“Nel mare del caso” con la congiura della parola.

Giulio Gasperini
AOSTA – Esplode come un thriller, come un giallo psicologico il nuovo romanzo di Gianni Nuti, “Nel mare del caso” (Mauro Pagliai Editore, 2012). Ma il cadavere che subito si racconta, che si presenta con nome cognome e indirizzo – quasi esigenza di novello battesimo e riconoscimento sociale – non ha fretta di accompagnare il lettore al disvelamento del colpevole. Ci fornisce gli indizi, ma sempre in sottrazione, avanzando alla ricerca non tanto del (presunto) omicida, quanto della sua intima ultimazione personale, frammento su frammento, ricordo dopo ricordo; ammissione su ammissione.
La storia – la cornice più ampia – è una saga familiare: un uomo e una donna, entrambi dai pensieri silenziosi ma dai gesti pratici, si scoprono a dover amare la loro figlia affetta da tetraparesi spastica. La fredda clinicità della diagnosi pare togliere il valore umano della bambina, pare negarlo risolutamente, come se prima di tutto quell’esserino nuovo di zecca fosse un problema da risolvere e non una vita da coltivare. La guerra dei genitori comincia da subito: una guerra contro tutto il mondo. Anche contro sé stessi, auto imputati di non esser stati in grado neppure di concepire un figlio che fosse “normale”. Poi una guerra contro tutti gli altri, in un continuo sentirsi giudicati e compatiti; è un suicida gioco alla ricerca dei motivi di questo naufragio “nel mare del caso”, di questa che pare punizione riservata ai più miserabili tra gli uomini.
Nessuno, però, pare soffermarsi sulla ragazza, su Alma, che vive nei suoi tempi, che gestisce le sue pause, che alimenta le sue ragioni. Alma si fa sentire, urla disperatamente nel romanzo, proprio perché nella vita nessuno l’ha ascoltata, nessuno l’ha sentita, diffidando (e fraintendendo) della sua afasia. Nessuno, realmente, ha capito che la velocità non è la stessa per tutti. In definitiva, nessuno ha capito (o voluto comprendere) tutta la potenza della sua diversità. Forse la sorella, la piccola Paola che, nata dopo, si è trovata troppe responsabilità a gravarla, troppi significati di cui rivestire la sua esistenza. Tanto da maturare una decisione estrema, di privazione del corpo, quasi in un contrappasso che odora di punizione, di crudele inflizione.
La pregevole tessitura di tipologie narrative, dal racconto in terza persona alla lettera, forma ben calibrata di confessione, aumenta il ritmo e lo impasta di attesa, di tensione intima ed emotiva. Lo stile è diretto, scarno, con alte punte di liricità, soprattutto nella descrizione del rapporto biunivoco tra umani e ambiente. Tutto, insomma, dal punto di vista stilistico e tecnico, supporta il pellegrinaggio dell’anima di Alma, la sua significazione che altro non è se non un ultimo, disperato tentativo – ricorrendo alla parola scritta, visto che quella sussurrata, quella spezzata della voce, è stata pressoché inutile – di quantificare la propria vita: un’apologia spietata, una grammaticalizzazione intima che può contare su una consapevolezza feroce, lucida, disarmante.
Alla fine, non importa neppure aver la certezza di chi sia l’assassino, o se un assassino ci sia mai effettivamente stato. Alla fine, ciò che importa è capire la potenza e il ruolo della parola. Perché questo è un romanzo delle poche voci. Le uniche, le più, non per caso, sono quelle dei medici, della scienza: di quanto, insomma, più concreto e risolutivo possa esistere. Ma le vite, le esistenze, ebbene, loro non conoscono una parola che sia esclusiva ed esauriente. E soprattutto una parola che crea fraintendimenti. Perché la parola congiura. Spesso, la sua assenza equivoca. Non c’è possibilità d’appello, per chi non conosce il verbum. Come ci si può difendere? Soltanto gli occhi, soltanto i gesti paiono non esser abbastanza. Paiono non esser quasi nulla. Ma le ultime parole di Alma, rivolte soltanto a noi lettori, sono un testamento lirico, una decisa e risoluta ammissione di consapevolezza; mai tardiva, ma netta, inappellabile. Perché ogni vita ha una meta e non c’è mai indifferenza. Ci può essere distanza, incapacità comunicativa, insofferenza emozionale. Ma mai indifferenza.

La crisi del realismo e le angosce degli artisti del Novecento.

Michael Dialley
AOSTA – “L’arte moderna non è nata per via evolutiva dell’arte dell’Ottocento; al contrario è nata da una rottura dei valori ottocenteschi”: così si apre il saggio “Le avanguardie artistiche del Novecento”, proposto da Mario De Micheli e edito da Feltrinelli. Un manuale che aiuta il lettore a scoprire i motivi che hanno portato l’arte del Novecento a diventare così avanguardista e diversa dall’arte classica, tanto estetica e perfetta. È interessante vedere proprio come sia nata la rottura, partendo dai solidi princìpi su cui si basava l’arte realista del XIX secolo: la cornice è Parigi e a livello storico si fa riferimento a tutte le rivolte e i fermenti, politici ma anche culturali, che animano le persone; si sente quanto la concezione forte di popolo che dominava gli animi del tempo si riflettesse nelle arti e nella letteratura. Un sentimento di unità che portò gli artisti a esprimere il loro attaccamento alla condizione dell’uomo, che diventò assolutamente centrale nella realtà nella quale vive. Sentimento, questo, che portò, però, a un profonda crisi del modello e che trovò sfogo nel 1848, ma ancora di più nel 1871 dopo i tragici eventi della Comune di Parigi, che segnarono rotture con il passato e grandi rivoluzioni e cambiamenti in Francia e in tutti gli altri paesi europei.
De Micheli racconta in maniera molto chiara e precisa, con numerose citazioni, l’emblematica e profonda crisi di Van Gogh: il suo animo è lacerato dalla perdita di tutte le sue concezioni, è dilaniato dal dolore per la caduta del realismo, su cui lui ha basato tutta la sua visione del mondo. Ma nonostante la consapevolezza che tutto è perduto, l’artista afferma che “al posto di cercar di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo dei colori arbitrariamente per esprimermi in maniera più forte”. E ancora è riportato un commento a un articolo su di lui: “L’articolo di d’Aurier mi incoraggerebbe, se io osassi lasciarmi andare, a rischiare un’evasione della realtà e a fare con il colore come una musica di toni… Ma essa mi è così cara, la verità, il cercare di fare il vero, che infine io credo di preferire il mestiere di calzolaio a quello di musicista dei colori”.
Da qui, con il Novecento, si approda ad un’altra arte, ad una nuova visione del mondo che si propone come evasione dalla tanto cercata e bramata realtà ottocentesca. Le avanguardie, ecco la soluzione: ritornare alla realtà, sì, ma allo stesso tempo evadendola, cercando non una visione chiara e limpida, bensì scavando la verità andando a toccare la sua essenza più profonda. Tanti i movimenti dei primi anni del XX secolo, espressionismo e dadaismo, ad esempio, ma che non ebbero quella forza e quell’unità che servono per affermarsi davvero; forza, invece, che ha avuto il surrealismo: una forza interna sosprendente, che ha saputo unificare gli ideali e le esigenze di molti artisti che si possono tradurre con alcune parole chiave, trasformare il mondo (Marx), cambiare vita (Rimbaud), bisogna sognare (Lenin) e bisogna agire (Goethe); il tutto, in ogni caso, volto alla liberta individuale e alla libertà sociale, cercando sempre di unire sogno e realtà, razionalità e irrazionalità. Non solo bisogno di libertà e unione, ma anche necessità di una maggiore scientificità rispetto a quanto non avesse fatto l’arte impressionista: e questo è ciò che sostengono i cubisti, i quali, afferma De Micheli, “rimproveravano ai pittori dell’impressionismo di essere solo retina e niente cervello”. Ogni movimento raggiunge consapevolezze e risultati ben diversi, ma con una radice comune: ognuno è nato dalla profonda crisi, dalla spaccatura che si è creata a Parigi, verso la metà dell’Ottocento, che ha portato alla perdita del sentimento di unione, di popolo, su cui si basava la società.
Un manuale, questo di De Micheli, che permette di conoscere un po’ di più l’origine dell’arte moderna, tanto criticata, ma altrettanto amata; a volte difficile da capire, ma un’arte che ha dentro di sé tanto da dire, tanto da raccontare.

“Cicale”, il rumore dell’infanzia

Giulia Siena
ROMA 
– Marta è una cicala. Marta si sente una cicala; come loro adora il sole, il mare, Napoli, la vivacità della gente e odia andare all’asilo. Più che l’asilo in se, Marta odia essere reclusa in solo posto. Forse perché, con la sua famiglia, è sempre stata abituata a spostarsi di città in città e conoscere e scoprire nuove vite e nuove culture. Fin da piccola Marta ha una paura-attrazione per tutto ciò che vola, quindi, con la sorella Anna, lanciano di tutto dall’ottavo piano della loro abitazione partenopea. Ma la piccola protagonista a un certo punto deve scontrarsi con la realtà: la vita felice della cicale deve evolvere e intraprendere una strada. Ma Marta si ribella. Sono gli anni Ottanta e Marta Jorio è la bambina che oggi si racconta in “Cicale”, l’ultima uscita della collana Gli anni in tasca di Topipittori.

L’autrice, per raccontarsi, parte dal concetto che “si nasce e ci si forma fra le atmosfere di una precisa geografia” ed è questa geografia a fare di Marta una bambina curiosa, entusiasta e alle volte malinconica. Le sfumature malinconiche, infatti, in questo libro prendono colore: il colore dei ricordi, della forza degli adulti,  delle avventure e dei caratteri dei familiari; il ricordo di un forte terremoto, della speranza nonostante la paura.

Intervista: Valentina Edizioni, una casa piena di libri

Giulia Siena
MILANO – C’è una casa editrice a Milano che è un po’ una casa, la casa dei libri. Qui i libri vivono: vengono aperti, sfogliati, annusati e raccontati. E’ una casa piena di idee e storie, una casa che oggi ci apre le porte e si racconta. Siamo a casa di Valentina Edizioni e a scoprirne le novità ci accompagna l’editore, Valentina Brioschi.

 

“Mi piace che il luogo dove si pensano e si fanno i libri si chiami Casa. Una Casa abitata da personaggi, storie, avventure..” In questo modo Valentina Edizioni si presenta al lettore; ma come nasce la casa editrice?
La casa editrice è nata un po’ per caso, come nascono tante cose nella mia vita. Mi innamoro di qualcosa o di un’idea e credo sempre sia vincente e geniale. Mille volte ho sbagliato e qualche volta no; sicuramente la scelta di aprire una casa editrice è stata una di quelle volte in cui non ho sbagliato. Credo i nostri libri siano importanti compagni di viaggio nella crescita di un bambino, sicuramente lo sono per me, sono cresciuta; in tutti i sensi.

 

A dieci anni dalla nascita qual è il bilancio di Valentina Edizioni?
Vorrei dare alla parola “bilancio” un’interpretazione personale. Il bilancio del successo raggiunto nel mondo meraviglioso e un po’ magico dei bambini è positivissimo! No mi faccia parlare di numeri – in matematica sono sempre stata una frana – ma la passione e l’amore per il mio lavoro hanno sempre fatto sì che ogni giorno fosse un nuovo bellissimo giorno.

La Sua casa editrice si rivolge soprattutto ai giovani lettori, ai bambini, ma come è cambiato il mercato dell’editoria per ragazzi negli ultimi anni?
Il mercato dell’editoria ha sicuramente subito una forte scossa negli ultimi due anni; forse per la crisi forse per i giochi elettronici che stanno prendendo il sopravvento. Bisogna però tener duro, i nostri figli vanno cresciuti avendo la possibilità di toccare, annusare, respirare ciò che è un libro: uno scrigno dal quale escono musica e parole.

 

Tra scelte dei manoscritti, le illustrazioni, la realizzazione e la promozione dei libri, com’è la vita delle piccoli case editrici in Italia?
La vita in una piccola casa editrice è frenetica, ci si deve occupare un po’ di tutto: dallo scrivere un testo oppure correggere e accettare quello di un altro, tra scegliere le illustrazioni, correggerle, occuparsi della promozione che spesso è affidata ad esterni, il distributore da seguire con il loro calendario, i promotori… Bisogna saper fare un pochino di tutto per mantenere una struttura snella. Noi abbiamo una redazione tutta al femminile,poche teste ma geniali e multitasking.

 

Quali sono le novità autunno/inverno 2012 della Valentina Edizioni?
Le novità sono molteplici e sempre davvero carinissime. Verranno presentate molto in libreria e nelle scuole. La nuovissima e intrigante collana per ragazzi “SWITCH SIERO MUTANTE” (narrativa per ragazzi 7-12), sei episodi avvincenti con metamorfosi da brivido assicurato. LA CAPRA GOLOSA: ultimo capolavoro della serie che tratta di storie di animali distratti, altruisti e sbadati che rispecchiano l’animo dei piccoli lettori (3-7). PASSO DOPO PASSO: nella vita non bisogna mai arrendersi neanche davanti alle difficoltà più grandi. SBRIGATI MA LENTAMENTE : delizioso racconto di una tartaruga riflessiva e di una lepre esuberante. Impareranno ad accettarsi scoprendo il proprio valore. LE GALLINE NON RIESCONO VEDERE AL BUIO: basta determinazione nella vita per riuscire a vedere il mondo con occhi diversi.
TRIXIE TEN: impara l’inglese e impara ad accettare nove rumorosissimi fratelli.

 

I tre libri sui cui puntate in questo momento?
LO STRANO UOVO, un capolavoro; vorrei tanto che in questo momento il lettore ne avesse uno in mano per poterlo sfogliare e capirne il significato.
Poi, IL GRANDE LIBRO DELLE PAURE, forse ancora più bello perché nella vita bisogna imparare ad affrontare le proprie paure per sconfiggerle. Anche i più grandi hanno paura di qualcosa. PETAL PEOPLE, un meraviglioso mondo popolato da un’intera generazione di simpatici fiori. Lo sapevate che, i fiori come noi umani, hanno le medesime caratteristiche? Nell’ultima pagina il bambino troverà il semino del fiore del libro da far crescere con amore e attenzione. Conoscerà il suo personaggio.


Fare libri è..
Semplicemente meraviglioso e comunque l’unica cosa che so fare…

Passione vintage: il Salone del Libro Usato

Silvia Notarangelo
MILANO 
– I tempi non sono dei migliori e anche i numeri dell’editoria, purtroppo, lo confermano. Quasi il 10% in meno di titoli pubblicati, una flessione del 7,5% del numero di editori, un mercato che continua a scendere anche nel terzo trimestre del 2012. Difendere il libro e, con lui, l’intero settore editoriale, sta diventando una priorità imprescindibile. Buone notizie arrivano, per fortuna, da una recente ricerca condotta dalla New York University e della Carnagie Mellon University: la vendita di libri usati non solo non danneggia i nuovi testi in commercio, ma determina, indirettamente, una maggiore propensione alla lettura.

Un (buon) motivo in più per curiosare tra le oltre 500 bancarelle che, anche quest’anno, saranno protagoniste del Salone del Libro Usato. Da venerdì 7 a domenica 9 dicembre, presso Fieramilanocity, sarà possibile riscoprire il valore di testi rari e antichi, volumi pregiati, opere fuori commercio. Determinante e preziosa la collaborazione degli editori, chiamati a riproporre i propri tesori da collezione o quei tanti libri semplicemente dimenticati in un magazzino. Prime edizioni dei grandi classici, volumi autografati, gialli e paperback, fumetti introvabili, e ancora libri fotografici, stampe antiche e locandine cinematografiche: tutti potranno soddisfare i propri interessi.
Giunto alla sua ottava edizione, il Salone introduce quest’anno anche un’importante novità. Per la prima volta l’evento si apre all’intera città di Milano con una particolare quanto gradita iniziativa. Si chiama Libromaggio e prevede la distribuzione gratuita, nei giorni precedenti la manifestazione, di oltre 5000 libri reperibili presso stazioni, piazze, università. Un modo diverso, un omaggio speciale per ricordare l’appuntamento in Fiera e coinvolgere, così, un numero sempre più vasto di lettori.

“La passione di Ornella”

Luigi Scarcelli
PARMA – “Il mondo ti condanna se ami senza dignità”

Passione, una parola che indica un sentimento forte di voglia, piacere ma anche di dolore.

Ne “La passione di Ornella”, il libro di Nina Vanigli edito da Lettere Animate, tutti i significati di questa parola si riflettono nelle vicende della protagonista. Ornella è una ragazza ordinaria, che vive la sua personalissima, controversa e grottesca storia d’amore con Alessandro, una specie di angelo al rovescio, tanto bello quo crudele. Alessandro non prova amore per Ornella, ma la usa come un oggetto di sua proprietà, al servizio del suo piacere e dei suoi perversi giochi erotici. Portata allo stremo, Ornella per un attimo vedrà con lucidità il suo rapporto d’amore malato e cercherà di allontanarsene, ma l’attrazione sarà così forte da costituire una vera e propria gabbia mentale in cui la ragazza rimarrà imprigionata fino alla fine del romanzo.

Il racconto scorre veloce, nel  suo ritmo  si riflettono l’istintività e la carica delle forti tinte erotiche che contraddistinguono la trama, senza troppi fronzoli e con molta incisività. Nina Vanigli, che non è il vero nome ma uno pseudonimo dell’autrice, riesce curiosamente ad interpretare bene molte di quelle che sono tipiche fantasie erotiche maschili.

Il libro è anche, a mio avviso, un’occasione persa: il tema dell’amore cieco e perverso, che purtroppo affligge soprattutto le donne con risvolti spesso drammatici, è la punta di un iceberg fatto di aspetti istintivi, psicologici, fisici e sociali che caratterizzano i rapporti tra uomo e donna, l’ombra di quella che può essere una distinzione tra amore maschile e amore femminile e non un sentimento troppo spesso rappresentato come unico e omogeneo.

“La passione di Ornella” non si pone questi quesiti, ma guarda al lato puramente sensuale, doloroso ed erotico, in senso ampio, dell’amore. Questo ovviamente non è un aspetto negativo di per sé, ma a tratti sembra trascinare nella trama troppa superficialità: i personaggi  femminili, ad esempio, sono trattati, forse non volutamente, in maniera non troppo benevola nel momento in cui  rimangono affascinate dalla straordinaria bellezza  di Alessandro oscurando qualsiasi bestialità del suo comportamento. Lo stesso Alessandro poi è un personaggio che se fosse stato approfondito dal punto di vista caratteriale e psicologico avrebbe contribuito a dare un risvolto diverso alla trama.

 

 

“Questa mattina è arrivata una lettera”: i racconti inediti di Joseph Roth

Alessia Sità

ROMA – Sono nove i racconti contenuti in “Questa mattina è arrivata una lettera”, gli inediti scritti giovanili di Joseph Roth, editi da Passigli Editori e curati da Vittoria Schweizer.

Il ‘fil rouge’ che accomuna ogni frammento – databile presumibilmente fra il 1918 e il 1928 – sembra essere la grande capacità che l’autore ha nel creare i suoi personaggi. Si ritrovano molto spesso figure grottesche e disperate. Ogni essere umano è caratterizzato da un tormento interiore, che lo rende patetico e avvincente allo stesso tempo. Barbara, Gabriel e il protagonista di “Umanità malata” ne sono un chiaro esempio. La prima è una donna fragile ed estremamente generosa, che senza esitazione sacrifica la propria esistenza per amore del figlio; il secondo è un piccolo funzionario borghese, totalmente devoto a un lavoro che però non sembra gratificarlo abbastanza; mentre l’uomo del terzo racconto, anche egli vittima sociale, è costretto a vivere in una clinica psichiatrica, straziato dalla presenza assidua dei fantasmi del suo passato. Nei suoi scritti, Joseph Roth affronta diverse tematiche che, pur se a distanza di moltissimi anni, risultano ancora oggi molto attuali. Il lettore è spinto a riflettere e a immedesimarsi continuamente con quei personaggi che suscitano nel contempo compassione e simpatia. Racconti come “Questa mattina è arrivata una lettera” o “Giovinezza”, fanno inoltre intravedere il microcosmo personale dell’autore, che in questi frammenti descrive intimi sentimenti e figure legate alle proprie radici passate.
Quella di Joseph Roth è una scrittura elegante e metaforica, che riesce a conquistare proprio per la grande capacità introspettiva che emerge da ogni singola storia.

 

Si ride e sorride con le “Vite degli uomini illustri”

Giulio Gasperini
AOSTA – Con la Storia si può pure scherzare, e anche con la suprema arte della biografie, che già dai tempi degli antichi greci e romani ricevette una codificazione e una regolamentazione abbastanza rigida e articolata. Tanto che proprio il modello di Cornelio Nepote, con le sue “Vite degli eccellenti capitani”, è preso di mira da Achille Campanile. Il suo “Vite degli uomini illustri” (Rizzoli, 1975) è una grottesca galleria nella quale il celebre umorista inficia e stravolge tutti i più famosi aneddoti e gli episodi che hanno oramai perso il valore storico e son diventati leggenda. Si comincia da Palamede, eroe del ciclo troiano, che pare aver inventato tutto, anche la grattacacio, per proseguire con la vita di Socrate e la passione di Archimede nel sollevare il mondo.
Non si tratta di mancanza di rispetto: l’umorismo è un’arte ben più raffinata e frizzante. È l’arte che utilizza il sorriso – non il riso a bocca spiegata – per evidenziare i meccanismi puntuali dell’umanità, per colmare i vuoti inspiegabili della comprensione umana. Come nella storia di “Quel generale romano” che, come padre abbracciò il figlio trasgressore ma vincitore, ma che come capo dell’esercito lo condannò a morte. Achille Campanile sottolinea anche le fisime e le manie che una certa letteratura scolastica e una storia distratta ci hanno consegnato: così Alessandro Manzoni diventa uno scrittore attento al minimo dettaglio e all’informazione più insignificante soltanto perché così rimarrà ai posteri; e si gettano inquietanti ombre sulla vera carriera di Casanova come amatore e come scrittori di una molta ingentissima di libri e libercoli: “Uno che traduce l’Iliade in versi non ha tempo di disonorare due o tremila fra giovinette, anziane, vecchie e madri badesse!”. E poi c’è la patata, che ha tra i suoi grandi promotori niente meno che il Re di Francia, Luigi XVI, e Volta, l’inventore della patata.

Ma la narrazione delle pecche e la dissacrazione delle storie da manuale contempla persino un attacco al presente, perché ogni maschera, ogni ritratto di questa grottesca galleria, diventa exemplum, scontorna i suoi limiti e si confluisce nel giudizio sull’adesso: “Poiché ho accennato al fatto – raccontando la storia di Alfred de Musset e del caffellatte – che il cappuccino è scarso di solito, debbo aggiungere che questo difetto si fa notare anche di più nel semplice caffè. Ormai siamo proprio a un sorso. Una goccia di caffeina. Meno forte, signori, e un po’ più abbondante!”.
C’è anche spazio per un completo stravolgimento, pur sempre ironico, della Storia: ne “La scoperta dell’America”, infatti, le parti sono completamente invertite. Cristoforo Colombo è il nome che si inventa un giovane scienziato inca approdato in Europa. Come a dire che la civilizzazione delle Americhe non arrivò con l’invasione del Vecchio Continente; e che la Storia, con la S maiuscola, è tutta una questione di prospettive.

“Il posto dei tartufi”, storie di uomini, campagne e tuberi

ROMA – Una vera e propria «malattia» che, ereditata dal nonno, perdura ormai da oltre cinquant’anni: il biologo Andrea Daprati raccoglie nel libro “Il posto dei tartufi”, in libreria per Mursia, i ricordi, le tradizioni e gli aneddoti legati alla passione per la ricerca del prezioso tubero nelle colline dell’Oltrepò Pavese. I racconti delle lunghe uscite in compagnia del fidato cane Cinu e dell’amico Ciudìn, dei tartufai che al mercato spacciano con astuzia «patate» per tartufi, si mescolano ai profumi delle storie degli uomini che  animavano le campagne della parte più meridionale della Lombardia.

I ricordi d’infanzia, la gioia per zappetta da tartufi con il nome inciso sul manico ricevuta per Natale dal nonno, ma anche la costante paura che i  propri luoghi segreti vengano scoperti da un altro cercatore di tartufi, «l’essere più pericoloso che un tartufaio possa incontrare» e la conseguente predilezione per la nebbia che «sa essere discreta, complice e rendere invisibili».
L’esperienza di un autore animato da una vera e propria passione per questi pregiati tuberi e per la campagna che li offre: «nei suoli lombardi, dove la pianura tra il Po e le colline si restringe, c’è un triangolo di terra per metà piana e per metà collinare che considero il mio regno, il posto dove vivo e vado per tartufi, come mi aveva insegnato il nonno quando ero bambino».
Seguendo le orme dell’autore tra i fossi di pianura e i boschi dell’Oltrepò Pavese, scopriamo personaggi, luoghi e aneddoti protagonisti della ricerca del prezioso tubero: l’uomo e il suo cane complici nella notte stellata o alle prime luci dell’alba, protetti dalla nebbia. E poi gli animali della notte, la luce soffusa della luna che illumina appena il sentiero come in una magia, tanto che non è chiaro se a muovere la ricerca sia più la smania di trovare tartufi o il godimento nel tuffarsi tra le campagne

“Caterina fu gettata”. Vi è mai capitato di differenziare la vostra fidanzata?

Marianna Abbate
ROMA – Siamo nell’epoca della raccolta differenziata, del rispetto dell’ambiente e dei romanzi fatti con lo stampino: tutti uguali e tutti già letti. Viviamo in un mondo in cui tutto è già stato fatto e detto, comprese queste mie banalissime parole.

E allora “Caterina fu gettata” diventa un simpatico momento di astrazione. Ho letto che in internet qualcuno ha definito questo romanzo breve di Carlo Sperduti, edito da Intermezzi, come urban fantasy. Non dico che sia una definizione completamente sbagliata, ma potrebbe risultare deviante per un lettore che non sa di cosa stiamo parlando e si immagina fatine volanti e draghi sputafuoco. Si tratta di un romanzo nonsense, una narrazione sperimentale, che tanto ricorda quella corrente anni ’70 che ha visto come protagonista assoluto Calvino.

Nel mondo di Caterina si muore mille volte, ma questo non influenza in nulla la vita dei protagonisti, che continuano imperterritamente a risorgere in un trionfo di virgole e punti esclamativi, da sconvolgere Manzoni. La sperimentazione non si trova solo nella trama, assurda e decisamente astrusa, ma anche nello schema linguistico, nell’utilizzo della parola come significante, spesso privata del significato.

Un esperimento linguistico e letterario, ma nel contempo narrativo. La costruzione dei personaggi avviene attraverso le loro azioni, e non attraverso la caratterizzazione aprioristica dello scrittore, che influenza al minimo lo svolgimento degli eventi. A volte sembra di trovarsi nella casa di una coppia qualunque, dove la fidanzata sciorina nel sonno tutte le cose che odia del proprio compagno. Ma subito dopo ci ritroviamo nell’incredibile mondo astratto, dove si può buttare in un secchio gatto e fidanzata.

Un losco individuo condisce gli avvenimenti con una delicata suspense che ci fa temere chissà perché, quella morte che nel testo è un avvenimento quotidiano e abitudinario.

Devo riconoscere che la mia fantasia non è riuscita a prevedere gli eventi di questo libricino, che mi ha fatto sorridere e scuotere la testa con allegria.

 

Bellino, proprio bellino.