“La cucina di Roma e del Lazio”

ROMA – Pubblicato da poco più di una settimana da Guido Tommasi Editore, “La cucina di Roma e del Lazio” di Maria Teresa Di Marco, è un libro che ha tutte le basi per arrivare lontano.
La cucina di Roma e la cucina del Lazio si vivono accanto, si mischiano, si sommano, diverse ed uguali, una sola e pure anche tante. Perché è certo che tutte le strade portano a Roma, portano genti, portano merci, tradizioni e panieri. L’erbe dei vignaroli, gli abbacchi dell’agro, l’olio della Sabina, le olive di Gaeta e poi carciofi, nocchie, pecorino e ricotta a nutrire il mercato della città che vive in eterno.
Dietro Roma c’è dunque la sua terra; dentro Roma la cucina popolare che da sempre bada alla sostanza, al sapore, al prodotto. L’amatriciana rossa di sugo vuole il guanciale, la coda alla vaccinara la pazienza, il brodo di teste di pesce e quello d’arzilla l’ingegnosa caparbietà di ottenere tutto dal niente. Ed è una magia, che funziona solo qui, questo universo dove tutto sta insieme: la cultura ebraico-romanesca, il quinto quarto testaccino, la cucina dei pastori e quella degli orti. La pancia di Roma è grande e sincera, ma più stratificata e complessa che a immaginarla da fuori. Occorre calarcisi dentro, che sia al mercato o all’osteria, in cerca di sapori, di chiacchiere, e profumi, di facce e di gesti, senza scordare mai che Solo a Roma ci si può preparare a comprendere Roma (Goethe).

“Tutto iniziò con un calice spezzato”: il mistero del giallo “sempreverde”

Luigi Scarcelli
PARMA
“Tutto iniziò con un calice spezzato” di Selwyn Jepson è un giallo proveniente da quella che potremmo definire la belle époque di questo genere di romanzo. Edito per la prima volta nel 1930, viene oggi riproposto dalla Polillo Editore all’interno della sua linea I bassotti, che ha l’intento di portare alla luce manoscritti misconosciuti o finora inediti in Italia appartenenti al cosiddetto genere giallo.

La storia si svolge durante il primo dopoguerra ad Eastblyth , un tranquillo paese della campagna inglese, in cui John Arden, eminente sociologo ed esperto conoscitore del luogo e delle genti che vi abitano, organizza delle cene in compagnia dei suoi vicini, personaggi tutti appartenenti all’alto rango della società. Una di queste cene viene interrotta da un proiettile che, entrato dalla finestra della sala da pranzo di casa Arden, sfiora il padrone di casa rompendo il calice che egli aveva in mano.

A questo agghiacciante e misterioso tentativo di omicidio seguiranno altri delitti, tutti a scapito dei commensali di quella famigerata cena. John Arden prenderà parte alle indagini coadiuvato dall’eminente criminologo George Jupp e dall’ispettore English.
Il finale lascerà sicuramente di stucco e soddisfarà anche il lettore più difficile ed esperto del genere.

A quasi novant’anni dalla sua prima pubblicazione, “Tutto iniziò con un calice spezzato” con i suoi colpi di scena, l’analisi dei personaggi, il movente e l’arguzia dell’assassino è quasi la prova del perché il giallo sia un genere, per usare un gioco di parole, sempreverde.

“Sotto i ponti di Yama” per trovare (e capire) la vera India.

Giulio Gasperini
AOSTA – Calcutta – oggi Kolkata – è forse la città più emblematica dell’India: modernità e tradizione, cultura e morte, degrado e libri, lebbrosari e scintillanti palazzi di multinazionali la rendono una città dalle contraddizioni estreme e dai conflitti dilanianti. Il grande grattacielo della TATA Motors e il fiabesco grand hotel Oberoi si affiancano, con stridente contrasto, agli ultimi rickshaw-men, che cercando di guadagnare poche rupie contando solo sulla forza delle loro gambe e sulla resistenza dei polmoni, e ai malati e lebbrosi che vivono sui marciapiedi, che muoiono tra i passi distratti della gente.
Come si può capire l’India? La domanda è feroce, violenta; è una domanda che non ha immediata risposta, perché l’India è un caleidoscopio di violente contrapposizione, geografiche e sociali, linguistiche e etniche, sociali e culturali. È un complesso sistema di equilibri e maturazione, di evoluzione e antichi riti di tempi remoti.
Salvatore Bandinu ci ha trascorso alcuni mesi, nell’India dalle molte anime. E ha raccontato la sua esperienza e considerazioni in un volume edito da Arkadia editore nel 2012: “Sotto i ponti di Yama” è più del resoconto della sua esperienza da occidentale a Kolkata, ma vuole diventare un tentativo di discutere e meditare alcuni considerazioni sulle facce del sub-continente indiano, che col suo miliardo abbondante di esseri umani sta diventando il paese più popolato al mondo e col suo aumento del 7 % del PIL nel 2011 si sta affermando come una delle potenze economiche del pianeta, anche se un po’ anomala.
Salvatore Bandinu è partito per l’India con l’obiettivo di fare il volontario, in una delle strutture create a Kolkata da Madre Teresa e oggi gestite dalle Missionarie della Carità, le suore in sari bianco orlato di blu. L’incontro con l’India è allucinato e allucinante: lo spaesamento si affianca a conoscenze profonde e situazioni emozionanti, nelle quali la componente intima e umana viene costantemente e profondamente sollecitata, nelle quali entra in conflitto, nelle quali spesso corre il rischio di contraddirsi e di inficiarsi. La logica umana, spesso, in India, viene messa a dura prova, soprattutto una logica che non ha esperienze né coraggio e non tiene conto delle differenze di mondo e di società.
La scoperta dell’India, per Salvatore Bandinu, corrisponde a una scoperta dei meccanismi che la muovono e la regolano. La volontà del fare si scontra con le domande, coi dubbi, con la crisi personale che sempre ci coglie quando ci si accorge che, tutto sommato, siamo più che superflui, e che le nostre azioni rischiano di perdersi nell’inutilità. Sicché la ricerca, per Bandinu, si fa più aspra e difficile, fino a rendersi conto, quasi in un’illuminazione, che non è possibile far fruttare la sua esperienza sul suolo indiano se non cercando di dare una grammaticalizzazione alla “sovra-struttura” indiana. Ma il dubbio – se si possa conoscere l’India, passandoci per di più solo poche settimane – alla fine del libro non ha ancora trovato risposta.

Novità Orecchio Acerbo: “Le avventure di Huckleberry Finn”

ROMA – “Le grandi bevute e la violenza gratuita, i vagabondi senza meta che suonano il banjo, un westernhippy insomma, da circo, tra fango e pioggia, con pochi ideali e molta auto ironia. Tutto questoè servito per Huckleberry Finn.”

Così Lorenzo Mattotti giunge fra le onde del Mississippi – che nel suo immaginario diventa il Po nostrano – per rileggere la storia di libertà, ribellione e coraggio raccontata da Mark Twain. Il libro è “Le avventure di Huckleberry Finn” di Antonio Tettamanti con le illustrazioni di Lorenzo Mattotti pubblicato da Orecchio Acerbo e Cononino Press.

Il più grande classico per ragazzi nell’interpretazione di un gigante del fumetto. Le avventure rocambolesche di Huck e Tom alle prese con la fuga dalla schiavitù, fisica e mentale. La volontà di auto determinarsi e di non farsi imbrigliare da nessuna rete. Tutto questo sul corso del fiume, luogo di incontri, di partenze improvvise, di ritorni inattesi e di loschi traffici; lagrande metafora di una libertà che per esistere ha bisogno di scorrere senza freni.“Ciò che amavo della storia era la dimensione del viaggio, i rarissimi cavalli, e la presenzadel fiume. Raccolsi numerosi libri sui battelli del Mississippi. Ero affascinato dall’atmosferadel western, con i cowboy, con i pistoleri. Adoravo quelli dai grandi baffi, dai cappelli a punta,pelosi, grotteschi come quelli di Robert Altman e completamente diversi da quelli di John Wayne.Le barbe irsute, i lunghi spolverini, le pesanti pistole, i pantaloni larghi e sfondati di Sergio Leoneerano altri punti di riferimento.” I pantaloni sbrindellati e il cappello a falde larghe di Huck,la giacca senza fodera e i piedi nudi di Tom animano queste suggestioni filmiche e letterarie. Fino all’appendice con i cowboy-hippy di Mattotti – alcuni dei personaggi che poi non sono entratinel fumetto, ma fanno compagnia al libro- affiancati al suo “diario di bordo”, dove racconta il workin progress e l’avvicinamento al celebre scenario di Twain.Nel sapiente adattamento testuale -capace di far incontrare i brevi dialoghi dei fumetti con la prosaletteraria dell’autore americano – di Antonio Tettamanti e nella ricerca dei colori -aderenti al famosostile di Mattotti- a cura di Céline Puthier, torna un classico per ragazzi.

“È un libro importante per me, una tappa della mia carriera. Ma ciò che spero davvero è di far scoprire a nuovi lettori, giovani e meno giovani, un capolavoro della letteratura, e di far nascere in loro il desiderio di leggere l’originale.”

L’Amantide: una donna e la sua missione


Silvia Notarangelo

ROMA – Dopo “Diecipercento e la Gran Signora dei tontiAntonella Di Martino presenta ai lettori di Chronicalibri il suo nuovo, intenso e spietato racconto, pubblicato nella collana Atlantis di Lite Editions.

“L’Amantide”, una storia dal titolo affascinante che racconta…

Racconta diverse storie, condensate in una.
C’è la storia di una donna che ha deciso di trasformare la sua rabbia e i traumi della sua infanzia in un lavoro, che è anche una missione.
C’è la storia di una famiglia infelice, arrivata a un punto di non ritorno.
C’é la storia di una moglie e madre che ha deciso di cambiare il suo destino con un mezzo insolito.
C’è la storia di un omuncolo, una creatura che vive in un piccolo senza speranza, un luogo triste in cui rinchiude le persone che gli vivono accanto.
C’è la storia di una breve vacanza, che inizia come un sogno e termina con una brusca caduta.
Infine, ultimo ma non meno importante, c’è il cuore di Nizza, la sua atmosfera, i suoi profumi, i suoi colori.

Suggestioni e fonti di ispirazione?

L’omuncolo letterario si ispira a un omuncolo conosciuto personalmente anni fa. Era il patrigno di una mia amica, la quale mi raccontava spesso le “fisime” che infliggeva alla famiglia. Lo ricordo come una delle persone più odiose che io abbia mai incontrato. Non è la prima volta che mi sono ispirata alla sua personalità, per arricchire le caratteristiche dei miei personaggi più grotteschi.
L’Amantide non l’ho mai conosciuta. L’ho costruita un pezzo alla volta: ho preso in prestito le parti più rabbiose, inquietanti e distruttive della mia immaginazione; ho aggiunto alcune caratteristiche raccolte qua e là dall’immaginario collettivo; sono stata attenta a conservare le contraddizioni; ho ritagliato le parti in eccesso e ora l’Amantide vive di vita propria.

Tre aggettivi per descrivere L’Amantide

Folle, razionale, tagliente (sorride ndr).
Dell’Amantide apprezzo soprattutto i contrasti. È una criminale, ma ha una scala di valori tutta sua, costruita con razionalità impeccabile e lucidissima follia. Il suo lavoro è vendetta, ma anche missione, rivincita, piacere. Si intuisce che il mondo le ha fatto molto male: un male che lei tenta di restituire con garbo, selezionando i bersagli giusti. Il suo sguardo, incisivo come i punteruoli da ghiaccio e tagliente come una lama, coglie gli aspetti migliori e peggiori della vita che incontra.
L’Amantide rispetta con scrupolo le sue regole, ma cerca anche uno spazio per conquistare pezzi di vita liberi dal dolore e dal lavoro: cerca di adeguarsi senza adattarsi, di strappare i fiori più profumati che sbucano in questa valle di lacrime.

La sua lettura è rivolta a…

A chi ha il gusto per l’insolito e le tinte forti, ma non per la volgarità; a chi ama le storie sensuali che vadano oltre i sensi; a chi non ha paura di sbirciare negli angoli più nascosti di quella che chiamano realtà.

VerbErrando: “Tenera è la notte”

Veruska Armonioso
ROMA
– Studia giurisprudenza, ha ventiquattro anni e si annoia.
E’ nata nel 1988. Bim bum bam, forse, ha fatto in tempo a vederlo, magari se lo ricorda, solo che Paolo Bonolis se n’era già andato e non lo conduceva più, però c’era ancora Uan.
Quando tornava da scuola la nonna guardava beautiful in tv, quindi è cresciuta, forse suo malgrado, incontrando per pranzo sempre intrighi, giochi di seduzione e il mito che la bellezza e la sensualità sono la strada giusta per arrivare a destinazione. Mamma e papà volevano tanto che studiasse e portasse a casa voti importanti, ma lei preferiva chiudersi in bagno a truccarsi per farsi vedere bella dai ragazzi.
Poi è arrivato “Uomini e Donne”, “Il Grande Fratello” e ha capito che apparire era fondamentale.
Le veline, le letterine, tutte le calendarine e poi c’era lei, ragazza carina ma qualunque,
che si sentiva indietro, si sentiva in svantaggio. Si diploma e si iscrive all’università, cambia città (la provincia le va stretta) e comincia una vita nuova, dove poter esibire i suoi gioielli: due tette tirate su da un bra dell’ultima generazione, un sorriso ultragloss e pose da top model per impressionare l’obiettivo di un fotografo da book. Sono foto importanti, sono foto che vanno su facebook, perché lei, la bella lei, tutta truccata, pettinata a puntino e vestita solo delle proprie mani, ha un bisogno disperato di non sentirsi solo una futura praticante avvocato, non può restare indietro, non può essere meno di Belen. E allora gioca a fare la modella, va in locali alla moda a farsi scattare foto ricordo da pubblicare sulla sua bacheca. Sono importanti i “mi piace”, i commenti appassionati degli uomini che fantasticano sulle sue forme in chiaro scuro, sui suoi sguardi ammiccanti, sui suoi sorrisi divertiti durante notti della dolce vita della nuova Italia.
Lui è lì, nello studio. Nella camera accanto c’è Marta che si sta spogliando, è appena tornata a casa dal lavoro, oggi c’era sciopero, pioveva e lei è rincasata bagnata come un pulcino. Stanno insieme da un anno e mezzo e discutono spesso perché lui è troppo chiuso e parla poco e lei si sente sola. Comunque lui è lì, sta consultando il suo facebook e la vede, nella colonnina di destra tra le amicizie consigliate.
Non dubita un secondo e le richiede l’amicizia. Lei accetta e cominciano a chattare. Lui come foto dell’avatar ha un’immagine in penombra, mentre fuma una sigaretta. Ha il fascino della star del cinema americano e poi è bellissimo. Marta bussa, apre piano piano la porta. Lui abbassa velocemente la finestra di internet, si gira e, con un sorriso pieno di denti, le chiede:
“Tutto bene?”
“Sì, vado a fare la doccia, poi ti va se ci mettiamo un po’ sul divano abbracciati a guardare la tv?”
“Ok! Tra un quarto d’ora sul divano!”
Lei chiude la porta e lui apre di nuovo la finestra.
“Ho ancora un quarto d’ora, poi i miei amici mi passano a prendere per uscire.”
“Mh, peccato… ma tanto anch’io stavo per uscire, andiamo tutti al Rainbow a fare un aperi-cena.”
“Quando posso parlarti di nuovo?”
“Quando vuoi… domani?”
“Apro poco internet durante il fine settimana, ma lo farò solo per te.”
“A domani allora!”
“Dopo pranzo? Verso le due?”
“Perfetto! Dopo le due!”
Non andrò avanti, il racconto continuatelo voi.
A volte mi dico che è una fortuna non stare insieme a nessuno. Avevo sedici anni quando lessi per la prima volta “Tenera è la notte”. Dick l’aveva voluta così tanto Nicole, l’aveva prima curata, e poi le aveva promesso amore eterno e l’aveva sposata. Gli bastò poco, quando arrivò Rosemary, giovane, bella, attrice, sofisticata, per spazzare tutto via, tutto.
Provare ancora quella trepidazione :
”- Sono Dick: dovevo chiamarti.
Una pausa di lei; poi coraggiosamente e intonata allo stato d’animo di lui:- sono lieta che tu l’abbia fatto.
[…]
– Rosemary.
– Sì, Dick.
– Senti, sono in una situazione straordinaria, con te. Quando una bambina riesce a turbare un signore di mezza età… le cose vanno male.”
La cosa che mi turbava maggiormente non era il tradimento, ma il tormento che provava Dick.
“Ora la baciò più volte sulla bocca, il suo viso si ingrandiva mentre scendeva su di lui;
Dick non aveva mai visto qualcosa di così abbagliante come quella pelle, e poiché a volte la bellezza restituisce le immagini dei proprio migliori pensieri, pensò alla sua
responsabilità verso Nicole e al fatto che questa si trovava due porte più in giù, nel corridoio.”
Provava tormento, un tormento rivolto verso la moglie, ma non era un tormento per senso di colpa; era un tormento di rimpianto. Se non ci fosse stata lei, lui avrebbe scelto Rosemary.
Se non ci fosse stato quel “peso”, la donna che tanto aveva voluto e che, con il tempo, era diventato peso, ecco, se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato con Rosemary.
Se non ci fosse stata lei, lui sarebbe stato felice. I sotterfugi, le recite per dissimulare e poi il senso di costrizione, di infelicità, di privazione.
Dall’altra parte lei, Marta, Nicole o me. Dall’altra parte una persona, che esiste solo
come intralcio. Quando vivi per una volta un’esperienza del genere resti marchiato a vita.
La mia amica Dani dice che le ferite del passato non devono diventare limitazioni e ha ragione, ma forse ha avuto ferite poco profonde o uno stuolo di santi e madonne in cielo pronti a riempirle il cuore e la mente di indulgenza e fiducia.
Di fatto Nicole è stata tradita.
Di fatto Marta sta per essere tradita o è stata già stata tradita, del resto non serve di certo un amplesso per essere infedele a un amore.
Di fatto Marta non ce la farà mai a competere con queste fantastiche, bellissime ragazze copertina.
Marta verrà schiacciata da questa competizione, sia che decida di chiamarsi fuori e non cadere in questo gioco perverso dell’essere sempre all’altezza, sia che decida di starci dentro. Perché questo gioco lo si può fare fin quando hai vent’anni. A trenta non si può più. Comunque sia, sia che tu ti chiami fuori, sia che tu resti nel gioco, prima o poi arriverà il momento in cui l’uomo che ti è accanto si girerà dall’altra parte a guardare, a sognare un po’, con la bava alla bocca o con contegno, ma comunque lo farà.
Forse non te ne accorgerai, ma lo saprai che accade. Forse, invece, te ne accorgerai, allora le tue insicurezze usciranno tutte fuori e tu cadrai nel baratro. Tutti i mostri, i fantasmi saranno lì, affacciati alla finestra della bocca del tuo stomaco a chiamare in causa le tue paure. Perché a distrarsi ci vuole un attimo, a perdersi un secondo, ma a ritrovarsi, poi, non basterà una vita.
E’ più grande la paura di essere traditi o il tradimento stesso? La possibilità che c’è dietro l’angolo rende chiunque un nemico, tutto un pericolo. E poi tu, che con i tuoi bassi, i cali di attenzione, di prestazione, di forma, rischi di mandare all’aria la tua relazione senza nemmeno che ci sia realmente qualcuno, solo per paura.

Amarsi dopo un figlio, amarsi dopo essere diventati coppia, amarsi quando entra la routine, quando subentra una malattia, quando entra in gioco la vita.
Amarsi.
E’ possibile amare qualcuno nella versione vita-di-tutti-i-giorni senza lasciarsi distrarre da qualcun altro?
E’ possibile farsi vedere sé stessi, senza rischiare di essere traditi con qualcuno di nuovo o migliore? Si può sperare di avere qualcuno accanto che non cada nella rete di una bella ventiquattrenne avvocatessa sexy fotomodella di facebook e essere liberi di farsi vedere per quello che si è, senza patinature e senza calze a rete o tacchi a spillo?
La mia amica Dani dice di sì. Lei è fortunata, suo marito la ama per quello che è, ma non fa testo, hanno dei valori così al di sopra dell’apparenza e della forma da risultare alieni.
Parlando con lei, però, penso di aver capito dove risieda il problema. Se conquisti un territorio con le armi, dovrai sempre usare le armi per esercitare il tuo potere al suo interno. Una metafora ardita per dire che se conquisti un uomo per un qualcosa che possiedi, non potrai mai liberarti da quel cliché, nemmeno dopo vent’anni. Quella caratteristica diventerà, nella tua mente, il metro di paragone con tutte le altre e di quello non smetterai di preoccuparti sia che si parli di bellezza, che di simpatia, che di intelligenza.
Diverso se conquisti una persona per la tua unicità. Se quello che fa innamorare di te la tua persona sarà la tua unicità, la tua essenza, allora non ci sarà paragone con nessuno. Non ci sarà bellezza tanto provocante, o mente abbastanza brillante o sorriso sufficientemente smagliante. Potrà essere tutto di più rispetto a te, ma non sarà mai te.
Ecco quello che ho capito questa settimana. Conoscendo Marta e la sua storia, parlando con Dani e la sua famiglia, rileggendo Francis Scott Fitzgerald e tenendo in braccio la mia pronipote Lavinia.
Guardando tutti loro ho capito cosa è importante in una relazione.
Amare l’unicità dell’altro ci rende fedeli, far innamorare il nostro compagno della nostra unicità ci rende sicuri e invincibili.
Non sarà facile districarsi all’interno di quella jungla. A volte sarà difficile, a volte ci vorrà tempo, tanto tempo, a volte incontreremo riluttanze, rifiuti, impazienze. Quelle saranno le selezioni naturali, gli autoeliminati che ci lasceranno prima ancora di prenderci.
Ma arriverà quell’unica persona che è destinata a starci accanto, e sarà allora che non avremo più paura di essere da meno della seducente studentessa universitaria del web. Ed è proprio a lei che vorrei dire di togliere quelle foto da lì e di riprendersi la propria vita ricominciando con il ridurre ai minimi termini per poi massimizzare e sicuramente arriverà molto più di un uomo che mentre chatta con lei ha, nella camera accanto, la sua compagna seduta sul divano ad aspettarlo per un abbraccio.

“Il pasto degli schiavi”: il monologo esistenziale di Adriano Marenco

Alessia Sità

ROMA –Un uomo in gabbia. Una gabbia con le sbarre larghe. Ci si può passare senza problemi. Egli non può avere problemi a passare.
Si apre così “Il pasto degli schiavi”, l’ultimo lavoro di Adriano Marenco pubblicato da Edizioni Progetto Cultura. In una continua alternanza di buio e di luce, ha inizio il monologo dell’autore, incentrato su una condizione umana ed esistenziale ai limiti del grottesco. Non siamo molto lontani dal degrado già descritto da Marenco nel suo precedente romanzo breve: “La palude e la balera”.
Al centro della piéce è il potere in tutte le sue sfumature. La scelta del soliloquio non è casuale, ma quasi necessaria per rendere bene l’idea di come il potere non sia in grado di instaurare un dialogo oltre se stesso. Dall’altra parte, ci siamo noi, “le scimmie”, spettatori quasi impotenti della miseria e dello squallore del nostro paese. Marenco porta alla ribalta una triste realtà, quella costituita essenzialmente dai più deboli, dai ‘poveri’ costretti a “strisciare” dappertutto. L’umanità che “striscia per un’opportunità”. L’uomo che nella didascalia iniziale è chiuso in una gabbia non è stato confinato brutalmente. Sceglie di restare nella propria prigione dorata, protetto dal mondo, in quanto consapevole di quello che c’è sulla terra: solo “untume e resti umani”. “Noi siamo sani e dobbiamo proteggerci dobbiamo proteggere la nostra famiglia la nostra famiglia la nostra famiglia e perciò ci rinchiudiamo sempre di più (…) dobbiamo comprare e comparire e infilarci nelle nostre ville bunker almeno chi se le può permettere. Ma anche una gabbia va bene. Che ci protegge dalla sporcizia di fuori”.
Con un linguaggio forte e a tratti surreale, Marenco porta in scena la triste realtà di un paese, il nostro, logorato dalla mancanza di moralità, in cui tutte le anime sono barattate per un nulla. Un paese in cui “un’anima vale meno di una crosta di pane’.

 

Il tempo nemico che nulla restituisce.

Giulio Gasperini
AOSTA –
L’ultima edizione è del 2002, per Mondadori. Ma le “Poesie” di Dario Bellezza mancano da troppo tempo dagli scaffali delle librerie. Una delle voci più potenti e spregiudicate della poesia italiana del Novecento, Bellezza ha sempre vissuto straziato dal conflitto tra la “vita tempesta” (e la sua declinazione dell’amore) e la morte, complice anche una malattia a cui lui si è condannato (Dario, “vittima e carnefice” di sé stesso) e che l’ha lentamente consumato nel suo “vecchio corpo rotto da malattie”.
Dario appartenne al genere degli uomini che vivevano di notte e che nella notte trovavano la loro unica missione e il loro unico compimento: “Ogni alba è una resurrezione, ritorno / alla pluralità, ma noi abitatori della notte / non arriveremo mai all’amore / della nostra decadenza!”. La solitudine è la condizione sostanziale che si materializza a ogni livello: “Addio. Tradiscimi con chi / ti pare”; persino a quello artistico (“Morta è la poesia”). La solitudine è, inoltre, la condizione che tesse la “pigra quotidianità”. La vita è tiranna, il vivere è il “suicidio più lento”; ma la vita non è altro che azione quotidiana dopo azione quotidiana, in un ritmo soffocante e asfissiante: “Abbracciato all’enigma / del futuro chiudendo in povertà i giorni / tutti uguali con il cuore a registrare / su un misero giaciglio in una casa / presa in affitto i puerili battiti / d’amore che mai più proveremo, così / sentimentali, così audaci nello sperpero / della pubblica energia”. È un concetto, questo, che in Bellezza si concreta ripetitivo e quasi ipnotico, straziante nella sua ineluttabilità: “Ma il quotidiano insiste […] / […] / Insiste così / il quotidiano […] / Insiste dunque il quotidiano […]”.
Ineluttabile e inappellabile è principalmente la morte: “Ché solo morte / esiste e a lei m’affido”. I rapporti di Bellezza sono sempre stati di intenso amore, nonostante la consapevolezza di essere un peccatore, perché “il giusto non aspetta certo / a Sodoma”. La sua fine tragica fu presentita: “Ascoltavo la morte nel mio sogno / […] / Allora mi ricordai di te e mi svegliai. / La morte mi era a lato. La notte / riempiva la stanza di silenzio. / Alla finestra la luce della luna. E // nel mio cuore un presentimento”.
La vergogna più grande, pel poeta, è quella di non aver vissuto, di aver fatto trascorrere i giorni tra le dita, come sabbia di clessidra; adesso non rimane che stringere l’aria: “Una vita sprecata. La più pura di tutte / fu quella addormentata che non vissi / da vivo, ma ritornando a casa, già adulto / intravidi nello specchio di tutte le brame / […] / Fermati tempo, restituisci il passato!”. La confessione dell’uomo (prima ancora del poeta) è straziante, senza appello: “Ho paura. Paura di morire. […] / Devo prendere atto di questo: / che si è un corpo e si muore”. Ma è la morte che, segretamente, e paradossalmente, ha reso l’uomo un poeta: “Ora alla fine della tregua / tutto s’è adempiuto; […] / Così / senza speranza di sapere mai / cosa stato sarei più che poeta / se non m’avesse tanta morte / dentro occluso e divorato, da me / orrendo infernale commiato”.

Una blogger in cucina


Silvia Notarangelo

ROMA – “Una cucina alla portata di tutti, con ricette semplici e per lo più cucinate con ciò che mi trovavo a disposizione”. È così che Silvia Crucitti, apprezzata blogger palermitana, presenta la sua prima, gustosa, fatica letteraria.
al forno”, pubblicato da FOOD Editore, mantiene le premesse. Il volume, frutto dell’esperienza personale dell’autrice ma anche di una buona dose di suggerimenti provenienti dalla rete, è arricchito da aneddoti, consigli, curiosità e corredato da un invitante apparato fotografico.
Facilità, praticità e cottura al forno sono gli ingredienti base dei cento piatti proposti. Dall’antipasto al dolce, c’è davvero da sbizzarrirsi: stuzzichini, lasagne, arrosti di carne e di pesce, verdure, torte e biscotti. Nessuno resterà a stomaco vuoto.
Per desiderio dell’autrice, i piatti non sono suddivisi per “tipologia di alimenti” ma ordinati secondo le possibili “situazioni di consumo”.
Si parte da “tutti i giorni”, con ricette veloci destinate a saziare l’appetito anche quando il tempo a disposizione è troppo poco. Per iniziare bene la giornata o regalarsi una pausa diversa dal solito c’è “colazione & merenda”. Se, invece, si vogliono evitare brutte figure in occasioni un po’ speciali meglio consultare “il pranzo della domenica e delle feste” e seguire i giusti passi da fare per ottenere ottime lasagne “sicilian style”, involtini e torte insuperabili. Per gli amanti dell’aperitivo c’è anche l’alternativa: si chiama “fingerfood” e promette stuzzichini caldi e fragranti, possibilmente da abbinare al giusto vino.
Non resta altro che correre ai fornelli!