partono alla ricerca di qualcosa che nella loro terra gli viene negato. Ma cosa? La possibilità di sperare, ancora?

 

 

“E voi che la guerra l’avevate vista solo in televisione, voi ancora non lo sapevate che di guerra ce ne sarebbe stata un’altra, e che vi avrebbe tolto non il pane ma la dignità. 
Era la guerra fra poveri, era per voi tutti.
Tutti quelli senza i santi in paradiso. 
Proprio come Lucia, che aspettava quell’uomo seduta su una panchina”.

Guerrilla Plantation, il raccolto che ti cambia la vita. O forse no.

StampaGiulia Siena
PARMA “Che strano effetto gli facevano le parole della zia: “E’ proprio un bravo ragazzo!” mentre quelle della nonna gli parevano più appropriate: “Mah, speriamo lo sia diventato, perché da piccolo era proprio un gran lazzarone!”. Paolo è cresciuto; forse anche troppo per essere ancora uno studente universitario, ma Paolo è così: si culla nel suo tranquillo caos fatto di noia, studio (poco), letture (tante), amici (Brizzo), fumo, strambe idee imprenditoriali e una crescente voglia di fare soldi. Per questo Paolo – il protagonista di Guerrilla Plantation, il romanzo di Gianluca Mantelli pubblicato da David and Matthaus – decide che è arrivato il momento di cambiare le cose. Questa è la situazione adatta: il suo piccolo traffico di monete antiche vendute via internet viene di colpo bloccato e la dogana esige un ingente pagamento di tasse. Dove trova i soldi? Come fa a sbloccare la situazione, proprio ora che la sua testa dovrebbe essere impegnata a studiare per l’ennesimo esame di filologia o di linguistica? Arriva, così, una piccola “illuminazione”: perché non sfruttare la malsana passione per la marijuana e fare del suo rifugio di studio, immerso nel verde delle montagne dell’Appennino, la base per la sua casalinga coltivazione di erba? La piantagione cresce, gli affari crescono, l’impresa cresce, tanto che il giro d’affari di Paolo riuscirà a coinvolgere anche Brizzo. Ma gli esami sono lì, la vita continua, le letture trascorrono, l’amore arriva – come una Dea – e scappa, le sessioni passano e la tesi aspetta. Tutto nella quotidianità di Paolo ha un altro ritmo.

 

Guerrilla Plantation è la storia di Paolo, la storia di una passione e la storia di un tentativo. Il tentativo è quello di provare a fare soldi facendo una cosa illegale. Una cosa come tante, del resto. Ma Paolo ci crede, si lascia trascinare, trascina e riesce, in un certo senso, a raggiungere il suo scopo. Guerrilla Plantation, però, è di più. Guerrilla Plantation è la storia di un ragazzo come tanti: annoiato, rallentato e sfiduciato. Per Paolo con questa nuova scommessa arrivano altri stimoli e si aprono nuovi scenari; Paolo per la prima volta non è più lo studente fuoricorso ma è l’uomo che decide di tentare la propria strada – anche se provvisoria – ed è l’uomo che decide di riuscire, comunque e nonostante tutto, nei suoi studi.

Gianluca Mantelli, tra gli altri, ha questo merito; quello di far diventare – attraverso il racconto – uomo un dissennato studente fuoricorso.

 

Vedi QUI la videointervista di ChronicaLibri iTvRome a Gianluca Mantelli, autore di Guerrilla Plantation

Anteprima: Leggi su ChronicaLibri il terzo capitolo de “Il Rintocco”, il nuovo libro di Irene Vella

Irene VellaROMA – Continuiamo la nostra esclusiva con il terzo capitolo del nuovissimo romanzo di Irene Vella, Il Rintocco. In questo capitolo la protagonista affronta coraggiosamente le sue paure, lasciandosi andare ai ricordi e alle emozioni ancora tutte da vivere.
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Terre di Mezzo: Mari Accardi e “Il posto più strano dove mi sono innamorata”

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ROMA
– All’inizio erano Tanya e Big Jim contro Barbie e Ken; poi la goffaggine di Irma contro l’eleganza delle Billeci. Con il tempo arrivarono gli amori sbagliati, le fughe, gli studi e i tanti lavori impossibili. Tutto, nella vita di Irma – la protagonista de Il posto più strano dove mi sono innamorata, il primo libro di Mari Accardi pubblicato da Terre di Mezzo Editore – era un contrasto, un continuo fuggire altrove per avere di più o avere cose diverse. Forse perché Irma, sin dall’inizio, aveva ascoltato suo padre ripetere “Cu niesci arriniesci”: se dalla vita vuoi qualcosa, devi andare via dal posto in cui sei nato. Così Irma si lasciò convincere e dopo aver sancito la sua inadeguatezza per Palermo arrivò a Torino. Da studentessa fuori sede alle prese con la solitudine e la paure Irma – ormai donna – inciampa in amori sbagliati e lavori impossibili. La nostra eroina siciliana viene licenziata da ogni posto di lavoro perché “troppo lenta”; passa, così, da cucinare per una mensa a cancellare foto pornografiche in un sito di annunci. Ed è in questo periodo che conosce Paolo, il decoratore di interni che non ricorda di aver mai baciato, ma con il quale vive ed è fidanzata da mesi. Forse la loro non è una vera storia d’amore, forse perché il loro è stato un incontro troppo normale, mentre, “A quanto pare, secondo un sondaggio di non so quale agenzia, gli amori più importanti nascono in circostanze o in luoghi anomali. E sono quelli che in percentuale durano di più”. Allora Irma è pronta a cambiare di nuovo, per l’ennesima volta, lei cambia rotta: viene licenziata, sale su una mongolfiera e poi vola a Praga con la convinzione di poter prendere in giro il tempo, fermarlo per giocarci e poi rientrare nella sua normalità anonima e viverlo. Perché il tempo, anche se scorre, rimane lì, attaccato a quella linea del telefono che lega Irma ai suoi genitori, alla sua isola, alla sua Palermo… richiamo perenne (quasi un rimpianto) che si accompagna e scontra con la sua certezza di sempre: fuggire.

 

Il posto più strano dove mi sono innamorata è un romanzo breve, intenso e immediato che raccoglie l’essenza di questo periodo incerto. La sua Irma è la giovane donna che vedi allo specchio o che incontri per strada, sul bus o in fila dal medico: tanto forte e determinata quanto nostalgica e indecisa; una donna che rincorre i sogni lontani convinta di cercare un posto nel mondo, un posto che forse non ha pensato di avere già. Una donna, Irma, che attraversa le situazioni e risorge dalle sue sconfitte.

“Come fossi solo”: Srebrenica a tre voci, vent’anni dopo

come-fossi-soloGiulia Siena
ROMA
“Quante volte hanno già vissuto questo momento nei loro incubi? Anni trascorsi sotto le granate, consapevoli che prima o poi sarebbe successo. Adesso che i loro peggiori presagi si sono realizzati, adesso che non possono più sperare in un colpo di scena, in una qualsivoglia via d’uscita, sembrano persi, svuotati dalla loro unica ragione d’essere”. Questa è la guerra in Bosnia. Srebrenica, 1995. Qui l’esercito serbo-bosniaco uccise 8372 persone, un massacro ritenuto genocidio dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia il 19 aprile 2004. Ma partiamo dall’inizio.

 

Dopo quasi vent’anni dalle atrocità avvenute, un giovane scrittore aretino, Marco Magini, decide di tornare ai fatti di Srebrenica e usarli, ricordarli, impastarli nella trama di un romanzo, per entrare, così, nel panorama letterario italiano con un libro di grande impatto. “Come fossi solo”, pubblicato da Giunti – finalista al Premio Calvino 2013 e con buone chance per lo Strega 2014 – è una storia che ripercorre la storia. Tre voci: quella di Drik, casco blu olandese, rappresentante del contingente Onu colpevole di non aver impedito la strage che cerca ogni giorno un motivo per riscattare la sua sensazione di impotenza; quella di Dražen, il soldato “mezzosangue” che non voleva essere un soldato, nato in questa stessa terra, nella parte a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina da genitori croati. E, infine, quella di Romeo Gonzales, magistrato spagnolo di lungo corso che vede questa convocazione da parte del tribunale internazionale per giudicare Dražen come l’occasione per ampliare il suo prestigio personale. Tre voci coinvolte, diverse e distinte che portano avanti il proprio punto di vista per costruire la Storia.

Ognuno di loro è un piccolo tassello nella grande vicenda che prende forma, spettatori inconsapevoli di come le dinamiche della guerra siano ogni volta simili e ogni volta spietatamente sorprendenti. I protagonisti sono attori e marionette, colpevoli e vittime di crimini e ingiustizie, sono coloro che provocano dolore e che ricevono dolore. Sono al fronte. Sono in una guerra. Fino a quando la morte non metterà fine alla guerra.

 

 

Marco Magini era un ragazzo durante la guerra in Jugoslavia. Sapeva di quella guerra come ne sapevamo noi italiani in quel periodo – forse un po’ meno: notizie allarmanti, confuse. Dopo vent’anni Magini ha voluto approfondire quel periodo storico e ripercorrere con una scrittura lineare e asciutta – forse alle volte dando per scontato un po’ troppe cose – il genocidio di Srebrenica. Ma “Come fossi solo” non è un libro storico – devi già conoscere i fatti storici per leggere con consapevolezza il libro – è un romanzo in cui viene data voce ai personaggi e alle loro emozioni; alle difficoltà, le paure, le ansie e le oppressioni di chi sta dalla parte del più forte temendo, comunque, gli eventi.

 

 

Il Grande Gatsby: Fitzgerald, l’amore e un po’ di Scotch.

Marianna Abbate 

ROMA – La cosa più bella dei romanzi di Fitzgerald è che non si capisce proprio dove voglia andare a parare. Stai lì a pagina 1 tra le luci soffuse, a pagina 15 ad un barbecue party, a pagina 50 provi un filo di perle, e ancora non hai capito che cosa stai cercando. A pagina 75 sorseggi whiskey e cominci un pochino ad agitarti perché c’è qualcosa che proprio non quadra. Poi ci ripensi bene e ti ricordi che già a pagina 30 avevi avuto la stessa sensazione, ma era stata offuscata dal desiderio di capire come sarebbe andata a finire quella discussione tra quei due nell’angolo della sala.

E quando succede il patatràc, perché con Fitz è garantito, tu non te lo aspettavi proprio. Perché della narrazione cambia improvvisamente e ti ritrovi intricato in un vortice di avvenimenti incomprensibili e repentini da far girare la testa e pensare: “lo sapevo, lo sapevo”. E invece non sapevi proprio niente.

Un’altra cosa bella di Fitzgerald è che da delle indicazioni estremamente precise. Il lettore non ha tanto spazio per l’immaginazione, perché è lo scrittore stesso a dipingere con esattezza quel lampadario, quell’abito, quell’atmosfera. Ogni sorriso e ogni sguardo hanno una loro posizione tanto che sei costretto a visualizzare esattamente quello che l’autore aveva in mente. Probabilmente molti di quelli che andranno a vedere il film in uscita al cinema il 16 maggio, penseranno: “come ha fatto il regista ad entrare nella mia testa?”. Niente di più sbagliato, siamo noi lettori fissi e attenti dentro la geniale e affascinante testa di Fitzgerald.

Ora trovo veramente inutile soffermarmi sulla trama, dal momento che c’è una bella pagina Wikipedia dedicata all’argomento. Vi parlerò invece della caratterizzazione dei personaggi, che trovo essere un altro notevole punto di forza dell’autore.

Qui serve una breve ma indispensabile nota di gossip letterario: Francis Scott era sposato con tale Zelda, donna affascinante e moderna, ma nel contempo molto instabile. I Fitzgerald conducevano una vita festaiola e sregolata, amavano dare scandalo e sconvolgere il pubblico dei grandi party. Sembra che i loro eccessi siano gli stessi descritti dallo stesso Fitgerald in “Belli e dannati”, memorabile romanzo sull’ascesa e sulla caduta di una giovane coppia (riconducibile facilmente all’autore e alla moglie), ai tempi del ragtime.

Sono proprio i coniugi Fitz l’emblema dei Ruggenti Anni Venti. Questa profonda conoscenza della vita sociale dell’epoca, di cui l’autore non fu solo protagonista assoluto, ma spesso regista, porta lo scrittore a restituire diversi piani di interiorità dei suoi protagonisti. Solitamente i suoi uomini e le sue donne sono identificabili attraverso una stratificazione di emozioni, celate dietro maschere cerulee e brillanti, dietro sorrisi e complimenti di circostanza.

Sepolcri imbiancati, lucidati e carichi di brillantina.

E per finire consigli per gli acquisti. Esistono infinite edizioni di questo romanzo, oltre a quella Mondadori in foto: ultimamente lo potete trovare a 0,99 cent. della Newton Compton (per la verità i caratteri sono un po’ piccolo, quindi dotatevi di buoni occhiali).

 

“Heartland”, continua lotta metropolitana

ROMA –  “Suo padre aveva firmato qualche autografo sui volantini con le formazioni o su fogli sparsi, non parlava quasi, non ce n’era bisogno. Aveva fatto il calciatore, Rob lo sapeva, da giovane aveva giocato con i Lupi del Wolverhampton, poi si era infortunato ed era andato a lavorare come tutti i papà. Fino a quel giorno non gli era sembrata una cosa importante.” Ma Rob crescendo impara che le cose importanti ci sono e una di queste è la lotta alla xenofobia; un tunnel nel quale la città di Dudley sembra essere risucchiata. Anche se Rob volesse essere altrove, per esempio con Jasmine, Adnan o Andre, Rob sa che alla partita di calcio tra Cinderheath Fc e la compagine musulmana di Dudley, la sua città, ci deve essere. E’ in questo distretto siderurgico delle West Midland, infatti, che Rob è cresciuto, ha cominciato a giocare ed è diventato insegnante. Ma lui, questa partita non ha voglia di giocarla. Rob è il protagonista di “Heartland”, il romanzo di Anthony Cartwright pubblicato da 66than2nd.

Siamo nel 2002 e l’Inghilterra di Backham sfida l’Argentina di Veron; la sfida calcistica è la metafora della lotta intestina che sta attraversando la provincia britannica. Negli anni, la periferia delle città del Regno Unito sono diventate il centro dell’insofferenza multietnica e in questa partita che divide bianchi e neri della stessa città Rob vuole capirci di più. Schierato nelle fila dei bianchi, il protagonista del romanzo si trova ad affrontare Zubair, il fratello dell’amico scomparso Adnar.
“Heartland” è il romanzo «più manifestamente politico» di Cartwright. Infatti, “quest’urlo narrativo” dello scrittore manovale (data la sua lunga gavetta lavorativa) lo annovera di diritto nella grande famiglia del realismo sociale inglese (in compagnia di autori come Alan Sillitoe, David Storey e Roddy Doyle) ma il suo tributo maggiore lo versa all’impulso documentaristico di James Ellroy e alle vertigini stilistiche di Don DeLillo.

 

«Tutti i romanzi, per quanto realistici, sono sempre e comunque opere di fantasia»

“Lasciami andare”, perché io possa tornare

Marianna Abbate
ROMA  Una figlia che conosce solo suo padre. Una vita avvolta in un velo di maya che nasconde segreti e a volte scopre mezze verità. E’ questa la storia al centro del romanzo di Fulvia Degl’Innocenti “Lasciami andare”, pubblicato da Fanucci.

16 anni, già da soli bastano perché una ragazza abbia dei dubbi generici sull’esistenza propria, sul mondo e sui genitori. Ma quando ai timori adolescenziali si aggiungono alla misteriosa nostalgia materna e vengono stimolati da una sospetta e rabbiosa tristezza dell’unico genitore conosciuto, ecco che la macchina del cervello si accende. Bisogna sapere, bisogna scoprire. Il desiderio di conoscenza spinge oltre ogni confine, calpesta ogni lealtà. Diventa sete. Tanta è l’arsura da insinuare il più terribile dei sospetti.

Eleonora si ritrova tra carte, persone e storie che non le appartengono, ma che l’hanno vista protagonista ancora in fasce. E così, la ragazza accompagnata da un fedele amico, sulle tracce del proprio passato, come un detective, si trova in mezzo ad un mondo che non è il suo, a storie che non avrebbe dovuto sapere e a emozioni che non avrebbe dovuto mai provare. Ma solo toccando con mano questo mondo da cui era stata esclusa, potrà ritrovare la serenità, la fiducia e sentirsi un po’ meno sola.

Commovente questo romanzo, un racconto di formazione. Quello che mi ha colpito di più è l’atemporalità dei sentimenti, delle emozioni e dei sospetti. Una scrittura realistica e introspettiva, che mostra il quotidiano nella sua oggettività, spiegando nel contempo la relatività nella ricezione personale dello stesso.

 

 

Sapete fare il gelato? Una ricetta bonus in un racconto tutto da scoprire.

ROMA – Una grande amicizia, un grande sogno, una grande impresa. è questo il senso di Grom. Storia di un’amicizia, qualche gelato e molti fiori, il racconto di una delle più incredibili storie italiane degli ultimi anni. è l’avventura di due ragazzi, un manager e un enologo, che inseguendo un sogno allo stesso tempo semplice e rivoluzionario – fare il gelato più buono del mondo – partono da un negozietto di 25 metri quadrati a Torino e, in pochissimi anni, selezionando le migliori materie prime nei cinque continenti, rinunciando a utilizzare additivi e coltivando la frutta biologica nell’azienda agricola Mura Mura, creano un gelato di altissima qualità che li impone come marchio di eccellenza sulla scena del food internazionale. Un’avventura raccontata in prima persona, con una scrittura giovane e ironica, come giovani e spiritosi sono Federico (Grom) e Guido (Martinetti), i due protagonisti. Una storia sorprendente e affascinante, come la strada che da quel primo negozietto di Torino li ha portati fino a Malibu, New York, Osaka, Parigi e Tokyo. Fresca e gustosa, come i sapori di un gelato unico e indimenticabile.

Federico Grom e Guido Martinetti, 39 e 37 anni, sono nati e hanno studiato a Torino. Manager il primo, enologo il secondo, hanno dato vita nel 2003 a Grom – il gelato come una volta. Sono un po’ matti e, a parte questo libro e qualche ricetta, non hanno mai scritto nulla… ma fanno un ottimo gelato! (Grom. Storia di un’amicizia, qualche gelato e…, Bompiani, 2012, €17.50)

 

“Andrà tutto bene”… speriamo

Marianna Abbate

ROMA – Frasi brevi, concitate, un po’ nervose e annoiate. E’ un blasè il protagonista del romanzo d’esordio di Stefano Iannaccone edito da La Bottega delle Parole. Un ragazzo, che negli anni ’50 sarebbe stato uomo da un pezzo, e che invece nei nostri tempi vive in quel limbo molle di adultescenza, precaria e instabile. “Andrà tutto bene” è il titolo del libro, da ripetere come un mantra. Perché cos’altro potrebbe andare male, in questa Roma che da fuori potrebbe davvero sembrare dalle mille possibilità (come recita la quarta di copertina), e che invece non è altro che un enorme buco nero dove talenti e sogni scompaiono e muoiono come in un pozzo.

“Prenderò il treno e via, ciuf ciuf, verso il successo (…) Non posso fallire”. I pensieri del protagonista riflettono con dolorosa precisione i pensieri di centinaia, migliaia di ragazzi di questa maledetta Generazione mille euro. Grandi sogni, ottima educazione, molta esperienza e nessuna prospettiva.

Niente di nuovo di questi tempi, eppure c’è qualcosa che attrae. Una scrittura audace, ironica, a tratti acida. Un pochino frustrata. Ma sicuramente corretta scorrevole e attraente. Un romanzo da leggere tutto insieme, presi dalla curiosità sul destino di questo aspirante scrittore, protagonista e forse alter ego dell’autore. Soprattutto dopo aver appreso dall’introduzione che Iannaccone si è presentato in bermuda per il colloquio di lavoro. E che grazie al suo talento è stato assunto, nonostante le apparenze e le mancate raccomandazioni.

Una speranza, tutto quello che ci serve.