“Pronto in tavola”, le ricette direttamente in cucina

ROMA Aliberti porta in libreria “Pronto in tavola”, il nuovissimo libro di Cecilia Lombardini. Gli impegni dentro e fuori casa rischiano dì farci trascurare il piacere di cucinare e di gustare un pranzetto fatto con le nostre mani. L’autrice dì questo libro ci viene in soccorso con una serie, di ricette gustosissime, molto facili e veloci da preparare. Dall’antipasto al dolce i trucchi per un alimentazione varia e sempre buona, per tutta la famiglia, dai più piccoli ai più anziani. Lo speciale formato di questo libro vi permetterà di consultare le ricette mentre cucinate: mettetelo in piedi sul tavolo formando una v rovesciata con la copertina e cominciate a sfogliarlo come un calendario fino a trovare la ricetta che fa per voi.

“Ho sempre avuto una passione grandissima per la cucina, lo faccio spesso e volentieri perché mi diverto. Però, lavorando, il tempo è sempre poco. E così, visto che mettersi ai fornelli è obbligatorio, ho pensato di condividere questa passione con le mie figlie di sette e dieci anni”.

“Le nausee di Darwin”, quando il precario scopre la natura.

Marianna Abbate
ROMA – Sulla scia della mia precedente recensione, continuo a leggere e a scrivere di un argomento entrato ormai a far parte dei classici della letteratura degli anni ’10: il precariato. Questo leitmotiv ha ormai consolidato la sua posizione nelle conversazioni e nei telegiornali, al punto tale che non mi metto a spiegare nulla- perché sono convinta che ne sappiamo tutti abbastanza.

“Le nausee di Darwin” di Giordano Boscolo, edito da Autodafè, ci racconta un volto un pochino diverso del precariato. Quello che ha il volto di un laureato nelle scienze esatte, e per la precisione in biologia. Il dottore, dopo essersi sottoposto alla solita e sfiancante trafila di lavori temporanei e spesso umilianti, accetta di partire da Chioggia con un peschereccio- per avere almeno l’illusione di lavorare nel proprio mestiere. Le giornate passate in barca, le nausee eponime, e gli sfottò dei pescatori, lo aiuteranno a crescere e a ritrovare se stesso, e forse anche la strada da seguire- come ogni eroe romantico che si rispetti.  E scoprirà che i due mondi che sembravano davvero inconciliabili, esistono sotto lo stesso cielo (in un finale un poco nostalgico e timidamente patetico).

Ma il bello sono le riflessioni, i pensieri che riguardano lo stato sociale del precariato: “puttane diplomate”, disposti a fare tutto quello che ci chiedono, purché ci paghino. Prostituiti per l’affitto della doppia, per la ricarica del cellulare, per quella pizza con gli amici. Perché di più non possiamo neanche sognare.

L’autore non è il solito giovane laureato, ma un tuttofare della cultura, appassionato di cinema. E forse per questo il suo libro è pieno di immagini- di scene che hanno un grande impatto sulla nostra mente.

“Saremo Alberi”, apriamo le porte alla primavera

ROMA – “Disegnare gli alberi srotolando una corda…”
Ottimo libro per salutare la primavera appena arrivata. Per i bambini è in libreria “Saremo Alberi” di Mauro Evangelista, il nuovo libro delle edizioni Artebambini. Nella terra dormono tantissimi semi che attendono di svegliarsi. Se proviamo a chiedere quale albero sperano di diventare ed ascoltando con attenzione, riusciremo a sentire le loro risposte. Sulle pagine del libro si manifestano allora i desideri e le speranze di questi piccoli semi. Saranno alberi forti – magri – tristi – eleganti… ognuno con la sua particolare forma ed anche il suo particolare… carattere! Le immagini del libro nascono dalla manipolazione di una piccola corda. I fili intrecciati si dipanano e si allargano disegnando una figura che si sviluppa seguendo un processo di crescita simile a quello degli elementi del mondo vegetale. Una storia che ci parla con semplicità dell’infinita bellezza del mondo ma anche dell’importanza delle differenze regalandoci una sorpresa finale: una pagina-laboratorio su cui far crescere il nostro albero da far vedere e… toccare! .

ChronicaLibri intervista Adriano Marenco

 

Alessia Sità

ROMA – ChronicaLibri ha intervistato Adriano Marenco, autore de La palude e la balera pubblicato da Edizione Progetto cultura. Le risposte dirette e sincere lasciano intravedere la notevole profondità intellettuale di questo abile e attento ‘osservatore’, che con straordinaria capacità narrativa è riuscito a descrivere minuziosamente il triste degrado sociale che affligge il nostro tempo.
Come è nata la ‘metafora’ de “La palude e la balera”?
Quale metafora? È una foto interiore della realtà. Premesso che per me è sempre molto complicato parlare de la Palude tenterò, ma mi dissocio da subito dalle mie risposte. Le cose che scrivo nascono da un’immagine, una parola, una frase, un calzino abbandonato per strada. Poi pian piano mi colmo di sensazioni e idee. La verità è che spesso non so bene dove andrò a parare. Io cerco di liberare tutte le energie che mi han caricato e il tutto pian piano prende forma. Non faccio una scaletta. O meglio la mia scaletta è la vita che cerco di trasformare in una vita al cubo. Io voglio parlare al lettore su più livelli, voglio lasciare un segno dentro, qualcosa che lasci un senso di inquietudine, smarrimento, un cavolo è vero è così! perché sto parlando di quello che c’è dentro e fuori di noi. Cose che magari non siamo in grado di vedere e le abbiamo proprio sotto il naso.
Fin dalle prime pagine del tuo libro emerge subito un disagio esistenziale e un senso di straniamento logorante,  che inevitabilmente lasciano il lettore attonito e senza parole. Credi che una situazione come quella da te descritta nella palude esista realmente oggi?
La Palude è uno stato interiore ed esteriore. È ovviamente il mondo, in senso iperrealistico, che ci circonda. È il plagio dell’anima. È la rottura prolungata. È la realtà scavata fino a non trovarne il cuore. Perché semplicemente non c’è. La palude sono le forze che ci spingono a perdere la memoria, ad abbrutire e semplicizzare il linguaggio, che ci incitano a concepire sogni irrealizzabili e penosi.
La Balera rappresenta una speranza per i reietti della Palude, mentre per le persone normali sembra essere un vero incubo. Perché?
La Balera è una speranza ridicola per quelli della Palude, e nonostante ciò alla fine neanche quella è concessa. Accidenti una birretta gelata e qualche canzone d’amore. Che sarà mai. Le persone normali non esistono. O si è nella palude, al massimo nella balera, oppure si vive in uno status quo mediatico e militarizzato.
Esiste oggi una balera?
Fisicamente la balera è uno stato intermedio tra il mondo di fuori e la palude. È quello che capita quando tenti di recuperare la memoria o il linguaggio. Cose proibite insomma. Bè, certo esiste. Quando vieni da fuori è in fondo la lotta per mantenere vivo il pensiero. Poi o scendi a patti oppure scendi ancora più giù.
Quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Se intendi il mio futuro a ‘120 secondi di distanza’, l’unico futuro che si può concepire nella palude è non essere licenziato. Se invece parliamo di giorni interi, finire la piéce su Don Verzé.

 

VerbErrando, cronaca delle parole: la Poesia

ROMA – “Non ho mai saputo

lasciarmi portare

da ciò che avrebbe potuto essere bello

e ho resistito senza sapere

senza capire perché

con tutte le mie forze

contro…la gioia.

Ho dovuto soffrire senza ragione

per me

per lamentarmi

per avere qualcosa su cui piangere.
Adesso, ho così ben scavato

con le mia lacrime la fossa

che posso davvero seppellirmici.
Eppure credo di aver amato da lontano

tante cose diverse

ma sempre mancava qualcosa

Un sapore di sogno

un po’ d’incanto

perché bisognava soffocare

i ricordi teneri.”
Marie-Jo Simenon era la figlia di George. George scriveva. Lui inventava personaggi a cui affidava compiti importanti, tipo cercare gli assassini, rincorrere i delinquenti, far innamorare donne misteriose, conquistare città inarrivabili all’altro capo dell’oceano. Seppe inventare tutti i tipi di uomo, ma non quello giusto per Marie. Così lei morì.
Il 19 maggio 1978 si sparò un solo colpo con una calibro 22 e tutto finì. Gli echi delle corde della sua chitarra, le lettere al padre, le poesie, le parole alla rinfusa scritte su carte di fortuna… niente più niente… il suo niente… così vuoto di esseri… così pieno di sé… di se… lei era una mongolfiera che proprio non riusciva a volare. Eppure voleva. Lei viveva lo struggimento di sapere che la vita non ha fine e che vivere è arduo ovunque. Natsume Sōseki lo diceva.
“È difficile vivere nel mondo degli uomini.

Quando il malessere di abitarvi s’aggrava,

si desidera traslocare in un luogo in cui la vita sia più facile.

Quando s’intuisce che abitare è arduo,

ovunque ci si trasferisca,

inizia la poesia…”.

Nel 1906 scriveva “Guanciale d’erba” e dipingeva ad acquerelli l’essere poeta… un destino che non ha niente a che fare con la vocazione o l’ambizione… il poeta è un essere per il quale “Completare è diminuire”. “ Non guardo nulla. Ma proprio perché sul palcoscenico della mia coscienza non si muove nulla che sia rivestito di un colore sgargiante, riesco a identificarmi in qualsiasi cosa. Eppure mi sto muovendo. Né dentro né fuori da esso. Tuttavia mi muovo […] Se proprio mi si costringesse a spiegarmi, affermerei che il mio animo vibra con la primavera.” Il poeta… un uomo, “… un uomo che, avendo limato da questo mondo quadrangolare un angolo chiamato buon senso comune, vive in un triangolo”. Questo fu anche Nazim Hikmet, nato a Salonicco quando era ancora Turchia, russo di adozione… passò tutta la sua vita lontano. Lontano dalla sua donna, lontano da suo figlio, lontano dalla sua terra… lontano dal carcere, lontano dalla morte. Lontano… solo… visse in amore. Scrisse d’amore. Per la libertà di cui si fece bandiera, per le donne, per la vita, per la meraviglia, per il potere del divenire, del cambiamento, del rinnovamento “Il miracolo del rinnovamento / mio cuore / è il non ripetersi del ripetersi”. Vivere, osare, assumersi il rischio di essere audaci, perché la vita non è uno scherzo…
“…Prendila sul serio

come fa lo scoiattolo, ad esempio,

senza aspettarti nulla

dal di fuori o nell’al di là.

Non avrai altro da fare che vivere.

La vita non è uno scherzo.

Prendila sul serio

ma sul serio al punto tale

che messo contro un muro, ad esempio, le mani legate

o dentro un laboratorio

col camice bianco e gli occhiali

tu muoia affinché vivano gli uomini

gli uomini di cui non conosci la faccia

e morrai sapendo

che nulla è più bello, più vero della vita.
Prendila sul serio

ma sul serio al punto tale

che a settant’anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli

ma perché non crederai alla morte

pur temendola,

e la vita sulla bilancia

peserà di più.”

 

Gente così muore una volta sola, e quando lo fa non è nemmeno per sempre. Invece noi? Noi che non siamo audaci se non in apparenza, noi che non abbiamo ricevuto lezioni di educazione sentimentale, che non conosciamo le geografie delle nostre emozionalità, che non combattiamo se non per il nostro pasto, noi, chi siamo noi?
Che la poesia sia con noi e con il nostro spirito. Che questa primavera ci aiuti a transitare… verso il risveglio o il lento abbandono… comunque verso un qualche dove. Che questo transitare sia in poesia, in divenire… di desideri inespressi, di giochi mai iniziati, di incontri al buio, di avviamenti, di raccordi… …che questa primavera sia vita, amici! Che questa primavera sia vita!

 

21.03.2012
Giornata mondiale della poesia.
Morte di Tonino Guerra.
Primo giorno di Primavera.

 

George SimenonMemorie Intime (ed. Adelphi)
Natsume Sōseki Guanciale d’erba (ed. Neri Pozza)
Nazim HikmetPoesie d’amore (ed. Mondadori)

 

Veruska Armonioso per ChrL.

“Il lebbroso della città di Aosta”: la solitudine d’un uomo escluso

Giulio Gasperini
ROMA – “Torre dello Spavento”. Così era chiamata una delle torri che modellano il profilo contro il cielo della città di Aosta. Cambiò il suo nome in “Torre del Lebbroso” quando, comprata nel 1773 dall’Ordine Mauriziano, vi fu rinchiusa una famiglia ligure affetta da lebbra, affinché non entrasse in contatto con la cittadinanza aostana. L’ultimo a morire fu Pietro Bernardo Guasco: fu lui il modello per la figura de “Il lebbroso della città di Aosta” (“Le lépreux de la cité d’Aoste”), racconto edito nel 1817 da Michaud, a Parigi, e scritto da François-Xavier de Maistre, artista e personalità poliedrica, nato in Savoia. Lo scrittore conobbe personalmente il malato, ricreando codesta particolare situazione anche nella finzione narrativa: sicché “il lebbroso” dialoga con un soldato che, per caso, durante la Campagna delle Alpi (1797), si trovò a passare da Aosta e, per incauta curiosità, penetrò nel proibito giardino, sorprendendo un uomo respinto dal mondo.
Il malato viveva segregato tra le mura della sua torre, coltivando il suo giardino e cercando di rendere quella sua prigione il più bel angolo di mondo. Ma non si può essere felici in una prigione, con il peso dei propri dolori addosso, nel totale silenzio di voci e di confidenze; non ci si riesce quasi mai. L’unico affetto del lebbroso fu, per un periodo, la sorella, perché anche lei affetta dal medesimo virus. Il rapporto con lei era complesso e difficile: entrambi si amavano, ma riuscivano con estrema difficoltà a dimostrarselo. Era un sostegno fatto di piccoli gesti, di preghiere incessanti ma private, di dimessi sguardi e attenzioni premurose. Rimaneva, comunque, la difficoltà di superare il dolore, di vincere lo scoramento, di non lasciarsi sopraffare dall’assurda e inspiegabile domanda sul perché proprio a loro fosse toccato quel calvario.
È un racconto prezioso, quello di Xavier de Maistre. Perché ci fa riscoprire una scrittore brillante e dal suo tono tipico e particolare: è un racconto sulla solitudine e sulle sue complesse sfaccettature, perché dimostra come si possa essere violentemente soli anche in compagnia ma come, nel contempo, sia così difficile trovare una compagnia che colmi effettivamente la solitudine. Perché la solitudine non è soltanto quella fisica, quella della separazione, della segregazione, dell’allontanamento; la solitudine è anche quella più intima, quel senso di vuoto che difficilmente si colma, che lascia sempre voragini nella coscienza e che non permette, alla fine, di farsi conoscere come uomini completi. L’esclusione fa inasprire l’uomo e il grido di dolore del lebbroso è quello che provano tutti i reietti di una società ipocrita e superficiale: “Io non ho mai suscitato null’altro che la compassione!”; sicché l’esclusione diventa sconfitta, sia per chi la provoca che per chi la subisce.
De Maistre ci parla dell’isolamento, della fatica nel sopportarlo, della difficoltà dell’amore, della tristezza che si prova a sentirsi esclusi per una causa che non dipende dai noi stessi, ma per un accidente che nessuno vorrebbe attirare su di sé. Xavier ci parla di un’amicizia che dura il tempo di un dialogo; ci parla di un rapporto che si chiude con lo scatto di una serratura e che pare lasciare vuoti e soli più della solitudine furiosa.

Scoprire il buon profumo dei libri nei book shops di New York

Stefano Billi

NEW YORK – Sono pochissime quelle librerie che ancora possiedono un fascino naturale e il buon profumo della carta. Sparuti vegliardi dislocati dove meno te l’aspetti, negli angoli di strada sconosciuti, quelli che prendi per sbaglio.
A New York – sulla Broadway avenue, incrocio con l’82ma strada – esiste un posto così, chiamato “Westsider Books”, caratteristico per il suo colpo d’occhio inconfondibile.

Le pareti sono nascoste da altissimi scaffali, inzeppati di libri vintage, soprattutto testi dello scorso secolo, provenienti da quasi tutto il globo.

Letteratura nordamericana, asiatica, europea, si fondono in un crogiolo di lingue che raccontano migliaia di storie.

Già oltre la soglia dell’entrata sale su dallo stomaco un tipo di fame strana, che fa dimenticare l’orario e le chiamate al cellulare e tutto il mondo che sta fuori. L’appetito dell’arte, a cui non basta una vita intera per essere sazio.

I polpastrelli si asciugano sulla carta invecchiata, sulle stampe d’annata, tra le rilegature che si sono arrese al tempo già da tempo.

E ci si sente a casa quando, tra una scorribanda ed un altra in mezzo alle copertine, appare fulgida una copia della Divina Commedia, o un romanzo di un grande scrittore italiano.

Migliaia di titoli stipati in uno spazio piccolo, accogliente, caldo. Un ventre materno della cultura, che avvolge ogni lettore tra le miriadi di fogli di carta e di inchiostro.

Quando arriva il momento di uscire, che nessuno ti aspetta perché sei andato da solo, visto che la maggior parte di eventuali accompagnatori si sentirebbe soddisfatta solo a guardare la vetrina e a dire: «guarda quanti libri usati!», provi la stessa sensazione del risveglio da un bel sogno, dove ci si sforza di ricordarne i particolari, perché i primi minuti della colazione sono in agguato per rubarteli.

Durante il ritorno a casa magari capiterà di incrociare invece una grande libreria, dentro ad un centro commerciale, stracolma di una folla che aspetta lo scrittore famoso di turno per una sigla sul libro appena comprato, dotata di scale mobili e libri sul “fai da te” e giochi da tavolo, insaporita dall’odore di una caffetteria interna che sforna brodaglie annacquate, e poltrone così larghe che più che aiutare la lettura sembrano invogliare un pisolino.

Magari capiterà pure di “fare un salto” in questa libreria così moderna, giusto per dare un’occhiata, appena il tempo per rendersi conto di come all’interno ci sia troppo, e fa capolino una debolezza alle gambe, sebbene siano passati solo quindici minuti dall’ingresso.

Neanche qualche ora fa, invece, si è stati in piedi a lungo, estasiati, leggeri.

Eppure non servivano nemmeno un caffè, in quell’antico book shop. C’era solo un buon profumo di carta.

Giunti: “La prova del cuore. Le mie ricette, la mia passione”

ROMA “La prova del cuore. Le mie ricette, la mia passione”, il nuovo, nuovissimo libro di Giunti in collaborazione con Rai Eri. Cristian Bertol, chef e proprietario del ristorante “Orso Grigio” in Val di Non (Trentino), una stella Michelin, è un personaggio molto noto in televisione, amato e conosciuto da tutto il pubblico della “Prova del cuoco”, a cui partecipa dal 2007. Il volume contiene 60 ricette – molte tra quelle presentate alla “Prova del Cuoco” – illustrate con foto di alta qualità, precedute da un’ampia introduzione sullo chef e sulla sua attività. Introduzione di Giovanni Mosna.

Novità TEA: “Pesca con la mosca”

Silvia Notarangelo
ROMA – L’ex magistrato, Gianni Simoni, non tradisce le aspettative nel suo nuovo giallo dal titolo “Pesca con la mosca”, pubblicato da TEA. Una storia appassionante, una vicenda intricata in cui le indagini, proprio quando sembrano vicine ad una svolta, sono invece prontamente smentite da repentini colpi di scena.

Protagonista, ancora una volta, la squadra mobile di Brescia con il commissario Miceli, “la discrezione fatta persona”, e i suoi fedelissimi collaboratori. All’appello non può, ovviamente, mancare il giudice Carlo Petri che, nonostante una pensione anticipata, continua a restare un insostituibile punto di riferimento.
Ed è proprio lui, un pomeriggio d’estate, l’artefice di una “pesca” che, certo, non può dirsi miracolosa. Il cadavere di una bellissima ragazza riaffiora dalle acque tranquille di un ruscello dove Petri si è recato con la speranza di portare a casa qualche trota di montagna. Inevitabile l’intervento del giudice che, dopo aver condotto a riva il corpo, si precipita a chiedere aiuto.
È la punta di un iceberg, la miccia che innesca una serie di omicidi in cui sono misteriosamente coinvolti tre sacerdoti ed un medico. Ma se per Don Carrino, la prima vittima, si giunge abbastanza rapidamente ad un’ipotesi che sembra plausibile, non altrettanto può dirsi per le altre tre.
Le indagini brancolano a lungo nel buio, le ricerche e i primi riscontri non danno i risultati sperati, la reticenza o la paura prevalgono. L’interrogativo su cui si concentra il lavoro della squadra è essenzialmente uno, scoprire che cosa lega le quattro vittime ed individuare chi può avercela con loro, al punto da trasformarsi in uno spietato assassino. Per la morte di Don Carrino i sospetti ricadono subito sul fidanzato della ragazza, Enrico Beni, un giovane bravo e onesto che il dolore e la rabbia potrebbero aver reso un terribile omicida. La pista, però, viene in parte abbandonata, complice il fatto che il Beni si trova già in carcere quando vengono compiuti gli altri delitti. A questo punto non resta che ripartire da zero, indagare sul passato delle vittime, capire chi può aver acquistato quella 6,35 dalla quale sono partiti i quattro proiettili letali. La verità è più vicina e, forse, anche più scontata di quanto si creda. E saranno nuovamente le intuizioni di due donne, l’ispettrice Grazia Bruni e Anna, la moglie di Petri, a dare un contributo decisivo per la soluzione del caso.

“Andrà tutto bene”… speriamo

Marianna Abbate

ROMA – Frasi brevi, concitate, un po’ nervose e annoiate. E’ un blasè il protagonista del romanzo d’esordio di Stefano Iannaccone edito da La Bottega delle Parole. Un ragazzo, che negli anni ’50 sarebbe stato uomo da un pezzo, e che invece nei nostri tempi vive in quel limbo molle di adultescenza, precaria e instabile. “Andrà tutto bene” è il titolo del libro, da ripetere come un mantra. Perché cos’altro potrebbe andare male, in questa Roma che da fuori potrebbe davvero sembrare dalle mille possibilità (come recita la quarta di copertina), e che invece non è altro che un enorme buco nero dove talenti e sogni scompaiono e muoiono come in un pozzo.

“Prenderò il treno e via, ciuf ciuf, verso il successo (…) Non posso fallire”. I pensieri del protagonista riflettono con dolorosa precisione i pensieri di centinaia, migliaia di ragazzi di questa maledetta Generazione mille euro. Grandi sogni, ottima educazione, molta esperienza e nessuna prospettiva.

Niente di nuovo di questi tempi, eppure c’è qualcosa che attrae. Una scrittura audace, ironica, a tratti acida. Un pochino frustrata. Ma sicuramente corretta scorrevole e attraente. Un romanzo da leggere tutto insieme, presi dalla curiosità sul destino di questo aspirante scrittore, protagonista e forse alter ego dell’autore. Soprattutto dopo aver appreso dall’introduzione che Iannaccone si è presentato in bermuda per il colloquio di lavoro. E che grazie al suo talento è stato assunto, nonostante le apparenze e le mancate raccomandazioni.

Una speranza, tutto quello che ci serve.