“Il ragazzo selvatico” e la montagna come specchio dell’anima

Il ragazzo selvaticoMichael Dialley
AOSTA – “Il ragazzo selvatico” è il nuovo romanzo di Paolo Cognetti, pubblicato da Terre di mezzo editore: racconta di un ragazzo che dalla città è partito per andare a ritrovare se stesso, ritrovare le sensazioni vissute da bambino, in montagna. È un viaggio reale quello che il ragazzo ha intrapreso, ma dalla lettura emerge il potere straordinario della montagna, delle sue difficoltà e delle sue bellezze, che rispecchiano appieno l’interiorità dell’uomo alla ricerca di qualcosa, nella speranza di raggiungerla.
La vita cittadina è frenetica, caotica, mentre nel romanzo si dice che la montagna rappresenta “l’idea più assoluta di libertà”. Si cerca, quindi, un ritorno a ciò che è semplice ed essenziale; tra le molte citazioni, potenti e belle, di cui è disseminato il romanzo, c’è anche il manifesto di Thoreau, filosofo e scrittore statunitense del XIX secolo, in cui si racconta: “Andai nei boschi perché volevo vivere secondo i miei princìpi, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, per vedere se fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto”.
Una montagna che è sia immagine da cartolina, fatta di scorci stupendi, paesaggi e panorami incontaminati che si possono solamente trovare nei sogni, ma anche una montagna sempre più urbanizzata: purtroppo è il destino delle Alpi in questi anni, andare incontro a una sempre maggiore urbanizzazione per creare un terreno di gioco per i cittadini che vanno in vacanza.
Sempre più spesso si dimentica il valore della montagna, valore che i montanari sentivano nel profondo del loro animo e che nel romanzo emerge grazie a questa fuga dalla città in cerca degli antichi valori e delle emozioni infantili vissute; ma anche una presa di consapevolezza dell’importantissimo lavoro che nei secoli è stato fatto: “Il paesaggio intorno a me, dall’aspetto così autentico e selvaggio, fatto di alberi, prati, torrenti e sassi, era in realtà il prodotto di molti secoli di lavoro umano, era un paesaggio artificiale tanto quanto quello della città”.
Nei secoli questo lavoro è stato graduale, ma ha cercato sempre di non stravolgere l’aspetto della montagna. Oggi, però, c’è l’amara consapevolezza della realtà e la modernità viene raccontata così: “Con la fine del ‘900 arrivò anche quella del vecchio albergo: venduto, demolito e ricostruito per farne un condominio”. Ciò che rattrista, però, è che “di quel luogo, come scriveva Stern, sono rimaste ora solamente queste mie parole”.
Questo romanzo breve, ma intenso e denso di significati, è un’analisi della realtà delle Alpi, di ciò cui vanno incontro e di come la visione della montagna sia diversa, tra un montanaro e un cittadino e turista.

“Delitto a Villa Ada”, il movente poetico di un omicidio

ROMA “E più sono intelligenti più sono pericolosi, creda a me che li conosco. Quello che è successo a Villa Ada si spiega solo così”. 

A differenza di tutti quelli che a Villa Ada ci vanno solamente per la corsa mattutina, Vasco Sprache nella villa ci vive e lo fa come un barbone. Nonostante sia un poeta conosciuto e un uomo di bell’aspetto, Sprache ha fatto del parco la sua casa e personalizza i viali appendendo agli alberi le sue poesie. Un giorno, però, viene ritrovato morto. Da questo delitto partono le indagini del commissario Sperandio, figlio di professori universitari e ultra quarantenne con il pallino per la poesia. Sperandio, infatti, è tra coloro che tutte le sere, dopo lavoro, si dedicano a comporre versi e la mattina, prima di recarsi a lavoro, con qualsiasi clima, si reca a Villa Ada per correre. E Sperandio conosce bene il parco e i suoi anfratti e, attraverso gli interrogatori per scoprire il colpevole del delitto, conosce anche tutti coloro che corrono e hanno un qualche rapporto con la poesia. Tra questi c’è Giorgio Manacorda, il professore universitario in “odore di nobel” che ha ritrovato il cadavere di Vasco Sprache.

 

Giorgio Manacorda in “Delitto a Villa Ada” – pubblicato da Voland – diventa personaggio, maggior indiziato per l’omicidio e forse vittima anche lui di un mistero che si gioca sul filo del verso poetico.

La trama del racconto è avvincente e il libro si dipana fino all’ultima pagina arricchendosi di colpi di scena e rimandi letterari (i nomi degli indiziati sono i cognomi di poeti italiani celebri, l’amicizia dell’autore con Pasolini, il ruolo “banalizzato” della poesia e lo scontro perenne tra ispirazione poetica e qualità letteraria). Autoironico e irriverente è Manacorda che scrive una favola noir dalle sfumature linguistiche e stilistiche degne del suo nome e del suo personaggio anche fuori dal romanzo.

Nuove Edizioni Romane: “Piccole donne oggi”

Giulia Siena
ROMA – Era il 1880 quando Louisa May Alcott pubblicò “Piccole donne”, il libro diventato un classico della letteratura per ragazzi. La storia era quella di Meg, Jo, Beth e Amy, le quattro sorelle March, fanciulle molte diverse tra loro che vivevano la propria quotidianità nell’America dell’Ottocento. Dopo oltre un secolo dalla prima edizione del grande romanzo della Alcott, dalla penna di Angela Nanetti nasce “Piccole donne oggi”. Pubblicato dalle Nuove Edizioni Romane, “Piccole donne oggi” racconta la storia di quattro sorelle adolescenti che vivono le proprie passioni e le proprie diversità con entusiasmo e coinvolgimento.
Marta, Diana, Margherita e Isabella vivono con papà Marcello,  mamma Francine e nonna Miranda nell’Azienda Agricola Boschetto a chilometro zero. Infatti, l’ingegner Roggi – il padre delle ragazze – ha deciso di cambiare vita e andare a vivere con la famiglia in campagna, di prendersi cura dei campi, di vendere i prodotti della terra e di trasformare la grande casa nella loro dimora. Tutto per le ragazze Roggi cambia in un’estate: Marta, la più grande, è sempre alle prese con il cellulare e i social network e per questa storia del trasferimento in campagna è sempre di pessimo umore. Marta vorrebbe fuggire; vorrebbe andare in Francia a e sognare insieme al suo amico di chat, oppure prendere il motorino e raggiungere il paese, tornare alla vita. Tornare alla sua normalità. Ma il suo tentativo di fuga sfuma e deve impiegare le vacanze a studiare e a mungere (è un’attivita rilassante!); forse, però, la vita al Boschetto non è poi così male… Marta si scopre affascinata nell’osservare sua madre. Diana “la dea della caccia”, è proprio il caso di dirlo; Diana, la secondogenita, ha i colori del padre e la stessa passione per la natura. Lei è una boyscout dalle idee chiare, dall’animo green e dalla forte personalità. Diana, infatti, è la saggia di casa: ascolta, incoraggia e media tra Margherita e Isabella. Queste ultime sono le piccole di casa Roggi e tra loro è un continuo battibecare perché sono così diverse e così legate: Margherita, con la sua delicatezza attira le coccole e le attenzioni di mamma e questo fa andare su tutte le furie la piccola “scienziata”. Isabella infatti aspira a essere una scienziata, nella grande casa del Boschetto ha il suo laboratorio, viviseziona i piccoli animali e ha come amico un asino.
La loro vita si svolge così, con qualche imprevisto e cambiamento fino alla prima nevicata. La neve cambierà le ragazze e saranno pronte ad affrontare tutte le altre estati insieme.

 

Angela Nanetti non delude. Il libro coinvolge, la storia è articolata e i personaggi hanno l’ottima capacità di muoversi in tutte le situazioni del racconto. La trama del romanzo, nonostante quanto si possa pensare dal titolo, non è scontata. Le tematiche affrontate sono molteplici e raccontate con una facilità di scrittura che rende “Piccole donne oggi” un classico per tutte le età.

 

“Le estati non sono tutte uguali, ci sono quelle che passano nascoste e altre che ti cambiano la vita. E nemmeno gli autunni sono tutti uguali, perché le foglie che cadono non sono mai le stesse e neanche le piogge. Ecco perché quell’estate e quall’autunno furono per loro così importanti…”

“Nessuna esperienza richiesta”: felici e precari

Marianna Abbate
ROMA  Ho conosciuto un tale di quarant’anni con il posto fisso statale e più di cinquemila euro (!) di stipendio che amava definirsi “precario della vita” (sic!). A nulla è valsa la mia faccia disgustata e il mio tentativo di spiegare che “precariato” non è una condizione dovuta alle scelte personali, all’inettitudine e alla pigrizia, ma uno stato di disagio sociale strutturale. Il precario non si arrende, il precario rema controcorrente, insiste. Se si fosse arreso, quel contratto a breve scadenza non l’avrebbe mai trovato, o sarebbe già scaduto. I precari non sono dei falliti: è il sistema ad essere fallimentare.

Descentio, il protagonista di “Nessuna esperienza richiesta“, edito da Intermezzi, non è un fallito. Nonostante ci si senta fortemente.

Gianluca Comuniello ci ritrae con la tecnica del cubismo pittorico, tutti gli aspetti della sua personalità, tutti gli aspetti della sua vita, senza mai svelarlo completamente. Cambi repentini di narratore aiutano a mostrare quel senso di instabilità, di insoddisfazione e sempre più tangibile disagio che accompagnano Descentio in tutta la sua storia.

Perché Gianluca si sente un po’ Descentio, e forse l’unica cosa che non li accomuna è questo nome parlante, che sembra segnare disgraziatamente il destino dell’uomo di carta. Un nome volutamente altisonante, che invoca una gloria passata in opposizione all’attuale ineluttabile discesa.

Uno stato che non affligge solo il protagonista, ma un po’ tutti i suoi conoscenti, dall’amica sfortunata, all’esule calabrese. Tutti tranne una: Greta, la ex che non sbaglia un colpo. quella che quando dice cosa ha studiato, nessuno le fa le condoglianze.

Bhè io le farei le condoglianze ad uno che ha studiato agraria, non per amore della terra ma per mero calcolo. Ma che ne posso sapere io, che faccio l’impiegata contabile, dopo la mia bellissima e commovente laurea in lettere.

L’ultima nota va all’editore: Intermezzi si conferma un unicum nel panorama editoriale italiano. La capacità di scegliere libri complessi, innovativi anche nella forma e la scelta di scommettere sul “vero” nuovo, dà una piacevole ventata di freschezza e porta la speranza che giovani scrittori capaci esistono. Forse servirebbe un pelino in più di editing.

 

“Memorie dall’innocenza”, quando l’errore aveva un altro volto

Marianna Abbate
ROMA – La parola memoria non ha un significato statico, perfettivo, come quello della parola “ricordo”. Avere memoria comporta un impegno, un coinvolgimento della persona. Comporta sentimenti, sensazioni, emozioni. Il ricordo è un’immagine fissa, una fotografia del passato, una tela dipinta e ormai incorniciata. La memoria è un quadro in fieri: tieni ancora in mano il pennello e stai ancora scegliendo i colori che comporranno l’immagine. Hai ancora qualcosa da dire, qualcosa da cancellare, qualcosa di cui pentirti e qualcosa da focalizzare. La memoria cambia.

Ed è la memoria la vera protagonista di questo breve romanzo di Serena Frediani, edito da Avagliano. “Memorie dall’innocenza” utilizza l’antico escamotage dell’amnesia post-traumatica, per scavare nell’inconscio dei protagonisti. Vittime di un incidente ferroviario, due persone che non hanno apparentemente nulla in comune, si trovano a ripercorrere la loro vita in un viaggio metaforico, che li porterà a rivalutare scelte e decisioni compiute in passati ormai lontani. Riemerge in loro un dimenticato bisogno di perdono, per quelle colpe sopite, nascoste sotto strati di altri ricordi. E se anche le loro storie sono molto diverse, il dolore sembra essere lo stesso.

 

Bellissimo lo stile narrativo della Frediani. Frasi sospese, tensione intrinseca ed emozioni. Le parole seguono il flusso dei pensieri, ma senza perdersi nelle divagazioni naturali della mente. Sempre focalizzata sulla trama, l’autrice riesce a trasmettere le paure e le incertezze dei suoi protagonisti.

 

Daria e Jean, due figure che vi ricorderete.

 

“Grace Kelly”: il ritratto dell’indimenticabile principessa, icona di stile e seduzione

 

Alessia Sità
ROMA – La storia di un mito senza tempo si anima fra le pagine del romanzo biografico di Andrea Carlo Cappi, intitolato “Grace Kelly. La principessa di ghiaccio”, pubblicato da Aliberti editore. La vita della giovane americana, che da grande star di Hollywood diventa principessa di Monaco, nasconde in realtà ribellioni, scandali, solitudine, vittorie e infinita determinazione. Con accurata attenzione, Andrea Carlo Cappi ripercorre la biografia della donna, della diva, della sovrana e della madre, svelando retroscena poco noti al grande pubblico.
Proveniente da una famiglia benestante, fin da subito Grace manifesta la sua insofferenza nei confronti delle scelte paterne; e dopo aver rinunciato a un matrimonio conveniente, decide di trasferirsi a New York per trovare lavoro in televisione. Il suo fascino e la sua eleganza non passano di certo in secondo piano, e con il suo innato charme, ben presto, conquista i grandi divi hollywoodiani, Aga Khan, il Presidente John Fitzgerard Kennedy, lo scià di Persia e Alfred Joseph Hitchcock. Per la regia del grande ‘maestro del brivido’, che contribuì a consacrarla sul grande schermo, Grace interpretò ben tre capolavori cinematografici: “Il delitto perfetto” (1954), “La finestra sul cortile” (1954) e “Caccia al ladro” (1955). Fu sul set di quest’ultimo film, girato nel Principato di Monaco, che conobbe il futuro marito. E il 19 aprile del 1956, l’attrice che è stata principessa sullo schermo – ne “Il cigno”(1956) – lo diventa anche nella vita reale, sposando il principe Ranieri III. Dopo le nozze, Grace abbandona il cinema per dedicarsi agli impegni e alle sorti del Principato. Nonostante tutto, però, l’idea di ritornare sulle scene non l’abbandonò mai, fino alla tragica morte avvenuta il 13 settembre 1982. La dinamica del fatale incidente resta ancora oggi avvolta nel mistero. Sono molte le ipotesi avanzate e smentite nel corso degli anni. Negli anni ’90 si diffusero addirittura delle voci di una presunta affiliazione della principessa all’Ordine del Tempio Solare e qualcuno volle vedere l’ombra del complotto dietro la terribile tragedia. Il mondo però continuerà a ricordare la principessa non solo per la sua bellezza senza tempo, ma anche per il suo temperamento esuberante e allo stesso tempo glaciale, che contribuì a influenzare l’immaginario collettivo anche in ambito culturale. Infatti, come sostiene anche l’autore, Grace ispirò la sensuale Eva Kant, apparsa per la prima volta nel 1963, nel celebre fumetto ‘Diabolik’.

A quasi più di trent’anni dalla sua morte, il ricordo della ‘principessa di ghiaccio’ continua a essere molto forte e il suo stile e la sua eleganza fanno ancora oggi sognare tante giovani donne.


La forza di raccontare

Giulia Siena
ROMA
– “Se non puoi aggiungere giorni alla vita prova ad aggiungere vita ai giorni.” Questo è quello che si ripete Anne-Dauphine da quando il primo marzo, nel giorno del secondo compleanno di Thais, scopre che sua figlia è malata. Thais, la sua bambina, presto sarà portata via da una malattia. Il tiranno tanto temuto si chiama Leucodistrofica metacromatica. Il nome le fa paura, ma forse, a farle più paura sono quei piccoli ed esitanti passi sulla sabbia bagnata lasciati da Thais sulle spiagge della Bretagana. Comincia così la storia di una madre che racconta con amore e minuzia la malattia genetica di sua figlia.
“Due piccoli passi sulla sabbia bagnata” è il primo libro di Anne-Dauphine Julliand, giornalista e scrittrice francese, che nel romanzo di Bompiani racconta due anni della propria vita: sfide, dolori e scommesse.

Il giorno del secondo compleanno di sua figlia, Anne-Dauphine scopre che la bambina, con il passare del tempo, non potrà più correre, sorridere e parlare. Con il tempo i movimenti di Thais diventeranno più lenti, sempre più lenti, fino a spegnersi. L’allegria e la curiosità della bambina saranno annientati da questo mostro oscuro, da questa lenta e inesorabile coltre che offuscherà le giornate della sua famiglia. E cosa ne sarà del bambino che ora porta in grembo Anne-Dauphine? La nuova gravidanza, quel piccolo germoglio che sta crescendo nel suo grembo, è minato dal mostro che ha catturato ora Thais? Domande, dubbi e perplessità accompagneranno i protagonisti di questa storia per due anni di vita, un periodo in cui la caparbia e l’amore hanno combattuto con forza il dolore.

“Due piccoli passi sulla sabbia bagnata” è il resoconto di come la vita possa essere riscritta al presente; vivendola ogni giorno, nonostante tutto.

“50 smagliature di Gina”: dalla trilogia alla sana ironia

 

Alessia Sità

ROMA – “Hai dei bellissimi piedi. Hai una bellissima voce. Hai una bellissima protesi sulla testa del femore. Quando una Gina invecchia, coi complimenti si è costretti a scavare il fondo del barile.”
Gina: s.f. Femmina della specie umana, dotata di grande capacità autocritica e di 50 mila smagliature di interiorità ed esteriorità. Insofferente a qualsiasi attività fisica – che non sia lo shopping sfrenato – e tragicamente affetta da diverse sindrome: da quella di Stendhal o dello stendino a quella della Piccola Fiammiferaia. Tratti particolari: la Gina, generalmente è accoppiata, sposata o impegnata con un esemplare gigiesco.
Quello appena tracciato non è che un sommario identikit della tipica Gina di cui parla Rossella Calabrò nel suo ultimo lavoro: “Cinquanta smagliature di Gina”, edito da Sperling&Kupfer. Dopo aver svelato ‘il lato b della trilogia più hot dell’anno’ (“50 sbavature di Gigio“), in cui descrive l’apparente ‘dramma’ di aver un Gigio per casa, la brillante blogger torna in libreria con una sana dose di umorismo per parlare – da Gina a Gina e da Gina a Gigio – di quelle piccole imperfezioni che ci accomunano e allo stesso tempo ci rendono uniche nel nostro universo femminile. Non è facile scegliere quale smagliatura raccontare, dal momento che sono una più divertente dell’altra; ma sappiate che per ognuna di esse esiste un’unica soluzione. Nessuna arma, infatti, è più potente dell’autoironia per combattere inestetismi, imperfezioni e dilemmi esistenziali. Quante volte ci perdiamo nei meandri della nostra mente, nel tentativo di decifrare quel presunto messaggio subliminale che si nasconde dietro un’osservazione esterna? Basta poco per mandarci in crisi. Per esempio, se un’amica ci trova un po’ stanche, noi pensiamo subito di essere terribilmente brutte. Se il nostro uomo riceve un banale sms, il nostro istinto deleterio ci porta subito alla conclusione che ha l’amante. Se la bilancia ci ‘annuncia’ di aver ‘guadagnato’ un etto in più, ecco che davanti a noi si palesa la triste e tragica (ir)realtà di essere ormai obese e senza alcuna speranza. Alt!!!! Fermiamoci. Ricomponiamoci e resettiamo queste assurde convinzioni.  La speranza c’è, e – come dice, anzi scrive Rossella Calabrò – ‘è l’ultima a smagliarsi’. Basta arrovellarsi la mente e il corpo per compiacere i nostri compagni o mariti. Proviamo a guardarci con altri occhi e a sorridere delle nostre smagliature, dei nostri rotolini di ciccia, delle nostre ‘braccia a pipistrello con conseguente onda d’urto’. Non esiste trattamento più efficace dell’autoironia per renderci irresistibili. In fondo, “quando con un uomo ci sentiamo libere di essere totalmente noi stesse, quello è l’uomo giusto”; e pazienza se il nostro Gigio continuerà a baciarci sugli occhi appena truccati… Ricordate: la perfezione non esiste, anzi come dice Rossella Calabrò: “La perfezione è un’immensa cazzata”.

 

“Questa mattina è arrivata una lettera”: i racconti inediti di Joseph Roth

Alessia Sità

ROMA – Sono nove i racconti contenuti in “Questa mattina è arrivata una lettera”, gli inediti scritti giovanili di Joseph Roth, editi da Passigli Editori e curati da Vittoria Schweizer.

Il ‘fil rouge’ che accomuna ogni frammento – databile presumibilmente fra il 1918 e il 1928 – sembra essere la grande capacità che l’autore ha nel creare i suoi personaggi. Si ritrovano molto spesso figure grottesche e disperate. Ogni essere umano è caratterizzato da un tormento interiore, che lo rende patetico e avvincente allo stesso tempo. Barbara, Gabriel e il protagonista di “Umanità malata” ne sono un chiaro esempio. La prima è una donna fragile ed estremamente generosa, che senza esitazione sacrifica la propria esistenza per amore del figlio; il secondo è un piccolo funzionario borghese, totalmente devoto a un lavoro che però non sembra gratificarlo abbastanza; mentre l’uomo del terzo racconto, anche egli vittima sociale, è costretto a vivere in una clinica psichiatrica, straziato dalla presenza assidua dei fantasmi del suo passato. Nei suoi scritti, Joseph Roth affronta diverse tematiche che, pur se a distanza di moltissimi anni, risultano ancora oggi molto attuali. Il lettore è spinto a riflettere e a immedesimarsi continuamente con quei personaggi che suscitano nel contempo compassione e simpatia. Racconti come “Questa mattina è arrivata una lettera” o “Giovinezza”, fanno inoltre intravedere il microcosmo personale dell’autore, che in questi frammenti descrive intimi sentimenti e figure legate alle proprie radici passate.
Quella di Joseph Roth è una scrittura elegante e metaforica, che riesce a conquistare proprio per la grande capacità introspettiva che emerge da ogni singola storia.

 

“Caterina fu gettata”. Vi è mai capitato di differenziare la vostra fidanzata?

Marianna Abbate
ROMA – Siamo nell’epoca della raccolta differenziata, del rispetto dell’ambiente e dei romanzi fatti con lo stampino: tutti uguali e tutti già letti. Viviamo in un mondo in cui tutto è già stato fatto e detto, comprese queste mie banalissime parole.

E allora “Caterina fu gettata” diventa un simpatico momento di astrazione. Ho letto che in internet qualcuno ha definito questo romanzo breve di Carlo Sperduti, edito da Intermezzi, come urban fantasy. Non dico che sia una definizione completamente sbagliata, ma potrebbe risultare deviante per un lettore che non sa di cosa stiamo parlando e si immagina fatine volanti e draghi sputafuoco. Si tratta di un romanzo nonsense, una narrazione sperimentale, che tanto ricorda quella corrente anni ’70 che ha visto come protagonista assoluto Calvino.

Nel mondo di Caterina si muore mille volte, ma questo non influenza in nulla la vita dei protagonisti, che continuano imperterritamente a risorgere in un trionfo di virgole e punti esclamativi, da sconvolgere Manzoni. La sperimentazione non si trova solo nella trama, assurda e decisamente astrusa, ma anche nello schema linguistico, nell’utilizzo della parola come significante, spesso privata del significato.

Un esperimento linguistico e letterario, ma nel contempo narrativo. La costruzione dei personaggi avviene attraverso le loro azioni, e non attraverso la caratterizzazione aprioristica dello scrittore, che influenza al minimo lo svolgimento degli eventi. A volte sembra di trovarsi nella casa di una coppia qualunque, dove la fidanzata sciorina nel sonno tutte le cose che odia del proprio compagno. Ma subito dopo ci ritroviamo nell’incredibile mondo astratto, dove si può buttare in un secchio gatto e fidanzata.

Un losco individuo condisce gli avvenimenti con una delicata suspense che ci fa temere chissà perché, quella morte che nel testo è un avvenimento quotidiano e abitudinario.

Devo riconoscere che la mia fantasia non è riuscita a prevedere gli eventi di questo libricino, che mi ha fatto sorridere e scuotere la testa con allegria.

 

Bellino, proprio bellino.