Laureato in italianistica (e come potrebbe altrimenti), perdutamente amante dei libri, vive circondato da copertine e costole d’ogni forma, dimensione e colore (perché pensa, a ragione, che faccian anche arredamento!). Compratore compulsivo, raffinato segugio di remainders e bancarelle da ipersconti (per perenne carenza di fondi e per passione vintage), adora perdersi soprattutto nei romanzi e nei libri di viaggio: gli orizzonti e i limes gli son sempre andati stretti. Sorvola sui dati anagrafici, ma ci tiene a sottolinare come provenga dall’angolo di mondo più delizioso e straordiario: la Toscana, ovviamente. Per adesso vive tra i 2722 dello Zerbion, i 3486 del Ruitor e i vigneti più alti d’Europa.

Una donna “Nel paese dei briganti gentiluomini”.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il suo è uno di quei nomi che riempiono la fantasia e che garba palleggiare in bocca, far esplodere in fondo alla gola: Alexandra David-Néel. Il suo è il nome di una donna che rappresenta l’avventura, prima ancora di un’emancipazione femminile che non conobbe forse esempio migliore. Alexandra fu golosa di strada; il richiamo del cammino, degli orizzonti sempre nuovi, delle terre da scoprire e battezzare fu un canto irresistibile, un imperativo improrogabile. Mai nascose i suoi bisogni dietro imposizioni altrui, né opinioni o pregiudizi: quando, nel 1911, partì per l’Oriente, lasciò il marito con una semplice lettera. Voland ha riproposto, recentemente, “Nel paese dei briganti gentiluomini”, che racconta il primo tentativo di Alexandra di raggiungere Lhasa e viaggiare attraverso il Tibet, dove ancora nel 1920 nessun occidentale aveva mai messo piede; tantomeno una donna.
La descrizione che Alexandra fa dei luoghi attraversati e la narrazione della sua avventura trasmettono prepotentemente tutta la sua passione per l’oriente, per codeste terre avvolte nel mistero, dove lo spirito d’adattamento deve primeggiare e nei quali l’arditezza e il coraggio non erano mai troppe. Puntuale in ogni dettaglio, attenta a spiegare ogni nuovo concetto e ogni parola mai pronunciata dagli occidentali, Alexandra si palesa anche come abile insegnante e come puntuale divulgatrice. Non c’è sguardo imparziale, nella sua visuale; c’è il punto di vista di una donna uguale a nessun’altra che sa, conosce e quel che ignora lo vuole presto imparare, così da non sentirsi mai impreparata di fronte a nulla che le possa accadere. Il cammino della pellegrina Alexandra attraverso le terre inesplorate e avverse è descritto e significato soprattutto attraverso gli incontri, le tangenze di persone, le frasi e le parole scambiate: la lungimiranza della sua visione umana e cosmopolita, in una sorta di pacifica globalizzazione culturale e sociale, sorprende e fors’anche un po’ spiazza. Ma la saggezza che si distilla da questo racconto è il tratto distintivo di una donna la cui vita stessa è un racconto appassionante di avventura. Dal 1914 al 1916, ad esempio, mentre il mondo sprofondava nel delirio e nella furia della prima guerra mondiale, Alexandra praticò esercizi spirituali in una caverna in Sikkim e nel 1921, all’età di cinquantatré anni, riuscì a entrare a Lhasa, travestita da pellegrino tibetano.
Desiderosa di vita vagabonda, Alexandra viaggiò, studiò, scrisse. Seppe come dar senso alla vita, come far gemmare una passione, come trasformare il viaggio in una forma sorprendete e superiore di cultura. E, per concludere l’epica, visse fino a cent’anni.

I 10 libri del Natale da Giulio.

Giulio Gasperini
AOSTA – Il Natale è la festa per eccellenza: la ricorrenza dell’anno più temuta e attesa, più celebrata e odiata. Ma non è mai ignorata. Non è possibile farlo. Tutto il mondo, da ogni suo angolo, in ogni sua declinazione, ci ricorda che è Natale. E che siamo costretti a viverlo.
Per quest’anno, un po’ di libri vintage (“Il panettone non bastò” di Dino Buzzati e “Un sogno di Natale e come si avverò” di Louisa Mary Alcott), qualche tocco di alta letteratura (“Sogno di Natale e altri racconti” di Luigi Pirandello e “Ricordo di Natale” di Truman Capote), un affondo nell’arte (“Nascere. Il Natale nell’arte” di Andrea Dall’Asta), incursioni in paesi lontani (“L’oratorio di Natale” di Göran Tunström e “Tutta colpa dell’angelo” di Christopher Moore), un velo di mistero (“Il caso del dolce di Natale” di Agatha Christie e “Babbo Natale giustiziato” di Claude Lévi-Strausse) e, soprattutto, il libro di Natale più bello che sia mai stato scritto da mano umana (“Canto di Natale” di Charles Dickens).
Sereno Natale a tutti voi, amici lettori e amiche lettrici!

 

“Donna di piacere”, nel dare e nell’avere.

Giulio Gasperini
AOSTA – Non c’è mai luogo migliore al mondo di quello al quale si sente di appartenere. E Chiara, dal nome che splende, scovò in un sogno al limite del mistico la casa nella quale rifugiarsi e compiersi. “Ella era stata una signora, divenne una puttana, incontrò un angelo”: ecco il percorso che Barbara Alberti, nel suo romanzo “Donna di piacere” (Mondadori, 1980), tratteggia per questa donna che si concede, ogni tanto, il peccato del misticismo.
Il bordello di Madame Goullon è un luogo di piaceri, dati e avuti. È un santuario dell’amore, dove gli uomini sanno che possono sempre trovare qualche soddisfazione ai loro desideri. Ma è anche un luogo dove le ragazze, dalla Nichilina a Elvira alla Damina, praticano il mestiere più antico del mondo non perché costrette, obbligate, ma solamente perché pure amanti. Non si tratta di un lavoro, per loro, ma di una missione, di una vocazione: rendere felici gli uomini, alleviare un po’ le loro sofferenze. Ovvio, qualcheduna sogna ancora il vero amore, il principe che finalmente un giorno giunga e le sposi, le conceda il diritto di far parte della società, di poter finalmente, anche loro, avere una parte di socialità. Ma il desiderio rimane quasi sempre vano; sicché il bordello è anche asilo, luogo di ricovero e di salvezza per ragazze che fuggono situazioni familiari insostenibili o che si muovo spinte da un bisogno irresistibile di altro. Così come fa Chiara.
Chiara era una signora, sposa di un uomo di nome Ottiero. La promessa tra loro era perfetta: “Staremo insieme, solo finché sarà perfetto”. Nessun altro obbligo, nessun’altra regola. Solo quella. Andò tutto bene, fino al giorno della rottura, quando la famiglia, “l’antico strumento di tortura”, cominciò a soffocare, a opacizzare l’orizzonte. Sant’Amara, di notte, le apparve e le disse di fuggire nella casa della sua visione: quel luogo era proprio il bordello di Madame Guillon, e lì Chiara si rifugiò, cominciando a fare la puttana per gioco, un po’ per passione, ma anche per curiosità. Ed è lì che incontrò un angelo, l’omosessuale Emilio, che lei aiutò ad affrancarsi dal morboso maschilismo del padre ma che non seppe trattenere a sé quando lui rischiò di correre incontro a morte certa. Ben presto Chiara si sentirà poco adatta al mestiere: non tutte riescono a essere delle brave puttane e c’è bisogno di passione, oltre che di perizia e bravura. Sa, però, con la stessa chiarezza di prospettive, che oramai non potrà mai lasciare quel luogo: il suo castello, il rifugio dei suoi giorni, la difesa contro le meschinità del mondo. E troverà un altro scopo nella sua vita…
È una favola, quella di Chiara, quella di tutte le ragazze di Madame Goullon. E Barbara Alberti la racconta con la sua solita grazia, con l’attenzione alle sfumature della natura femminile, con un’ironia garbata e mai volgare, con un sorriso sempre fiorito sulle labbra. Il genio dell’Alberti è incontenibile. La sua perizia nel saper essere leggera inarrivabile.

Un libro e gli scaffali. Sui vantaggi degli sconti promozionali, dal produttore al consumatore.

Alberto Gobetti
Tirano (SO) – Non esistono molti studi sul rapporto che intercorre fra reddito e consumo di libri. Fra i pochi disponibili a riguardo, ve ne segnalo uno in lingua inglese, facilmente scaricabile a questa pagina. Tale indagine, riguardante il mercato domestico norvegese, rileva una stretta dipendenza del consumo di libri dal reddito: più questo è elevato, vi si legge, maggiore è la propensione all’acquisto di questo particolare genere di bene d’intrattenimento. Dati provenienti dal mercato svizzero parrebbero confermare in toto quest’analisi: i 7,5 milioni di svizzeri acquistano 40 milioni di libri all’anno (dati 2007) corrispondenti ad un valore di mercato di un miliardo di franchi (830 milioni di euro). In Italia, ove la popolazione è di 8 volte superiore e il reddito medio è inferiore del 40%, si sono venduti nel 2011, 106 milioni di pezzi per un valore di 1.398. Il confronto fra spesa media procapite è eloquente: 110 euro per la Svizzera, 23 per il nostro paese. Notarsi, per altro, che il costo medio per pezzo del libro svizzero risulta assai maggiore che in Italia: 21 euro contro 13. Un pronunciamento referendario ha recentemente bocciato la legge federale che obbligava editori e importatori a fissare il prezzo di copertina. Tale legge, fortemente appoggiata dai librai indipendenti e osteggiata dalle grandi catene, si poneva l’obiettivo di calmierare i prezzi. In Italia, la norma entrata in vigore l’anno scorso ha cercato di regolamentare scontistica e offerte, fissando specifiche condizioni di tempo e di durata per le promozioni. I fautori del libero mercato vi hanno visto una distorsione delle regole della concorrenza, i librai l’hanno salutata come una misura opportuna contro chi ha opportunità finanziarie ed organizzative incommensurabilmente superiori alle loro (in primis, le grandi vetrine di vendita online, Amazon e Ibs su tutte).
La nuova legge è stata accolta con molte remore dai grandi editori. Fra i big, se Mondadori si è mostrata più ligia e rispettosa delle regole, Rizzoli (che comprende i marchi Rizzoli, Bompiani, Fabbri, Adelphi, Marsilio, Etas, Archinto, Sonzogno e Skira) ha adottato da subito un comportamento spregiudicato, che non è piaciuto all’Associazione Librai Italiani (ALI).
Che è accaduto? Eccolo spiegato in breve.
Molti di voi avranno acquistato l’ultimo Ken Follett, o Jeffery Deaver, o Paolo Coelho, approfittando dello sconto del 25% sul prezzo di copertina. E qualcuno di voi avrà trovato strano una promozione così forte già a partire dal primo giorno di uscita. La cagione di essa è spiegata dalle leggi che regolano il rapporto fra domanda e offerta di libri. Nello specifico, benché l’affermazione non goda di consensi unanimi, pare che la domanda di libri sia piuttosto sensibile alla variazione di prezzo. Uno studio danese risalente al 2000 citato nel documento norvegese sopra riportato stima un coefficiente di elasticità di circa 1,4. Ciò significa che a fronte di uno sconto del 10% il venduto incrementa del 14%. Pare anche che la domanda aggregata sia meno sensibile al prezzo di quanto non lo siano le vendite del singolo titolo. Il che vuol dire che pochi libri promozionati stimolano la domanda assi più di molti libri promozionati. Sulla base di queste constatazioni, la scontistica sulle novità di Rizzoli sembrerebbe destinata a dare un ritorno economico apprezzabile e a tradursi – addirittura – in un incremento del ricavo rispetto alla vendita a prezzo pieno. Ovviamente, tuttavia, l’effetto primario di una tale mossa afferisce alla dimensione dell’immagine, poiché va a stimolare la sottile sensazione di gratitudine che ogni cliente avverte a fronte dello sconto riconosciutogli.
A fronte di tanti vantaggi per compratori e venditori è importante capire perché l’ALI abbia così aspramente criticato la mossa di Rizzoli. Furono i librai sardi, la scorsa estate, a denunciare la campagna sconti intrapresa sul bestseller di Carofiglio “Il silenzio dell’onda”. Come ben spiega l’articolo reperibile a questa pagina il motivo della polemica riguarda il maldestro tentativo da parte di Rizzoli di accollarne il costo ai librai, senza prevedere in loro favore nessuna compensazione. A questo proposito è bene ricordare che su un libro da 19 euro (tale era il prezzo del testo incriminato) il libraio indipendente che goda condizioni di trattamento ordinarie da parte del grossista ha un margine di 5,47 euro lordi (pari al 28,8%), anche se coloro che trattano direttamente con l’editore possono incrementare questo margine di un 5/7% aggiuntivo. Al netto delle spese di porto-imballo e di trasporto (l’una imposta per coprire le spese di imballaggio, l’altra a compenso del vettore), il 29% pocanzi calcolato (o 34/36% come piace) cala fino al 26 (o 31/33). Nell’ipotesi di uno sconto del 25%, quindi, il margine del libraio si riduce a meno del 2% (0,32 centesimi, stando alla nostra simulazione). In pratica, una vendita a prezzo di costo: con massimo vantaggio per l’editore e sacrificio tutto a carico della parte più debole della catena commerciale (con buona pace delle dichiarazioni paradossali e mistificatorie del direttore commerciale di Rcs).
Alla denuncia non si è ovviato con misure compensatorie. I librai che si servono dai grossisti, ad esempio, sono oggi costretti ad acquistare i libri promozionati con sconti del 25% usufruendo di ribassi del costo di acquisto nell’ordine del 9%. Una ripartizione non proprio equa dei sacrifici…
In questo cozzar d’interessi parrebbe emergere un unico vantaggio certo, quello del consumatore finale di libri. Ma è così? Può darsi. Eppure, se si guardano i prezzi di copertina, qualche dubbio viene. La domanda dovrebbe essere: cosa giustifica un esborso di 25 euro per il nuovo Ken Follett? Fintanto che lo si acquista in promozione lo si paga 18,75 ma, terminata quella, il prezzo torna pieno. Mi si dirà che l’analogo americano in hardcover costa 36 dollari: ma è pur vero che nei paesi anglosassoni tale opera è uscita immediatamente anche in brossura, al prezzo di euro 15,90. E non è il costo industriale della copertina rigida ad incidere (in genere il costo s’aggira sull’euro a copia per tirature medie). E’ ovvio che la fissazione del valore commerciale di un bene sconta molte variabili e incorpora valutazioni complesse. Eppure resto convinto che gli alti sconti servano a distrarre l’attenzione dall’eccessivo costo dei beni promozionati.
Una mia opinione, naturalmente.

Crisi, spread e welfare nel Vecchio Continente.

Dalila Sansone
GRAZ – Uno dei tratti distintivi delle crisi, crisi come definizione generale, è l’estrema confusione. Quella economica, quella finanziaria con tutto il loro corteggio di effetti-declinazioni non fanno eccezioni. Confusione perché l’effetto crisi è un po’ effetto valanga: travolge, ti travolge e quando stai nel mezzo non distingui più niente e se provi a mettere a fuoco un obiettivo tutto quello che sta nella mischia contribuisce a diluire la comprensione. “Non ci possiamo più permettere uno stato sociale. FALSO!” di Federico Rampini per Laterza è un bell’esempio di come in mezzo a tanta confusione si possa provare a fare chiarezza. Per punti, tesi e antitesi in maniera semplice. Rampini parla di stato sociale (welfare per chi lo preferisce), lo fa da corrispondente a New York e con un passato da residente in Cina, con un minimo di cognizione di causa del fatto che stato sociale non è ente astratto ma riflesso concreto sul quotidiano e l’effetto di quel riflesso cambia, e molto, a seconda di come lo si intenda o lo si neghi. Certo se si parla di stato sociale si parla anche di economia, di finanza, si parla delle presidenziali degli Stati Uniti in cui il modello europeo è stato messo sul piatto come esanime, concausa del fallimento. Ma appunto le approssimazioni e le generalizzazioni non sortiscono mai grandi risultati e prima di condannare a morte un imputato, meglio valutarne la presunzione di innocenza. Rampini in sei brevi e efficacissimi capitoli mette a confronto il modello americano e quello europeo, analizza le differenze interne allo stato sociale europeo lungi da potersi interpretare sintesi di un caleidoscopio di realtà profondamente diverse. Lo fa fuori dai tecnicismi e ci spiega perché il debito serve in maniera comprensibile a chi non mastica pane e economia, perché le politiche di austerità siano una contraddizione di termini e, proprio in Europa, chi se ne fa portavoce si fondi su uno stato sociale forte e consolidato. Cerca le radici culturali delle discrasie di un Europa che forse in qualcosa ha tradito ma che è stata anche tradita. Tradita da chi si è trovato tra le mani il risultato ancora in divenire di un progetto ambizioso voluto da gente, popoli e governanti, che usciva dal disastro del secondo conflitto mondiale e intendeva opporre la costruzione alla disgregazione dei particolarismi.
Tra una Germania che incarna il modello sociale europeo e si è dimostrata storicamente incapace di esportarlo e l’Italia, la grande malata dell’euro, si sta giocando un rapporto di forza il cui vero senso gli avvoltoi dello spread contribuiscono ad allontanare dalla percezione della gente comune, quella che poi ne paga le conseguenze. Ed è proprio la gente comune che necessita di chiarezza e consapevolezza e non di notizie sulle continue variazioni di differenziale, è una questione culturale, d’identità democratica, di riconoscimento dell’identità democratica dei popoli che si governano. D’altra parte crisi è etimologicamente scelta, questa crisi può essere opportunità di scelta: “La storia non è una gabbia. Il mondo è pieno di nazioni che hanno saputo ‘svoltare’, hanno reagito a decenni o perfino secoli di un declino che sembra irreversibile: dalla Cina all’india al Brasile, abbiamo formidabili esempi di popoli che hanno sconfitto la forze di inerzia, hanno saputo imprimere un corso diverso alla loro storia. A noi l’opzione, a noi decidere quale modello considerare il nostro. È molto più di una scelta politica, è una scelta di civiltà.”

“Non mi piacciono i racconti con troppe coincidenze”. Conversando ad Aosta con Deborah Monica Scanavino.

Giulio Gasperini
AOSTA – Ci siamo conosciuti a un delizioso festival, Babel, che qui ad Aosta si tiene tra fine aprile e inizio maggio. Andai alla presentazione del suo libro, una raccolta di racconti intitolata “L’appartamento e altri racconti” (edito dalla END Edizioni) e le proposi un’intervista. Anzi, una chiacchierata. E così è stato. Quella che ho cercato di riprodurre è proprio una conversazione, tra una cedrata e una tazza di tè, che ci siamo concessi, per più di tre ore, ai tavoli del “CAFé-librairie” di Aosta. In barba alla claustrofobicità dei monti, che tanti additano e accusano.

 

Alcuni dettagli di questi racconti mi hanno colpito; soprattutto le pagine che parlano più della contemporaneità. I racconti “Sexting” e “Thinspiration”, principalmente, sono molto interessanti anche perché io non avevo francamente idea che esistessero tali pratiche e non avevo mai letto un’analisi così attenta. “Sexting” m’ha colpito tantissimo: proprio anche questa terminologia inglese sparsa che dà proprio un’idea di freddezza. Questa ragazza che vive un comportamento come se fosse una cosa dovuta, quasi; senza neppure elaborarla in prima persona perché così va fatto, quella è l’impostazione che una determinata cultura ti dà. E questa terminologia secondo me lo scandisce molto bene, perché son tutti termini anche molto usati: termini tecnici che rendono ancora più asettico quello che viene compiuto.
Esatto, volevo proprio indicare questo iato tra la vita di questa ragazza qua, che sicuramente, come dici tu, mette in gioco valori che lei stessa non riconosce assolutamente. Questo racconto l’ho scritto per il concorso “Donne in opera” che quell’anno aveva come argomento “il corpo” e siccome io sono ossessionata dall’idea di essere originale, quando partecipo ai concorsi cerco sempre di declinare l’argomento nella maniera più originale possibile. Cerco, cioè, proprio la cosa che mi interessa ma che declino proprio nel modo che nessun’altra delle partecipanti fa. E mi piaceva quest’idea qua perché cercando in internet, sui blog e anche sui giornali erano uscite queste storie di ragazzine che vendevano le loro foto pornografiche via sms in cambio di ricariche di cellulare; dopo, intervistate o comunque sentite, dicevano: “Beh ma dov’è il problema, cioè che differenza c’è tra una mia foto e il calendario della Belen? Non c’è nessuna differenza proprio” e questa rappresenta una caduta dei valori: mi piaceva proprio l’idea di far parlare queste ragazzine in prima persona.


E infatti quello che a me ha colpito molto in tutti questi testi è proprio questa angoscia, questa sorta di irrimediabilità di un finale, questa accelerazione all’inevitabile, a quello che non è più scongiurabile.
Sì ma perchè io non posso scrivere di amore, non sono capace.
E quando scrivi d’amore, comunque, direbbe Gianna Nannini è “un amore cannibale”. Nel libro, però, l’amore da qualche parte c’è, tipo in “Ciò che ho di più importante” – una sorta di horror erotico -. Talmente cannibale da finire sottoterra. E anche in “Un dolce per te”…
Sì, quello è un po’ diverso perché lui è innamorato ma lei non lo segue. Più che altro nel primo, “L’appartamento”, c’è un amore particolare, in cui loro sono molto vicini e molto in sintonia…

Però è nel contesto di una società completamente disinteressata: l’appartamento lascia il vuoto nel palazzo e addirittura si richiede l’autorizzazione per quel buco, quel vuoto, e invece è ben più importante: è un’umanità che è sparita ed è andata chissà dove…
E continua a sparire: ad esempio, dall’altra parte del mondo ci sono tre coppie che spariscono di nuovo e magari spariscono anche altre perché nessuno se ne accorge. Questo è il paradosso. Perché a me piacciono comunque le storie che finiscono e fanno piangere. Io adoro Stephen King; mi è capitato di leggere un suo libro in cui i protagonisti alla fine si sposano, ma a me piacciono i finali che mi lasciano un po’ di angoscia dentro: li trovo più belli, più emotivi; mi emozionano di più rispetto a sapere che i protagonisti sono felici, perché forse la felicità, almeno da un punto di vista dei racconti, è limitante, e anche perché l’infelicità è una situazione dalla quale tu puoi uscire e puoi, poi, diventare felice. Tra l’altro, secondo me, un libro non finisce con l’ultima pagina: o il protagonista muore e allora lì è finito, è morto, però un libro, un racconto, mostra solo una parte della vita di un personaggio perché poi il personaggio dopo continua la sua vita anche se non è scritta, quindi io nella mia mente mi costruisco il suo futuro, me lo immagino.


Il genere del racconto si presta molto bene a questa scelta; offre un’opportunità maggiore, rispetto a un romanzo, di costruire più parti, più frammenti…
I finali che scrivo sono molto aperti. Lasciano al lettore la possibilità di prendere i dati che ho scritto e riutilizzarli immaginando quale possa essere il futuro. Alcuni miei amici si lamentano dei finali e mi dicono: “Tieni il lettore per mano e poi lo lasci lì”. È però questa una precisa mia scelta stilistica.

Funziona molto bene: questi son racconti costruiti con una pregevole accelerazione. Ad esempio, “Il ragno”. Impressionante proprio il fatto che quest’ansia claustrofobica nasce proprio dal quotidiano, dagli aspetti più rassicuranti.
Una delle paura più grandi, più irrazionali è di non essere al sicuro in posti dove dovremmo esserlo.


Che credo sia la paura in tempi come questi. La quotidianità dovrebbe essere la protezione più certa e sicura. La casa, ad esempio, è la cosa più quotidiana che abbiamo. Il nostro nido. Tutto lì dentro.
Io ho trovato veramente nella mia casa questo ragno che si dibatteva testardo. Quando ero piccola, mi divertivo a rompere sempre la sua ragnatela, ma avevo i sensi di colpa perché lui la rifaceva sempre. Ha ragione il ragno. L’istinto vince… esatto, e l’idea di questo ragno abbozzolato mi piaceva. Questo ragno che cresce mano a mano e non si sa bene cosa accada. C’è questo finale aperto, c’è il buio che non significa proprio la morte… eh sì, perché in questo caso lei rimane comunque tutta imbozzolata dentro la tela del ragno come se fosse morta. Non c’è luce, non c’è aria. Non dà subito l’idea istantanea della morte… No, più dell’angoscia, dell’agonia che chissà come poi si evolve.

 

Sono racconti che creano un’impressione appena finito di leggerli, un’impressione che dopo è difficile da cambiare. Analizzare troppo fa perdere molto del valore che hanno: è giusto che istinto rimanga. L’agghiacciante è proprio questo pericolo incombente del quotidiano: dal cucinare la torte, dalla farina sulle mani che apre uno scenario impressionante – anche perché non verosimile – però preoccupante.
Son racconti simbolici, perché il racconto sulle torte è un po’ splatter, preso da una situazione normale: un mio amico che fa torte, te le regala ma non le mangia mai con te. Lo trovavo triste e ho provato a crearci un racconto. Il protagonista è sotto ipnosi e non si rende conto di farle con ingredienti maledetti: contro la sua volontà.


E la realtà di oggi quanto entra in questi racconti? Sono estraniate da date ed eventi.
Ho scritto questi racconti nell’arco di 5 anni. Il primo, “La maledizione”, voleva essere un omaggio alla città di Aosta. L’ultimo è “L’ultima salita”. Io amo il noir e l’horror, anche se ci sono generi più contemporanei: “Sexting” e i racconti sull’anoressia. Io cerco di agganciarmi alle paure più ancestrali. Vorrei parlare di paura, scrivere un horror che fa paura adesso come l’avrebbe fatto cinquant’anni fa.

Anche le paure del contemporaneo?
Esatto, soprattutto la paura di non avere punti di riferimento: essere in balia, non essere sicuri. Quello che faccio è delineare la paura in una storia nella quale mancano punti di riferimento. Le paura ci sono sempre, con il benessere o con il non benessere. Paradossalmente, nel momento in cui c’è il benessere, come nel primo racconto, c’è questo maggior distacco, tra ricchezza e insicurezza generale di vita. Anche se stai bene, se hai fatto il massimo per garantirti una vita serena, succede qualcosa che ti fa smarrire.


È evidente anche una certa solitudine dei sentimenti e delle reazioni, delle decisioni prese in solitaria. In questo senso, il racconto più esplicativo è “Dopotutto”.
Volevo raccontare la storia di una donna che subisce uno shock biografico, cioè un evento, come un lutto, un fallimento, che crea una frattura, che distrugge, che devasta la vita della persona. Nel racconto ho scelto di parlare di una violenza sessuale. Ho cercato di informarmi il più possibile, su blog, su internet. La protagonista ha subìto questa grande tragedia nella sua vita, che ha segnato una specie di solco e lei cerca distrattamente per tutta la durata del racconto di dimenticare, di far finta che non sia esistito, finché non si rende conto che l’unica cosa da fare è accettare questa distruzione, questo cambiamento, e andare avanti: riconoscere quello che è successo ma … Dimenticare è impossibile… Però il cambiamento avviene in una condizione di solitudine estrema, o volontaria o involontaria.
Quando hai un problema sei veramente tu da solo a doverlo gestire.

Anche negli altri racconti le decisioni prese sono prese da sole. Anche quando uno si fa del male se lo fa da solo. Anche lei, in “Dopotutto”, dice che è colpa mia, si colpevolizza. È una condizione che attraversa un po’ tutti questi racconti, che sono tecnicamente e stilisticamente molto accelerati: spingono velocemente verso una fine inevitabile. Non è facile scrivere un racconto che ti tiene dalla partenza all’arrivo in sospeso. In “L’elfo fratello” va in scena la decostruzione dell’uomo; e alla fine rimane solo il meccanismo che fa andare avanti in maniera inerziale. Anche qui la solitudine c’è, perché non c’è nessuno che ti rallenta in questa corsa: si consuma tutto nello spazio ridotto. I racconti, in generale, non sono facili, da scrivere; nella tradizione italiana abbiamo pochi autori degni di questo nome…
Perché i racconti vengono valutati poco. Le stesse case editrici son le prime a non valorizzarli.

Il pubblico italiano è anche meno abituato di altri alla fruizione del racconto, ma in generale nel nostro paese manca proprio una tradizione del racconto. Il romanzo è più semplice perché ti permette di recuperare, in altre parti, eventuali cali di tensione narrativa. Il racconto, all’opposto, non dà possibilità di recuperare. I tuoi son racconti che narrativamente funzionano in maniera eccezionale. Interessantissimi, ancora, quelli sull’anoressia, già a cominciare dal titolo…
Ho scritto “Le bambole non mangiano” perché avevo una compagna di scuola che aveva una forma pura di anoressia; lei ha scritto un libro sulla malattia, io l’ho letto e secondo me non diceva le cose come andavano dette. Ho scritto un racconto perché è la mia dimensione. Mi sono iscritta su myspace, ho creato un profilo, ho dovuto mettere delle foto in cui ero molto magra perché altrimenti non ci sarebbe stato un contatto con nessuna, e ho cominciato a conoscere tante ragazze. Una aveva scritto sul suo profilo “Dolls don’t eat”: secondo me il titolo rendeva molto bene l’idea. Quest’idea di essere come bambole: non soffrire, non amare, non mettersi in gioco, non far nulla che potesse fare male; preservare la bambola e preservarti nell’anima. Alcune concetti trasformati in racconto le ho derivati dai colloqui avuti con le ragazze, alcune delle situazioni son prese proprio dalle loro vite. È la mia visione della malattia: la fiammella se non ce l’hai dentro nessuno può far niente. “Le bambole non mangiano” è, per altro, uno dei pochi miei racconti che finisce bene: nel senso che la protagonista arriva a capire di poter vivere, pur avendo questa forma di malattia sempre accanto.


Parliamo della ricerca che fai per scrivere…
Io faccio tantissima ricerca quando scrivo perché il mio insegnante di scrittura creativa, che è anche il mio editore, mi ha spiegato questa cosa: quando tu scrivi devi sapere quello di cui stai scrivendo. Per questo faccio tantissima ricerca ed è una parte molto interessante della scrittura. Per “L’ultima salita”, ad esempio, sono andato addirittura alla sede delle guide alpine per sapere come potrebbe essere un cadavere che cade giù da una montagna: la descrizione del cadavere me l’ha data una guida!


Gran parte della ricerca, a quanto ho capito, avviene tramite la dimensione del blog, che oramai fa parte del nostro mondo: è quasi una nuova forma di cultura, che non si fa più sulla carta…
Permette di venire a contatto anche con persone che hanno i tuoi interessi. È un modo più facile e naturale, anche per le possibilità di aprirsi, di confidare le cose.


Le ombre, invece? Qui, nei racconti, ce ne sono tante di ombre… Citi anche King; e Faletti, in apertura. L’ombra che cos’è?
Io sono speleologa; amo molto le ombre e il buio. Quando vado in grotta, ci sono momenti in cui cerco di restare da sola e spengo la luce: mi piace stare qualche minuto completamente al buio nella grotta e ascoltare i rumori. Sono molto più affascinata dal buio però, perché le ombre si muovono, sono più angoscianti.

Danno anche l’idea che qualche cosa ci sia, mentre il buio ti dà l’illusione che non ci sia nulla. Dall’ombra, io ti chiederei di Aosta. A me, trasferito da poco tempo, mi ha dato l’impressione di essere una città molto ombrosa, densa di ombre…
L’ombra ognuno ce l’ha dentro, e se ce l’ha dentro ce la può avere da ogni parte. Io amo molto Aosta e non posso dare ad Aosta la colpa delle ombre che ci sono. A livello architettonico Aosta è una città storica, fondata dai Romani, e prima ancora dai Salassi. Non ha ombre, Aosta; ha la storia. E la storia è fatta dalle persone. Se ci sono ombre nella città, non sono ombre della città ma delle persone che l’hanno abitata e vissuta.


Per questa presenza di antico e di nuovo, Aosta è una città composita: in una forma che neppure Roma è. Roma è molto più ariosa, ti dà la possibilità di scindere e capire quello che vedi. Aosta produce questo effetto molto compatto, quasi come se questi strati di storia si accavallassero, si sovrapponessero anche irregolarmente. Una città ribelle, a questo livello. Un po’ per la conformazione geografica, un po’ per il poco spazio dove costruire: Aosta ha un aspetto molto affascinante.
Aosta è particolare perché quello che più la caratterizza è il freddo. Non è una città comune, ma una città a misura d’uomo: ti dà delle possibilità, degli spazi da ritagliarti, che da altre parti non hai. Ma soprattutto devi combattere con il freddo. E il freddo, a differenza del caldo, non ti permette di lasciarti andare: il freddo devi combatterlo.


Anche è una città che stupisce: in pochi hanno percezione della ricchezza di Aosta. Ci sono dei resti archeologici che neanche a Roma ci sono più, come, ad esempio, il criptoportico. È una città anche molto nascosta, costruita sotto tutto quello che è cresciuto sopra: un aspetto che io avvicino alle ombre, come qualcosa che si cela.
Nei miei racconti le ombre sono sempre nell’interiorità dei personaggi, mentre invece l’ambiente è sempre abbastanza accogliente.


Nel racconto “La chiromante”, invece, ci sarebbe da chiederti se credi nel destino o nel caso…
Io non credo nel destino, nelle streghe, nei fantasmi, non credo nella vita dopo la morte e scrivo di queste cose proprio perché, non credendoci, posso usare uno sguardo di fantasia. Credo nella scienza. Credo nella casualità. Non mi piacciono i racconti con troppe coincidenze, perché nel racconto le situazioni devono avere una loro logicità. Nei racconti, le situazioni sono normali ma prendono delle pieghe interessanti, purché coerenti: è questo quello che cerco con la mia scrittura.

“Che cosa ti aspettavi?”

Dalila Sansone
GRAZ – È la domanda che Stoner scandisce ripetutamente alla fine del romanzo, la domanda che sa non appartenergli per sé stesso o per la sua storia bensì perché arrivato al momento di confrontarsi con la vera consapevolezza. “Stoner” di John Williams è un libro pubblicato negli Stati Uniti nel 1965 e edito in lingua italiana da Fazi editore solo quest’anno. È un crescendo eccellente che annaspa nella parte iniziale, languendo in una grigia monotonia, quasi che la vita riflettesse il colore degli occhi di Stoner, dove l’emozione è relegata a un balenare improvviso quanto effimero, un fulmine la cui rapidità fa dubitare persino della sua esistenza. Ma poi accade qualcosa, accadono tanti qualcosa, e il sentore di fallimento, mai pronunciato, mai paventato, si dilegua e dalle scale di grigio emergono i colori, emerge la luce che accompagna espressioni piene dell’esistenza di uno zelante professore della Columbia University.
Ma non esistono i lieto fine, non esistono le morali da favole riduttive perché la realtà è molto più complessa e anche la felicità sa che prima o poi la sua consacrazione passa per l’abdicazione. E così la luce torna a scivolare in quei toni di grigio che non sono metaforici ma vere descrizioni di ambienti e colori; compare il senso di vuoto nello spegnersi della passione, di qualunque passione, che ha la conseguenza devastante di vanificare tutto anche ciò a cui non è apparentemente collegata. Poi ritorna il quotidiano, ritornano i ruoli e accade anche che l’amarezza scuota e sia la spinta a opporsi a un certo fluire della vita che appare inutile ma i risultati “sono solo vittorie ottenute con la noia e l’indifferenza” e non cambiano niente.
Forse nessun dettaglio è davvero rilevante e a quelli che abbiamo ritenuto tali, e ai quali si è stati costretti a rinunciare, la attribuiamo noi l’irrilevanza nel tentativo di farne la radice del distacco prima dall’emozione, poi dalla memoria. È un modo di inscenare l’esistenza, portare avanti il teatro della propria vicenda personale, guardando avanti e evitando di voltarsi indietro nella convinzione imposta che non ci sia niente da ritrovarci. Tutto questo fino a quando proprio dall’osservazione di un dettaglio, al termine di una vita trascorsa dagli anni venti al secondo dopoguerra inoltrato, è l’analisi di una presunzione di fallimento (questa volta evocato) che spinge a farsi quella domanda – Cosa ti aspettavi? –. La risposta sta nella consapevolezza del peso dell’accumularsi di quei dettagli. “La coscienza della sua identità lo colse con una forza improvvisa, e ne avvertì la potenza. Era se stesso e sapeva cosa era stato.”
Il merito di Williams e di aver descritto un’esistenza anonima (potentissima la frase breve, concisa, che segnando un passaggio della storia di Stoner finisce col descriverne profondamente l’animo: “Imparò il silenzio e mise da parte il suo amore”) lasciandola sempre tale con una prosa assolutamente lontana dall’esistenzialismo fine a sé stesso. La lingua racconta in maniera semplice, un semplice che sa di naturale, a volte quasi di inevitabile, divagando solo nello spazio lasciato all’erudizione a sottolineare la distanza tra l’esistere, la vita vissuta di un uomo, e i tentativi di volerla forzatamente ricondurre a delle categorie. Tentativi che non ne esauriranno mai comunque la comprensione e che troppo spesso finiscono per distogliere l’attenzione dall’aspetto più dirompente di quelle vite vissute: l’unicità.

“Nel mare del caso” con la congiura della parola.

Giulio Gasperini
AOSTA – Esplode come un thriller, come un giallo psicologico il nuovo romanzo di Gianni Nuti, “Nel mare del caso” (Mauro Pagliai Editore, 2012). Ma il cadavere che subito si racconta, che si presenta con nome cognome e indirizzo – quasi esigenza di novello battesimo e riconoscimento sociale – non ha fretta di accompagnare il lettore al disvelamento del colpevole. Ci fornisce gli indizi, ma sempre in sottrazione, avanzando alla ricerca non tanto del (presunto) omicida, quanto della sua intima ultimazione personale, frammento su frammento, ricordo dopo ricordo; ammissione su ammissione.
La storia – la cornice più ampia – è una saga familiare: un uomo e una donna, entrambi dai pensieri silenziosi ma dai gesti pratici, si scoprono a dover amare la loro figlia affetta da tetraparesi spastica. La fredda clinicità della diagnosi pare togliere il valore umano della bambina, pare negarlo risolutamente, come se prima di tutto quell’esserino nuovo di zecca fosse un problema da risolvere e non una vita da coltivare. La guerra dei genitori comincia da subito: una guerra contro tutto il mondo. Anche contro sé stessi, auto imputati di non esser stati in grado neppure di concepire un figlio che fosse “normale”. Poi una guerra contro tutti gli altri, in un continuo sentirsi giudicati e compatiti; è un suicida gioco alla ricerca dei motivi di questo naufragio “nel mare del caso”, di questa che pare punizione riservata ai più miserabili tra gli uomini.
Nessuno, però, pare soffermarsi sulla ragazza, su Alma, che vive nei suoi tempi, che gestisce le sue pause, che alimenta le sue ragioni. Alma si fa sentire, urla disperatamente nel romanzo, proprio perché nella vita nessuno l’ha ascoltata, nessuno l’ha sentita, diffidando (e fraintendendo) della sua afasia. Nessuno, realmente, ha capito che la velocità non è la stessa per tutti. In definitiva, nessuno ha capito (o voluto comprendere) tutta la potenza della sua diversità. Forse la sorella, la piccola Paola che, nata dopo, si è trovata troppe responsabilità a gravarla, troppi significati di cui rivestire la sua esistenza. Tanto da maturare una decisione estrema, di privazione del corpo, quasi in un contrappasso che odora di punizione, di crudele inflizione.
La pregevole tessitura di tipologie narrative, dal racconto in terza persona alla lettera, forma ben calibrata di confessione, aumenta il ritmo e lo impasta di attesa, di tensione intima ed emotiva. Lo stile è diretto, scarno, con alte punte di liricità, soprattutto nella descrizione del rapporto biunivoco tra umani e ambiente. Tutto, insomma, dal punto di vista stilistico e tecnico, supporta il pellegrinaggio dell’anima di Alma, la sua significazione che altro non è se non un ultimo, disperato tentativo – ricorrendo alla parola scritta, visto che quella sussurrata, quella spezzata della voce, è stata pressoché inutile – di quantificare la propria vita: un’apologia spietata, una grammaticalizzazione intima che può contare su una consapevolezza feroce, lucida, disarmante.
Alla fine, non importa neppure aver la certezza di chi sia l’assassino, o se un assassino ci sia mai effettivamente stato. Alla fine, ciò che importa è capire la potenza e il ruolo della parola. Perché questo è un romanzo delle poche voci. Le uniche, le più, non per caso, sono quelle dei medici, della scienza: di quanto, insomma, più concreto e risolutivo possa esistere. Ma le vite, le esistenze, ebbene, loro non conoscono una parola che sia esclusiva ed esauriente. E soprattutto una parola che crea fraintendimenti. Perché la parola congiura. Spesso, la sua assenza equivoca. Non c’è possibilità d’appello, per chi non conosce il verbum. Come ci si può difendere? Soltanto gli occhi, soltanto i gesti paiono non esser abbastanza. Paiono non esser quasi nulla. Ma le ultime parole di Alma, rivolte soltanto a noi lettori, sono un testamento lirico, una decisa e risoluta ammissione di consapevolezza; mai tardiva, ma netta, inappellabile. Perché ogni vita ha una meta e non c’è mai indifferenza. Ci può essere distanza, incapacità comunicativa, insofferenza emozionale. Ma mai indifferenza.

La crisi del realismo e le angosce degli artisti del Novecento.

Michael Dialley
AOSTA – “L’arte moderna non è nata per via evolutiva dell’arte dell’Ottocento; al contrario è nata da una rottura dei valori ottocenteschi”: così si apre il saggio “Le avanguardie artistiche del Novecento”, proposto da Mario De Micheli e edito da Feltrinelli. Un manuale che aiuta il lettore a scoprire i motivi che hanno portato l’arte del Novecento a diventare così avanguardista e diversa dall’arte classica, tanto estetica e perfetta. È interessante vedere proprio come sia nata la rottura, partendo dai solidi princìpi su cui si basava l’arte realista del XIX secolo: la cornice è Parigi e a livello storico si fa riferimento a tutte le rivolte e i fermenti, politici ma anche culturali, che animano le persone; si sente quanto la concezione forte di popolo che dominava gli animi del tempo si riflettesse nelle arti e nella letteratura. Un sentimento di unità che portò gli artisti a esprimere il loro attaccamento alla condizione dell’uomo, che diventò assolutamente centrale nella realtà nella quale vive. Sentimento, questo, che portò, però, a un profonda crisi del modello e che trovò sfogo nel 1848, ma ancora di più nel 1871 dopo i tragici eventi della Comune di Parigi, che segnarono rotture con il passato e grandi rivoluzioni e cambiamenti in Francia e in tutti gli altri paesi europei.
De Micheli racconta in maniera molto chiara e precisa, con numerose citazioni, l’emblematica e profonda crisi di Van Gogh: il suo animo è lacerato dalla perdita di tutte le sue concezioni, è dilaniato dal dolore per la caduta del realismo, su cui lui ha basato tutta la sua visione del mondo. Ma nonostante la consapevolezza che tutto è perduto, l’artista afferma che “al posto di cercar di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, io mi servo dei colori arbitrariamente per esprimermi in maniera più forte”. E ancora è riportato un commento a un articolo su di lui: “L’articolo di d’Aurier mi incoraggerebbe, se io osassi lasciarmi andare, a rischiare un’evasione della realtà e a fare con il colore come una musica di toni… Ma essa mi è così cara, la verità, il cercare di fare il vero, che infine io credo di preferire il mestiere di calzolaio a quello di musicista dei colori”.
Da qui, con il Novecento, si approda ad un’altra arte, ad una nuova visione del mondo che si propone come evasione dalla tanto cercata e bramata realtà ottocentesca. Le avanguardie, ecco la soluzione: ritornare alla realtà, sì, ma allo stesso tempo evadendola, cercando non una visione chiara e limpida, bensì scavando la verità andando a toccare la sua essenza più profonda. Tanti i movimenti dei primi anni del XX secolo, espressionismo e dadaismo, ad esempio, ma che non ebbero quella forza e quell’unità che servono per affermarsi davvero; forza, invece, che ha avuto il surrealismo: una forza interna sosprendente, che ha saputo unificare gli ideali e le esigenze di molti artisti che si possono tradurre con alcune parole chiave, trasformare il mondo (Marx), cambiare vita (Rimbaud), bisogna sognare (Lenin) e bisogna agire (Goethe); il tutto, in ogni caso, volto alla liberta individuale e alla libertà sociale, cercando sempre di unire sogno e realtà, razionalità e irrazionalità. Non solo bisogno di libertà e unione, ma anche necessità di una maggiore scientificità rispetto a quanto non avesse fatto l’arte impressionista: e questo è ciò che sostengono i cubisti, i quali, afferma De Micheli, “rimproveravano ai pittori dell’impressionismo di essere solo retina e niente cervello”. Ogni movimento raggiunge consapevolezze e risultati ben diversi, ma con una radice comune: ognuno è nato dalla profonda crisi, dalla spaccatura che si è creata a Parigi, verso la metà dell’Ottocento, che ha portato alla perdita del sentimento di unione, di popolo, su cui si basava la società.
Un manuale, questo di De Micheli, che permette di conoscere un po’ di più l’origine dell’arte moderna, tanto criticata, ma altrettanto amata; a volte difficile da capire, ma un’arte che ha dentro di sé tanto da dire, tanto da raccontare.

Si ride e sorride con le “Vite degli uomini illustri”

Giulio Gasperini
AOSTA – Con la Storia si può pure scherzare, e anche con la suprema arte della biografie, che già dai tempi degli antichi greci e romani ricevette una codificazione e una regolamentazione abbastanza rigida e articolata. Tanto che proprio il modello di Cornelio Nepote, con le sue “Vite degli eccellenti capitani”, è preso di mira da Achille Campanile. Il suo “Vite degli uomini illustri” (Rizzoli, 1975) è una grottesca galleria nella quale il celebre umorista inficia e stravolge tutti i più famosi aneddoti e gli episodi che hanno oramai perso il valore storico e son diventati leggenda. Si comincia da Palamede, eroe del ciclo troiano, che pare aver inventato tutto, anche la grattacacio, per proseguire con la vita di Socrate e la passione di Archimede nel sollevare il mondo.
Non si tratta di mancanza di rispetto: l’umorismo è un’arte ben più raffinata e frizzante. È l’arte che utilizza il sorriso – non il riso a bocca spiegata – per evidenziare i meccanismi puntuali dell’umanità, per colmare i vuoti inspiegabili della comprensione umana. Come nella storia di “Quel generale romano” che, come padre abbracciò il figlio trasgressore ma vincitore, ma che come capo dell’esercito lo condannò a morte. Achille Campanile sottolinea anche le fisime e le manie che una certa letteratura scolastica e una storia distratta ci hanno consegnato: così Alessandro Manzoni diventa uno scrittore attento al minimo dettaglio e all’informazione più insignificante soltanto perché così rimarrà ai posteri; e si gettano inquietanti ombre sulla vera carriera di Casanova come amatore e come scrittori di una molta ingentissima di libri e libercoli: “Uno che traduce l’Iliade in versi non ha tempo di disonorare due o tremila fra giovinette, anziane, vecchie e madri badesse!”. E poi c’è la patata, che ha tra i suoi grandi promotori niente meno che il Re di Francia, Luigi XVI, e Volta, l’inventore della patata.

Ma la narrazione delle pecche e la dissacrazione delle storie da manuale contempla persino un attacco al presente, perché ogni maschera, ogni ritratto di questa grottesca galleria, diventa exemplum, scontorna i suoi limiti e si confluisce nel giudizio sull’adesso: “Poiché ho accennato al fatto – raccontando la storia di Alfred de Musset e del caffellatte – che il cappuccino è scarso di solito, debbo aggiungere che questo difetto si fa notare anche di più nel semplice caffè. Ormai siamo proprio a un sorso. Una goccia di caffeina. Meno forte, signori, e un po’ più abbondante!”.
C’è anche spazio per un completo stravolgimento, pur sempre ironico, della Storia: ne “La scoperta dell’America”, infatti, le parti sono completamente invertite. Cristoforo Colombo è il nome che si inventa un giovane scienziato inca approdato in Europa. Come a dire che la civilizzazione delle Americhe non arrivò con l’invasione del Vecchio Continente; e che la Storia, con la S maiuscola, è tutta una questione di prospettive.