Storie di eco avvocati e delle loro battaglie legali in “Toghe verdi”

Silvia Notarangelo
ROMA – L’idea è sempre più diffusa. “Tutto va male”. Sì, è vero, tante cose vanno male, ma, per fortuna, c’è ancora chi non si arrende di fronte ad insopportabili prevaricazioni e invece di scegliere la via del silenzio intraprende quella più difficile, e talvolta più dolorosa, della ricerca di giustizia. La giornalista Stefania Divertito racconta, con lucidità e, a tratti, con il giusto sdegno, come si muovono e quali risultati stanno ottenendo alcune battaglie civili che vedono protagonisti l’ambiente e il suo degrado. “Toghe verdi”, appena pubblicato da Edizioni Ambiente, si apre con la controversa questione Tav che, simbolo di progresso e di innovazione per tanti, si è trasformata per gli abitanti della valle del Mugello in un’autentica sciagura. I lavori per l’adeguamento della linea ferroviaria hanno letteralmente stravolto la valle provocando la scomparsa dell’acqua da fiumi, torrenti e acquedotti. E non stiamo parlando di un fenomeno reversibile. L’acqua non c’è e non tornerà più.
Anche l’orografia della Capitale si è recentemente modificata grazie alla comparsa di un “ottavo colle”: si chiama Malagrotta ed è la discarica della città, una discarica che per anni ha esercitato senza le dovute autorizzazioni e che ora, sembra, forse, arrivata al suo ultimo atto. Ciò che colpisce di più, però, non è tanto la discarica in sé, seppur con le sue indiscutibili criticità, quanto quelle “attività collaterali” svolte in modo più o meno consapevole: l’illecito smaltimento di percolato, le acque industriali riversate nel Fosso di Santa Maria Nuova. La gravità di tali azioni è tale da far parlare di “reato permanente”.
E visto che casi simili non conoscono, purtroppo, distinzioni di latitudine, ecco che al nord quanto al sud, le battaglie legali si stanno moltiplicando e, finalmente, i primi risultati cominciano ad arrivare. Uno su tutti: nella cittadina calabrese di Praia gli operai della fabbrica Marlane hanno ottenuto il rinvio a giudizio di quattordici persone, tra amministratori ed ex dirigenti, accusate di omicidio colposo e disastro ambientale. Certo, il processo è ancora in corso e l’esito finale tutt’altro che scontato, ma almeno qualcosa inizia a muoversi.
Per questioni così delicate occorre, però, che l’interesse e l’attenzione dei media siano sempre mantenuti vigili. Eppure, frequentemente, si preferisce soprassedere, magari per superficialità, più spesso per paura di scontrarsi con interessi troppo grandi. Informare è un dovere ma anche un diritto. E sapere che ci sono cittadini, avvocati, giornalisti, associazioni, che insieme si battono per avere giustizia è motivo di speranza per tutti coloro che non hanno ancora smesso di indignarsi e di lottare.

ChronicaLibri intervista Nadia Turriziani

Alessia Sità
ROMA Nadia Turriziani, autrice del romanzo “Gli occhi dell’Amore, pubblicato da Sangel Edizioni, si racconta a ChronicaLibri. In modo vero e sincero, la scrittrice parla della propria esperienza personale, spiegando come essa rappresenti il filo conduttore di tutti i suoi racconti.

Cosa ha ispirato “Gli occhi dell’amore “?
Il libro “Gli occhi dell’amore” è stato ispirato da storie vissute personalmente o da racconti ascoltati con maniacale interesse da amiche e conoscenti. Racconti strazianti che mi hanno colpito direttamente al cuore lacerandolo o, in altri casi, racconti esilaranti o di pura fantasia che mi hanno fatto sorridere e a volte riflettere.

Nel suo libro, lei affronta tematiche molto delicate, che ancora oggi rischiano di essere dei veri tabù sociali. La scrittura può, dunque, essere un modo per esorcizzare la paura, l’ipocrisia, l’indifferenza? Può essere utile nella lotta contro “il male di vivere” che affligge sempre più spesso l’anima e il corpo?
Il vero scopo di questa raccolta di racconti era appunto quello di lasciare un segno.Non sempre è facile parlare di tematiche delicate quali ad esempio l’omosessualità, il tradimento, le sette sataniche, il sesso vissuto dai propri figli, ma farlo e riuscire ad andare oltre quelle barriere psicologiche che la società ha creato attorno a noi è stata una grande soddisfazione.
Lei mi chiede se la scrittura può essere un modo per esorcizzare la paura, l’ipocrisia e l’indifferenza ed io senza ombra di dubbio le rispondo di sì.
Quale arma migliore abbiamo, se non la scrittura, per evidenziare i disagi dell’anima e del cuore non tralasciando ovviamente i disagi del corpo. Da ex anoressica posso confidarle che scrivere un racconto di anoressia mi è stato di grande aiuto per uscire, con sforzi e tante lacrime, da quel periodo bruttissimo in cui, a causa della morte di mio padre, ero caduta.
Mi sono resa conto di aver chiesto aiuto a un’infinità di persone: a mio marito, al mio medico di fiducia, a un bravo psicologo ma un giorno a tavola con la mia famiglia ho guardato in volto i miei tre figli ed ho giurato a me stessa che ce l’avrei fatta da sola.
Così è stato. Un rigatone alla volta, una porzione sempre più abbondante sul piatto, tanti sforzi e tanta pazienza ma alla fine ne sono uscita.
Mi sento una privilegiata però, molte altre ragazze, i cui racconti ho ascoltato con attenzione, o non ce l’hanno fatta o stanno ancora combattendo questo terribile male.

Lei parla dell’amore a 360 gradi, analizzandone i mille volti che esso può avere: da quello fra uomo e donna, a quello di una madre, a quello disperato… Quanto è difficile scrivere di amore? Non ha avuto il timore di scadere nel banale o nel retorico?
Scrivere d’amore può essere difficile solo se non si ama veramente.
Io amo la vita, il mio lavoro, la scrittura, la mia famiglia e in particolare i miei figli, lo sport e tanto altro e scrivere di quello che provo raffrontandomi con queste realtà non mi ha mai spaventata.
Il timore di scadere nel banale o nel retorico l’ho avuto a ogni frase scritta ma ho voluto correre questo rischio perché l’amore non è mai banale e parlarne non deve assolutamente rappresentare un male.

La sua esperienza personale si riflette in qualche modo sui personaggi da lei descritti?
Indubbiamente sì. Ogni personaggio rispecchia una parte di me e del mio essere donna.La madre che lotta per i figli, la donna moglie e amante, la scrittrice, la mamma che soffre per i propri figli. Ho sofferto nello scrivere il racconto sui gay. Ho chiuso gli occhi e ho immaginato cosa possa mai provare un genitore nello scoprire la vera natura sessuale del proprio figlio. Ho sofferto anche nell’immaginare come possa essere difficile per un adolescente rendere partecipi i propri genitori delle sofferenze subite a causa della propria natura. Rispetto le scelte di ognuno ma ammiro il coraggio di quei genitori. Sono terrorizzata dall’AIDS e nel racconto “Dagli occhi una sola lacrima” ho parlato di una storia realmente accaduta che mi ha sconvolto molto. Sono spaventata dal futuro e sapere consapevolmente che si invecchia e che i propri figli invece crescono e diventano indipendenti mi ha ispirato nella scrittura di “Amore eterno o sesso?”. Vorrei poterle parlare di tutte le motivazioni che mi hanno spinto a scrivere ogni racconto ma rischierei di diventare logorroica e quindi posso solo invitare i lettori a leggere e, chiudendo gli occhi per un attimo, a immedesimarsi in quegli scenari e nelle storie descritte.

Come definisce la sua scrittura? Qual è il tratto caratterizzante?
Vera. Mi viene solo questo aggettivo. Quando scrivo di fiabe navigo inventando e sognando, in questo caso con “Gli occhi dell’amore” ho descritto la vita reale e mi sono discostata dalla realtà pochissime volte e solo per evitare di palesare storie vere e facilmente riconoscibili. Il mio tratto caratterizzante? Sono una donna semplice, in primis una mamma, e quando scrivo lo faccio solo per appagare me stessa e soprattutto con una grande speranza nel cuore, colpire il cuore dei lettori e renderli partecipi dei miei racconti senza annoiarli.

Tre aggettivi per definire “Gli occhi dell’amore”.
Toccante: ogni storia ha dietro di sé un vissuto e a volte delle grandi sofferenze.
Autentico: parla di storie vere, genuine, vicine alla realtà.
Esilarante: alcuni racconti sono bizzarri ma divertentissimi.

 

Buon compleanno Generale Giap

Agnese Cerroni

Roma – In occasione del centesimo compleanno dell’autore, Sandro Teti Editore ha deciso di ripubblicare il volume “Masse armate ed esercito regolare”, uno dei grandi testi di filosofia del conflitto (“scienza militare” sarebbe riduttivo) del XX secolo, summa concettuale del maggiore interprete della “guerra di popolo”, il generale vietnamita e teorico marxista Vo Nguyen Giap

Fu lui lo stratega e organizzatore che combatté il fascismo giapponese in Indocina (1942-45), portò l’esercito del Viemihn ad annichilire il colonialismo francese (Dien Bien Phu, 1954), diresse per lunghi anni la guerra contro l’imperialismo USA fino all’umiliante disfatta di quest’ultimo (Saigon, 1975) ed ebbe un ruolo-chiave nella deposizione del regime di Pol Pot in Cambogia (invasione militare del 1978).

Corredato dalla prefazione di Luciano Canfora (curatore della collana “Historos”, dov’è contenuto il testo) e dalla postfazione di Tommaso De Lorenzis (fra le altre cose da anni compagno di strada e di scrittura dei “Mu Ming”), per i curatori il libro punta a “riproporre un classico del pensiero militare, all’incrocio tra rigore filologico, aggiornamento critico e divulgazione pop. Nel rivolgersi a vecchi e nuovi lettori, il testo diventa l’occasione per un ragionamento a tutto campo sui significati metaforici della figura del Guerrigliero, da Spartaco ai giorni nostri, “e sulle icone dell’epos moderno nella società della comunicazione di massa”. 
La copertina del libro mostra il generale in piedi accanto a Ho Chi Mihn, “Colui che rimane sveglio quando tutti dormono”, protagonista del prologo di Asce di guerra.

“I maestri del pensiero indiano”: la ricchezza del pensiero del paese più “strano” al mondo

Giulio Gasperini
ROMA – L’India è, forse, il paese più “strano” al mondo. “Strano” per la sua grandezza, che la rende quasi un continente (3.287.590 kmq, il settimo al mondo per estensione) e per la sua popolazione da capogiro (1.173.108.018 abitanti); per le sue contraddizioni, e per la sua ricchezza e varietà di architetture e religioni; per la sua composizione climatica (dal deserto di Jaisalmer alle foreste tropicali delle Andamane) e la sua frammentazione linguistica (1.652 dialetti oltre alle lingue “ufficiali”). Ma è anche un paese dalla storia millenaria e dalla grande eredità culturale: in particolar modo filosofica e religiosa. Giuseppe Gangi ne “I maestri del pensiero indiano dai Veda a Osho” delle Edizioni Clandestine (2011) vuole proprio ripercorrere la storia del pensiero che in questo subcontinente s’è sviluppato e ha finito per colonizzare e condizionare la crescita e lo sviluppo della società e della cultura di altri continenti, primi fra tutti l’Europa.
L’India ha, infatti, da sempre affascinato il Vecchio Continente: per la sua distanza, la sua magia, la sua apparente invulnerabilità, il suo mistero remoto. Dai romanzi di Salgari, ad esempio, ambientati in un’India quasi inventata, immaginata e mai esplorata, imparata dai libri e dai racconti di viaggiatori coraggiosi, passando dal fascino delle poesie di Tagore che gli valsero il Premio Nobel nel 1913 (straordinariamente assegnatogli dopo quello, del 1907, a Kipling, cantore, all’opposto, del colonialismo inglese), per finire al viaggio che i Beatles vi compirono nel 1968, per frequentare un corso di meditazione presso l’ashram di Maharishi Mahesh Yogi.
L’India è ricca e ubertosa: la bibliografia che la riguarda è talmente imponente da passare persino trascurata, consultata con velocità insidiosa. Ecco, allora, che il volume di Giuseppe Gangi può aiutarci a far un po’ d’ordine ed entrare in possesso dei primi e più rudimentali sistemi d’orientamento. Dai Veda, raccolta in sanscrito di testi sacri dei popoli arii che fondarono l’insieme delle dottrine religiose dell’induismo, al pensiero filosofico di Osho, i cui scritti son diventati dei veri e propri best-seller da primi posti in classifica, passando per l’esperienza del Buddha e del buddhismo, che in India conserva tre posti sacri (Bodhgaya, Sarnath, Kushinagar), e giungendo ad analizzare il pensiero dell’India contemporanea, divisa tra colonialismo inglese, voglia d’indipendenza e crudeltà intestina (da Tagore a Gandhi), Gangi permette anche ai meno esperti di poter costruirsi le ragioni di un mondo, quello indiano, così lontano ma anche così fortemente composito che, in un gioco di costanti equilibri e di profonde contraddizioni, riesce ancora a sorprendere sé stesso e si esagera, persino, potenza del futuro.

Roberto Cavallo presenta il suo “Meno 100 chili”

Silvia Notarangelo
ROMA
– La sfida della sostenibilità non è un mistero. Nuovi modelli di produzione e di consumo, accompagnati da scelte più consapevoli, sono, da tempo, oggetto di riflessione. Roberto Cavallo, nel suo Meno 100 chili (Edizioni Ambiente), ipotizza come alleggerire la nostra pattumiera, affrontando il delicato tema ambientale con rigore e sensibilità, senza tralasciare alcuni pratici consigli per il lettore. ChronicaLibri lo ha intervistato:

 

Zona, molecolare, Dukan. Sono solo tre delle tantissime diete che ogni giorno promettono miracoli. Il regime alimentare che lei propone è, invece, privo di sacrifici per il palato. Si chiama “dieta della pattumiera”. Da dove nasce la sua attenzione per l’ambiente?
Già. Tra l’altro le diete che Lei cita, stanno vendendo un sacco! Spero che anche le mie diete riscuotano altrettanto successo (sorride ndr). C’è una cosa in comune tra le diete del palato e la dieta della pattumiera: tanto buon senso! Dire da dove nasce la mia attenzione per l’ambiente non glielo so dire. Forse è nata con me. Credo molto nell’imprinting e nella genetica: e allora credo che questa attenzione venga da mio nonno a cui ho dedicato il libro e mi sia stata trasmessa dalla gioia di vivere di mia madre e dalla cultura di mio padre.

 

Il libro è ispirato all’omonimo spettacolo teatrale di cui è autore e protagonista. Si trova più a suo agio sotto i riflettori di un palcoscenico o di fronte ad una pagina bianca? Perché la scelta di una trasposizione?
Mi piace comunicare. In ogni forma. Comunicare non significa però solo recitare o scrivere. Ma una volta finito lo spettacolo o la pagina condividerla e mettersi a disposizione ad ascoltare. Così nasce una nuova messa in scena più ricca e profonda o una nuova pagina.

 

“Compriamo cose che buttiamo”, afferma. Ed è, purtroppo, verissimo. La produzione di rifiuti è pericolosamente aumentata negli ultimi anni. La raccolta differenziata è un primo passo importante. Quali sono i comportamenti da promuovere ed incentivare?
In realtà il primo passo è proprio la prevenzione. Prima della raccolta differenziata. Il rifiuto che non c’è non va raccolto, non va trasportato, non va trattato. Occorre dunque che le autorità locali cerchino un dialogo con imprese e cittadini per ripensare le modalità produttive, distributive e di consumo. Nel libro provo a dare alcuni suggerimenti partendo dalle stanze della casa. Ma lo stesso esercizio lo si può fare partendo dal ciclo produttivo per un’impresa o dagli assessorati di un Comune. C’è un denominatore comune che rappresenta oggi un’ottima notizia: da qualunque punto si parta, lavorare sulla riduzione dei rifiuti fa risparmiare.
Difficile però fare sintesi, perché si tratta di un processo complesso e per questo merita un approccio complesso. Mi limito a dire che il comportamento da incentivare è la capacità di vedere con più punti di vista. Un Comune potrebbe promuovere la propria acqua pubblica garantendone una buona qualità organolettica al rubinetto o alle fontanelle, potrebbe adeguare il proprio piano regolatore prevedendo spazi adeguati per praticare il compostaggio domestico individuale o collettivo, adeguare il prelievo fiscale in proporzione al comportamento dei propri cittadini: chi produce di meno e differenzia di più deve pagare di meno.

 

Esempi ed esperienze positive, per fortuna, non mancano. Eco hotel, eco uffici, Comuni impegnati in progetti ambiziosi. C’è, secondo lei, un settore in cui si potrebbe fare ancora molto?
Penso che tutti i settori debbano proseguire sul cammino della sostenibilità.
Non credo ci sia un settore particolarmente in ritardo, ma all’interno di ogni comparto ci sono buone, anzi ottime, pratiche, la sfida è metterle a sistema.

 

La prima regola non scritta è “il buon senso”. Nel secondo capitolo ricorda e commenta la direttiva comunitaria del 2008, in materia di produzione e gestione dei rifiuti. Se avesse l’opportunità di partecipare alla redazione di un testo di legge, quali provvedimenti riterrebbe prioritari adottare?
Chiederei di definire obiettivi reali di riduzione attraverso piani regionali di prevenzione. Chiederei che in questi piani si definisca l’obiettivo di 400 kg per abitante all’anno di produzione complessiva di rifiuti urbani. Per raggiungere questo obiettivo occorrerà promuovere interventi urbanistici che permettano ai cittadini di vivere in città dove sia facile fare la spesa presso contadini che coltivano terra vicino alla città, vivere in città dove si possa fare il compostaggio domestico individuale e comunitario, vivere in città dove l’acqua del rubinetto è così buona che non ti viene in mente di comprare acqua in plastica, vivere in città dove se qualcosa non mi serve più sia semplice portarlo in un luogo dove qualcuno a cui quel bene serve ancora lo possa prendere senza che nel frattempo sia diventato un rifiuto.
Nel campo della differenziata chiederei di adeguare l’etichettatura in modo che quando ti trovi in mano un oggetto non hai nessun dubbio di dove buttarlo, limitando anche le materie utilizzate per produrre imballaggi e manufatti.
Sempre per la differenziata chiederei di omologare il colore dei contenitori in tutta Italia in modo che la plastica si butti sempre nello stesso colore da Bolzano a Palermo, così la carta o l’alluminio.
Infine chiederei l’applicazione del sistema fiscale proporzionale alla produzione e alla differenziazione dei propri rifiuti secondo il principio chi inquina paga, sia per le famiglie che, soprattutto, per le aziende.

 

Il Natale si avvicina. Può suggerirci qualche semplice accorgimento da adottare per le feste così da ridurre, o almeno contenere, l’impatto ambientale?
Due suggerimenti: quando state per scegliere un regalo cercate un servizio più che un oggetto, meglio un abbonamento al teatro o alla piscina che non una cravatta o un completo intimo. Se poi proprio dobbiamo scegliere un bene cerchiamone uno che duri tanto nel tempo, come per esempio un libro.
Il secondo suggerimento è che un regalo è bello per quel che contiene e non per come è impacchettato. Allora possiamo usare giornali già letti o carta recuperata da altri regali. Auguri di un Natale sostenibile.

“La meraviglia delle piccole cose”: un ritratto dedicato alle famiglie imperfette

Alessia Sità

ROMA – Tutti sognano la famiglia perfetta, quella in cui l’armonia fra genitori e figli regna sovrana e tutti i problemi si risolvono nel migliore dei modi e senza troppi drammi. Come sappiamo, però, la perfezione non esiste. Nel suo romanzo “La meraviglia delle piccole cose”, edito nel 2011 da Leggereditore, la brillante scrittrice Dawn French ci offre un divertente ritratto dei Battles, scardinando completamente l’ideale della famiglia da favola.
Mo è una madre, una moglie, una psicologa ed è quasi autrice di un libro dedicato a tutti i genitori alle prese con i problematici adolescenti di oggi. Nonostante la sua notevole esperienza professionale nel campo dell’infanzia, comprendere i suoi due complicatissimi figli – la diciassettenne Dora, determinata a diventare una cantante di successo, e il dandy Peter, totalmente ossessionato da Oscar Wilde – non è assolutamente facile. La povera Mo si sente puntualmente esclusa dalle loro vite e incapace di dar loro tutto il sostegno e il supporto di cui hanno bisogno. A seguirla passo dopo passo, in questo difficile cammino di crescita e di maturazione personale, c’è sempre il suo paziente e affidabile marito: Den. L’arrivo di Noel, il nuovo tirocinante dello studio, però stravolgerà inaspettatamente la vita della psicologa, che finalmente riscoprirà la bellezza del suo essere donna, riappropriandosi inoltre di quella libertà che per troppo tempo ha sacrificato e raggiungendo allo stesso tempo anche la piena consapevolezza che la vera felicità, in fondo, si nasconde proprio dietro le piccole cose di tutti i giorni. Del resto, sono i semplici gesti quotidiani che aiutano a ritrovare la giusta via quando improvvisamente ci si sente perduti e senza più una meta.
Grazie alla grande capacità di suscitare piccole e grandi emozioni, “La meraviglia delle piccole cose” ha conquistato il primo posto delle classifiche inglesi in soli sette mesi, vendendo 500.000 copie. Con uno stile brillante, originale e soprattutto divertente, Dawn French ci regala un romanzo unico, che ritrae con grande ilarità la classica famiglia imperfetta, con tutti i suoi vizi e le sue virtù.

Arriva “Le mie migliori ricette. GialloZafferano”, il libro che nasce dal web

libro di ricette di giallozafferanoROMA – “Cucinare è raccontare una storia: quella della ricetta, delle infinite versioni elaborate in luoghi diversi e in momenti lontani, dei passaggi attraverso i quali è arrivata fino a chi la prepara. È una storia nella quale non credo ci debbano essere segreti, altrimenti si rischia che non ci sia più nessuno in grado di continuarla. GialloZafferano è il mio modo di raccontare quella storia: ho raccolto 130 ricette inedite e non, pescandole dal grande archivio che è diventato il mio blog e dalla mia creatività. Ci sono le mie preferite, i miei cavalli di battaglia, una decina di piatti “insospettabili” per stupire, tantissime idee per suscitare meraviglia e per preparare piatti espresso (ma da urlo), quelle che proprio non si può non cucinare una volta nella vita, le più ricercate dagli utenti e quelle che faranno impazzire i vostri bambini. E ancora: sofà food, finger food, Street food, piatti adatti a banchetti luculliani, a cenette tra innamorati, a serate con gli amici… Oltre, naturalmente, ai miei “segreti”: da madre di tre figlie posso dire senza incertezze che la cucina è bella se è condivisa, se il tavolo sul quale si mangia può accogliere tante persone, se è occasione di confronto e di ascolto. Tutto, con un paio di doverose eccezioni, è rigorosamente italiano: perché la nostra è la cucina più appassionante al mondo e perché vale la pena essere consapevoli dell’infinita varietà di possibilità, incroci e sapori che possiamo creare con gli ingredienti della nostra terra.” (dall’introduzione di “Le mie migliori ricette. GialloZafferano”, Sonia Peronaci, Mondadori)

Compagne di un viaggio difficile

Marianna Abbate
ROMA – Il cibo razionato, i negozi con gli scaffali vuoti, solo aceto in vendita. 20 dollari al giorno per rimanere nel tuo paese, se hai sposato uno straniero. Sono racconti che ho sentito mille volte, da mia madre, ancora incredula e triste, e da mio padre, che ne parla come se fosse una barzelletta. Ma la Polonia dei tardi anni Ottanta sembra il paradiso se confrontata alla Romania di Nicolae Ceausescu. “Compagne di viaggio, racconti di donne ai tempi del comunismo”, pubblicato da Sandro Teti Editore, ci avvicina un po’ a questa storia.

Ho sentito delle storie anche sulla Romania, paese di origine della mia adorata insegnante di violino. Erano terribili, per quanto si possa raccontare ad una bambina. Quello che mi è rimasto impresso è che per parlare di politica a casa si usava aprire il rubinetto dell’acqua per coprire le voci. Perchè non ti potevi fidare di nessuno, i tuoi stessi familiari potevano essere spie, ma soprattutto potevi essere certo di avere delle ricetrasmittenti nascoste in casa (fatto che si è poi confermato durante un rinnovo della casa negli anni Novanta: il telefono era sotto controllo).

Ero, dunque, abbastanza preparata nell’approcciare questo libro. Ma il brivido gelato non mi ha risparmiato, quando ho letto delle donne uccise perché avevano abortito, dei chilometri fatti con buste pesantissime al gelo, delle file interminabili per comprare del cibo. Della lotta infinita per trovare del combustibile durante gli inverni più freddi.

Sono diciassette le scrittrici che hanno voluto condividere la loro esperienza con il comunismo. Ognuna di esse aveva a cuore qualcosa di diverso, ma il mondo che vivevano voleva uniformarle a tutti i costi. Indossavano tutte le stesse mutande bianche, le stesse calze. Non potevano truccarsi, semplicemente perché non c’erano trucchi. Sembrano stupidaggini, in un Paese dove la gente veniva uccisa per un nonnulla; ma la morte ha diversi volti e uno di questi è sicuramente la depersonificazione tramite l’uniformazione- come avveniva nei lager.

I racconti  non sono lagnosi, non sono pregni di quell’idealismo astratto che piace tanto agli uomini. Sono storie di donne che dovevano comunque sopravvivere, che sapevano ridere delle proprie disgrazie. E cavarsela. Sempre.

Pietre scartate che diventano testate d’angolo

Stefano Billi
ROMA – Cadono i governi, le crisi economiche vengono e vanno, ma il problema della pena e della detenzione è una tematica che, ciclicamente, viene all’attenzione della società tutta. Perché il male esiste, e tanto più esiste la possibilità di commettere errori, magari anche gravi. L’umanità ha conosciuto tanti modi di affrontare quelle situazioni in cui un consociato decideva di allontanarsi dal rispetto dei valori sociali per commettere azioni illecite. Nelle notti più buie della storia sono state erette forche e ghigliottine, nel nome di un ignobile contrappasso che non ha mai tenuto conto della dignità della persona – anche laddove commetta comportamenti turpi – e che, inevitabilmente, non ha mai risolto seriamente la “questione criminale”. Però da un po’ di tempo – secoli oramai – la maggior parte dei cittadini crede di dormire sonni tranquilli, perché grazie alle carceri i personaggi più pericolosi della società sono ben allontanati da qualsivoglia contesto civile. Insomma, “chi sbaglia deve pagare” – così come piace dire ad una certa borghesia – e tanto meglio se i criminali vengano rinchiusi lontano dal mondo. Questa logica, dove il recupero del detenuto è del tutto assente (in barba anche al dettato costituzionale!), deve essere combattuta, in una società che voglia dirsi rispettosa dei diritti umani e delle intime spettanze dell’individuo. E l’opera lungimirante di Marco Rizzonato “L’incontro tra la persona disabile e il detenuto” Armando Editore – racconta di un’avventura riabilitativa che ha dell’incredibile. Infatti, il libro di Rizzonato offre numerosi spunti di riflessione su come il tempo che i detenuti debbano “scontare” in un penitenziario possa essere investito in maniera utile e formativa.

Al di là di utopistiche aspettative, Rizzonato regala ai lettori il resoconto di un’esperienza concreta avvenuta tra detenuti e disabili, che partita dalla casa circondariale di Torino ha poi toccato anche altri istituti di pena italiani. Cosa possono offrire le persone disabili ai carcerati? E, a loro volta, cosa possono offrire i carcerati alle persone affette da disabilità? In entrambi i casi non si tratta di una semplice esperienza di volontariato, ma piuttosto di un progetto che vuole trasformare due categorie di individui esclusi dalla società in uomini nuovi, dove sia riacquistata a pieno la consapevolezza dei valori sociali e l’importanza dell’altro. In fin dei conti, non serve a nulla scartare un uomo, renderlo un reietto, e poi ributtarlo nella società senza alcun investimento sulla sua personalità. Piuttosto, è l’impegno costante,la fiducia che gli altri ripongono in chi è scartato, che fanno di quest’ultimo un homo novus.

Attraverso il progetto descritto da Rizzonato, i disabili hanno potuto sperimentare cosa significhi essere d’aiuto al prossimo (ad esempio, insegnando ai reclusi il L.I.S. – linguaggio internazionale dei segni – e il Braille, ovvero l’alfabeto per i non vedenti). Dal canto loro, i carcerati hanno provato cosa significhi entrare in contatto con la purezza e il candore di cui i disabili sono portatori, e sopratutto quanto sia importante ricevere fiducia dagli altri. E così quelli che per tutti erano scarti, quelli che non rappresentavano nulla se non emarginazione, posso divenire o tornare ad essere “testate d’angolo”, come recita il Salmo 118 della Bibbia.
Pietre angolari per una nuova società, capace di  reinserire gli esclusi e di vantare una profonda sensibilità verso l’individuo, e verso una seria rieducazione.

“Terremoto”: una toccante storia dei nostri giorni

Alessia Sità
ROMA
– “Ci fu un attimo di attesa. Ormai ci avevano fatto l’abitudine. Quella sarebbe stata un’altra scossa come le altre. Bastava restare calmi e aspettare che la terra smettesse di sussultare.”
La vita può cambiare o finire in una sola notte. A scoprire questa amara verità è la giovane protagonista di “Terremoto”, il romanzo di Ermanno Detti edito da Bohem Press Italia, nella collana Bohemracconta. La tranquilla e serena esistenza della vivace Marina viene sconvolta drammaticamente prima dalla scoperta di essere stata adottata, a pochi mesi dalla sua nascita, e poi da una devastante scossa di terremoto, che in pochi minuti distrugge completamente la sua amata città e la sua casa. Sfuggita miracolosamente alla catastrofe e ignara della sorte toccata a famiglia e amici, la piccola ragazzina inizia un lungo viaggio alla ricerca della propria identità e dei propri genitori biologici, di cui conserva un unico ricordo: un anello. L’incontro con due bizzarri personaggi, Bill e Betty, sarà fondamentale per la giovane, che gradualmente tenterà di riappropriarsi del futuro che le è stato strappato violentemente in una sola notte. Il desiderio di conoscere le proprie radici diventa il presupposto principale per poter ricominciare, per poter iniziare a costruire un domani, ma senza dimenticare il passato. “Il terremoto poteva tutto, ma non poteva togliere a Marina la possibilità di immaginare il suo futuro”. Con uno stile semplice e scorrevole, Ermanno Detti ci regala una toccante storia dei nostri giorni, riuscendo a riaccendere la speranza anche nei momenti più difficili, quando la disperazione e la paura sembrano prendere il sopravvento.